giovedì 24 gennaio 2008

La guerra fredda secondo Mike Nichols tra satira e qualunquismo - Recensione de La guerra di Charlie Wilson


Dopo il promiscuo e ben riuscito Closer, Mike Nichols torna nelle sale in questi giorni con La guerra di Charlie Wilson. Pellicola che racconta le vicende dell’impegno di un deputato liberal, Charlie Wilson per l’appunto, maniacalmente dedito alle belle donne, alle buone azioni e al whisky d’annata, nella guerra segreta fatta ai russi in quel dell’Afghanistan negli anni ‘80. Cercherà, tra occhi strizzati e scambi di favori, di sfondare il muro d’ipocrisia creatosi a Washington in quegli anni per paura che la guerra fredda diventasse un guerra vera e propria. Nella sua campagna per sostentare ‘in gran segreto’ i Mujahideen si imbatterà in due personaggi poco convenzionali: Joanne Harring (Julia Roberts), una facoltosa ereditiera texana che, in modo molto ipocrita, si dedica anima e corpo (!) alla causa dei profughi afgani, e Gust Avrakotos (Philip Seymour Hoffman), una spia rozza e senza peli sulla lingua. Charlie viene presentato come degno esponente del ‘sesso, droga e mazzette’ che spopola tuttora nella classe politica di mezzo mondo, conservando intatto un senso civico tutto suo che lo porterà a condurre e vincere la sua battaglia.
Nichols, nonostante la tematica sia ben distante, mantiene per la prima parte del film lo stile crudo e diretto di Closer, senza però mai raggiungerne i picchi. I giochi politici internazionali vengono ridotti a spassosi festini a base di striptease e coca. Il controverso personaggio di Wilson è reso divertente e simpatico da una sceneggiatura favorevole e da una discreta performance di Hanks. Il deputato texano si circonda di avvenenti assistenti anche nell’espletare le proprie funzioni pubbliche a Washington D.C.: “Puoi insegnargli a battere a macchina, ma non a farsi crescere le tette” dice in merito se interpellato e (nonostante oggi la battuta possa sembrare alquanto anacronistica visto il ricorrente ricorso al bisturi) Charlie si rende gradito e affabile a tutti i colleghi, portandoseli dalla sua parte.
Philip Seymour Hoffman dal canto suo regala un’ulteriore prova del suo vulcanico talento dissacrando, nei panni di un greco rude e sboccato, tutto ciò che è politically correct battuta su battuta e, grazie a questo ennesimo exploit, si è portato a casa la nomination come Miglior attore non protagonista agli Academy.
Nonostante questi buoni sprazzi il film nell’insieme risulta debole e risente la mancanza di un plot coinvolgente. La verve iniziale tende ad appannarsi inesorabilmente col complicarsi dell’intreccio politico.Il tutto si svolge senza che lo spettatore ne abbia un riscontro tangibile e la guerra reale sembra, nonostante qualche sterile tentativo del regista, troppo distante dalle innumerevoli chiacchiere che invadono il tutto. Alla fine si ha la sensazione di guardare l’ennesima (ma ce n’era proprio bisogno?) demonizzazione made in Texas dei sovietici durante la Cold War e la classica figura dell’uomo che lotta contro tutto e tutti.
Poco efficace l’inedita accoppiata Julia Roberts – Tom Hanks che gode di poca armonia sostentandosi con la luce accecante delle due star e niente di più.
In conclusione La guerra di Charlie Wilson, pur contenendo spunti azzeccati e alcune sequenze davvero ben riuscite, sembra non aver fatto fino in fondo il proprio lavoro: si smonta completamente nella seconda parte e l’esigua durata (97 minuti) è un ulteriore sintomo dell’omissione di tanti retroscena che tale storia avrebbe potuto propiziare, dando quella completezza di cui l’opera manca.


Voto 56/100

mercoledì 23 gennaio 2008

Lizzani non dimentica il massacro del Lago Maggiore - Recensione di Hotel Meina


L’ormai 85enne Carlo Lizzani torna a spolverare la memoria storica degli italiani con un’opera che riporta alla luce, ispirandosi al libro di Marco Nizza, il massacro, avvenuto tra il 12 e il 22 settembre 1943, di 16 ebrei italiani che soggiornavano nelle stanze dell’Hotel Meina presso il Lago Maggiore. La cronaca viene romanzata da qualche particolare anacronistico e da un amore adolescenziale che nascerà all’interno dell’albergo.
Nonostante l’impegno prodigato e la buona vena del progetto la pellicola si classifica come una semplice trasposizione di fatti storici legati all’olocausto, come ce ne sono tante (e troppe) ormai, senza aggiungere nulla degno di nota al genere in questione.
Lizzani non riesce, nonostante alcune buone interpretazioni del cast, a scavare negli abissi dell’animo umano, nei meandri del terrore e dell’impotenza di fronte a tutto ciò che d’orribile stava accadendo. In Hotel Meina le immagini che si rincorrono sullo schermo danno una connotazione fredda e un po’ anemica alle sensazioni scabrose che si avvertono e che avrebbero meritato una maggiore introspezione.
Un film che comunque ha dalla sua la voglia di non dimenticare e il merito di dare luce ad un fatto meno conosciuto rispetto ad altri. Tecnicamente parlando il prodotto ha un sapore alquanto televisivo e ciò non aiuta ad accentuare la drammaticità degli eventi che sarebbe stata favorita da una fotografia ed un montaggio più accurato e ricercato
In conclusione Hotel Meina è una buona trasposizione storica che, nonostante l’immotivata e forzata caratterizzazione di alcuni personaggi che stona un po’ con tutto il resto, svolge una funzione più documentaristica che altro.

VOTO 50/100
Tommaso Ranchino

mercoledì 16 gennaio 2008

L’allegra tristezza dei depressi Savage - Recensione de La Famiglia Savage



Jon e Wendy Savage sono due fratelli che non si vedono mai, impelagati come sono nelle loro esistenze da intellettuali depressi con due vite private a dir poco squallide. La demenza senile galoppante del padre li porta a riavvicinarsi e a convivere per un periodo a Buffalo, nella casa di Jon. Da qui partirà la ricerca di una sistemazione decorosa per il padre e anche di un rapporto fraterno ormai assopito.
Tamara Jenkins, regista e autrice del film, delinea sapientemente un malinconico ritratto di una famiglia disincantata e in profonda crisi esistenziale. Le immagini natalizie di famigliole felici e nonni travestiti da Santa Claus sono lontane.
Wendy (Laura Linney) è una scrittrice (fallita) di commedie teatrali che vivacchia tra richieste di borse di studio assurde ed uno squallido menage con un uomo sposato in piena crisi di mezz’età. Jon (Philip Seymour Hoffman) invece è un professore universitario cinico e diretto che sforna a raffica saggi su Bertolt Brecht, vivendo una grigia routine.
Il tutto si svolge in rapida successione e la pellicola si barcamena egregiamente tra il dramma esistenziale e la raffinata commedia. La riuscitissima colonna sonora di Stephen Trask, ingrediente fondamentale in un progetto del genere, si snoda in completa simbiosi con i fotogrammi. L’occhio ispirato dell’autrice e la marcata introspettività del film portano a riflessioni profonde e sincere; tematiche come l’assenza paterna, la solitudine, la demenza senile, l’amore e la morte vengono accarezzate per tutta la durata del film lasciando immagini scabrose ed esilaranti al tempo stesso. Quando il dramma sembra prendere il sopravvento ecco che i toni si ammorbidiscono tra ironia e sarcasmo.
La gestione del cast artistico da parte della Jenkins è davvero esemplare: i personaggi sono la forza motrice di tutto lo schema narrativo ed ogni attore può ritagliarsi il proprio spazio scena dopo scena e, nonostante gli occhi siano tutti per Philip Seymour Hoffman, l’arruffato più talentuoso dell’intera Hollywood, Laura Linney brilla di luce propria grazie a un’interpretazione coinvolgente e sentita. I minuti passano e lo spettatore ha una sempre maggiore consapevolezza delle sensazioni dei protagonisti. Il non detto è più rumoroso di quello che i fratelli si dicono. L’uso smisurato degli antidepressivi e le manie dei due creano dei duetti comici di rara sottigliezza.
Il difficile ruolo del padre è reso credibile e multisfaccettato dall’interpretazione ben ritmata del caratterista Philip Bosco, un 78enne che ha consumato la propria vita artistica tra i palchi di Broadway ricevendo ben sei nomination ai Tony Awards.
Il tutto è condito da alcuni surreali spot di case per anziani, visionati dai Savage durante le loro ricerche, che accentuano (e criticano) l’incolmabile distanza che il mondo della pubblicità ha dalla vita reale e che ci presentano gli ospizi più raffinati come un triste escamotage per alleggerire le coscienze dei figli.
Il plot porta ad una graduale crescita interiore dei fratelli, la cui convivenza sembrerà poi essere servita ad ognuno dei due per superare le paure che una prolungata solitudine mette addosso. Il finale poi è quanto di più plausibile ci si possa aspettare da un film così ben riuscito.
In conclusione La famiglia Savage è uno splendido affresco sulle inquietudini della vita che conquista e, avvalendosi di una maniacale ricercatezza, emoziona uscendo dai canoni stereotipati del cinema drammatico o della commedia impegnata.


Voto 78/100

sabato 12 gennaio 2008

Uno sguardo qualunquista alla (non) integrazione made in Italy - Recensione di Bianco e nero


Dopo La bestia nel cuore, nominato agli Oscar 2006 come Miglior Film Straniero, la Comencini torna dietro la macchina da presa. Lo fa con una commedia impegnata sull’integrazione razziale in Italia.
La storia si snoda tra la Roma benpensante, e molto ipocrita, e lo scenario più colorato e vivace, ma sinceramente poco realistico, della multietnica Piazza Vittorio. Una passione interrazziale, e per di più extraconiugale, tra un uomo sposato con una ‘terzomondista’ e poco ambizioso (Fabio Volo) e un’avvenente donna nera (Aissa Maiga), moglie di un attivista africano, scatenerà un razzismo qualunquista latente in entrambe le comunità razziali.
Un film che, nonostante la tematica delicata, cade facilmente nella trappola del luogo comune. La sceneggiatura debole si aggrappa ai soliti clichè del razzismo nostrano. L’ironia viene usata con poca maestria, escludendo ovviamente qualche lampo dovuto al carisma scenico dell’ottimo Volo. Nonostante non esista un precedente nel cinema italiano si ha comunque la sensazione di un già visto e già detto un po’ stucchevole.
Il cast multietnico svolge il compitino, ma niente di più. Ambra, dopo il successo con Ozpetek, stecca la seconda. Un po’ il personaggio poco calzante e un po’ una sceneggiatura banale non le hanno permesso di ripetere l’exploit di Saturno Contro. I bravi franco-senegalesi Aissa Maiga ed Eriq Ebouaney hanno qui il solo merito di recitare in una lingua che non conoscono senza sembrare inadatti, per il resto anche loro si trovano stretti in personaggi davvero troppo stereotipati. Sempre pronto invece Fabio Volo, un artista all around che difficilmente sbaglia un colpo.
Nonostante il film non perda mai di ritmo e abbia comunque qualche buona intuizione, vedi l’inserimento di Billo nel cast e il divertente personaggio di Branciaroli, il vero punto debole dell’intero progetto è la totale assenza d’introspezione da parte dei vari protagonisti. Perfino i due amanti rinnegati parlano continuamente del colore della loro pelle e di tutte le paure dell’altro che la società ci inculca.
Le ripercussioni psicologiche che possono colpire due famiglie improvvisamente distrutte non vengono neanche inconsciamente accarezzate dalla sceneggiatura.
Eppure l’idea di sfatare miti ed abbattere tabù spesso infrangibili attraverso risate intelligenti alla Indovina chi viene a cena era senz’altro ottima e soprattutto mai battuta in Italia. Però recentemente la commedia da noi è riuscita troppe poche volte a lanciare messaggi di sensibilizzazione sociale o politica, e non è nemmeno questo il caso.
In conclusione Bianco e nero è un film che, visto il tema trattato, pretende forse troppo da sé stesso, e che di socialmente impegnato e politically scorrect ha davvero poco, se non niente, restando comunque una gradevole commedia discretamente confezionata.

VOTO: 51/100

Incontro con la regista e il cast di Bianco e Nero - La Comencini all'attacco: "Non hanno voluto sponsorizzare gli attori africani"


Un’agguerrita Comencini ha presentato nella cornice della Casa del Cinema di Roma la sua ultima fatica registica Bianco e nero in compagnia dei protagonisti Fabio Volo, Ambra Angiolini, Aissa Maiga ed Eriq Ebounaey.
Il cinema italiano ha bisogno di film scritti” esordisce la cineasta romana “Il modo per tornare ad avere un cinema di qualità è puntare tutto sulle sceneggiature ed è per questo che mi sono avvalsa nello scrivere il film dell’aiuto di due giovani e promettenti sceneggiatrici: Giulia Calenda e Maddalena Ravagli”.
Il soggetto difficile aveva bisogno di un lavoro collettivo da parte dell’intero cast (tecnico ed artistico). “Il progetto non aveva precedenti nè in Italia né all’estero” afferma la regista “L’unico riferimento ideale che avevamo era lo splendido Indovina chi viene a cena di Stanley Kramer del 1967. Nessuno aveva mai trattato un tema così scottante attraverso i toni della commedia politically scorrect”.
Ed è proprio sul tema caldo dell’integrazione razziale che vengono chiamati in causa i componenti franco-senegalesi del cast. “Per me le differenze razziali fondamentalmente non sono mai esistite né sono mai tantomeno state un problema” dice Aissa Maiga “Sono nata in Francia dove l’integrazione tra le varie etnie è ormai completa. Sin dalle elementari avevo una classe multietnica e la convivenza ha sempre fatto parte della mia vita. Questo è forse stato un problema più per i miei genitori che per la mia generazione”.
In disaccordo l’attore Eriq Ebouaney: “Non mi trovo d’accordo con ciò che dice Aissa. Anche nella nostra Francia esiste la difficoltà nell’accettare l’altro. C’è solo più abitudine alla convivenza e tanta ipocrisia, niente di più”. L’attore continua facendo un paragone tra Francia e Italia: “ La Francia è la patria dei diritti umani perciò l’integrazione viene data come un fatto naturale, però nonostante questo è difficile che un francese condivida un pasto con te. Invece qui in Italia siete meno abituati a convivere con razze diverse, quindi siete più scettici, però qui è facile trovare un italiano disposto a dividere un piatto di pasta con te”. Parlando del proprio personaggio nel film Ebounaey si proclama come il più italiano del cast: “Nel film il personaggio che interpreto si trova ad essere paradossalmente il più italiano di tutti: sono bello, elegante, mammone e cornuto!”.
Quando la parola passa a Fabio Volo l’attore stuzzicato sul tema amoroso si conferma come icona dell’edonismo urbano: “La fase dell’innamoramento non mi appartiene. Sono un tipo freddo e non mi piace perdere la testa. E poi quella è una fase semplicemente transitoria. Con ciò non voglio dire che non mi innamoro, ma lo faccio in modo diverso. Mi piace la bellezza delle situazioni e del sentimento”. Pressato su progetti futuri legati al cinema e non solo dice: “Per me ogni film che faccio è il provino per quello dopo. E poi ormai sono ricco, se non mi chiamano più mi produco da solo. Insomma se non mi fanno entrare dalla porta entro dalla finestra. Per quello che riguarda i libri penso proprio che continuerò, soprattutto se c’è da dare fastidio alle vendite di Vespa…”.
La parola torna alla fine alla regista che, stizzita, attacca le aziende italiane che non hanno voluto sponsorizzare gli attori africani: “Non abbiamo trovato nessuno sponsor per gli attori africani. L’azienda Armani (citata in una battuta del film ndr) ha vestito solo Ambra. Gli altri non ci hanno nemmeno preso in considerazione. La trovo una cosa assurda, questo è uno dei tanti muri che dobbiamo abbattere. La pubblicità usa le modelle nere come semplice richiamo sessuale. L’immagine dell’Africa è ancora troppo lontana dalla nostra società e questo che ci è successo ne è un esempio tangibile”.
La mattinata di presentazione si è conclusa con lo spassoso intervento di un giornalista ivoriano che ha riassunto la situazione dell’integrazione africana con una battuta affermando: “A noi africani danno la chiave della porta, poi però cambiano la serratura”.