martedì 26 febbraio 2008

Recensione de Il mattino ha l'oro in bocca - Uno scanzonato film sulla vita di Marco Baldini di Viva Radio 2




Marco Baldini lo conosciamo tutti, è un presentatore radiofonico di successo, la ‘spalla’ di Fiorello dai tempi di Radio Deejay. Si potrebbe pensare che uno così non ha problemi, in radio se la ride, fa lo scemo. Ma la vita vera è un’altra cosa. Il mattino ha l’oro in bocca racconta, come il romanzo autobiografico di Baldini ‘Il giocatore’ da cui è liberamente tratto, gli anni dell’ascesa al successo ma anche della mania per l’azzardo sfociata in raccapriccianti eventi legati al mondo dell’usura e della criminalità.
Dopo il crudo e sperimentale Pater Familias Patierno ripone la spada ed impugna il fioretto, dalle scabrose sequenze della sua opera prima girata con attori non professionisti cambia registro e si confronta col grande pubblico, presentando un prodotto dall’appeal commerciale non indifferente: Germano, la Stella, la Chiatti e la storia vera di Baldini, e di riflesso anche un po’ di Fiorello, portano già di loro la grande massa ad affacciarsi incuriosita. La crudezza e l’indigeribilità del precedente vengono rimpiazzate dal tono scanzonato del film, che invece sdrammatizza anche le situazioni più imbarazzanti per il protagonista.
Il lavoro del cineasta napoletano si è concentrato soprattutto sul creare un personaggio, e una storia di conseguenza, che vivesse di vita propria, senza voler inscenare una fotocopia filmica delle vicende realmente accadute al dissennato toscanaccio. Portare al cinema un’imitazione di Baldini e Fiorello, personaggi ben delineati nell’immaginario comune, sarebbe stato fatale per il progetto, il tutto sarebbe ben presto scaduto in un avanspettacolo ridereccio o poco più.
La voce fuori campo del protagonista è l’unico momento in cui si ha la percezione delle sensazioni dello stesso, la figura di Baldini viene fortemente caratterizzata da un distacco da tutto ciò lo circonda (amore, famiglia, lavoro) e l’unica vera passione, che sembra essere anche il segreto del suo talento al microfono, è la pulsione per le corse ippiche. Patierno non si prende la briga di andare troppo a fondo né nel mondo del gioco dove il protagonista ritrova sé stesso né in quello della radio dove Marco muove i primi passi e riscuote i primi successi, focalizzandosi invece sulle luci e le ombre dell’esistenza di un uomo dissennato, un po’ bambino, un po’ malato. Questo è sicuramente il difetto maggiore del film, che lascia intravedere tante, forse troppe, cose, senza poi analizzarle come si deve e lasciando un fastidioso retrogusto d’insoddisfazione in chi lo guarda.
Elio Germano ha fatto un gran lavoro per creare un personaggio distante da quello reale, ma in cui il pubblico potesse riversare e soddisfare la sana curiosità che c’è intorno ad un progetto del genere, senza deludere nessuno e dando un’interpretazione molto personale alle vicende. Il 27enne romano conferma ancora una volta di saper lavorare sia dietro che davanti la macchina da presa, di costruire i personaggi nel dettaglio con cura maniacale. Tutto questo fa sì che Germano risulti sul grande schermo plausibile in ogni ruolo, mettendo un po’ di sé nei personaggi che inscena.
Intorno a lui un ottimo cast di contorno, segno di una forte fiducia nel progetto da parte della produzione, nel quale, oltre a Laura Chiatti, Martina Stella, Gianmarco Tognazzi e Dario Vergassola, troviamo il grande Umberto Orsini nei panni di Zio Lino, uno strozzino emigrato a Milano. Menzione particolare per il bravo Corrado Fortuna che interpreta uno spassoso Fiorello in una versione selvaggia ai limiti del surreale tutta da vedere.
Tirando le somme Il mattino ha l’oro in bocca risulta nel complesso un progetto, non dalle grandissime ambizioni artistiche, ma ben riuscito. Patierno ha saputo vendersi al grande pubblico senza scendere a troppi compromessi, confezionando una pellicola ben girata e di discreta qualità che soprattutto, cosa fondamentale, si lascia guardare con piacere.

Voto 65/100

Trailer

Incontro con il regista e il cast de Il mattino ha l'oro in bocca





Il cast de Il mattino ha l’oro in bocca ha risposto alle domande della stampa dopo la proiezione del film che racconta le vicende della vita di Marco Baldini.
La diversità di questa pellicola dall’opera prima del regista Francesco Patierno Pater Familias è così palese che il regista la giustifica così: “Avevo una voglia pazzesca di fare un film diverso da Pater Familias. Io vedo così il mio percorso: devo fare tanti film diversi tra loro per arrivare a fare il film. Questo è un film differente per target, soprattutto perché parte già largo a priori: il cast e la storia raccontata attirano già di loro un grande pubblico”.

La costruzione dei personaggi

Qui si portano in scena personaggi che sono ancora nel fiore dell’attività artistica, e la difficoltà nell’interpretarli non è cosa da poco. Elio Germano, che fa Baldini, dice: “Aveva poco senso imitare Marco, siccome dovevamo raccontare una storia indipendente da quello che è il personaggio che tutti conosciamo. Quindi ho voluto allontanarmi da lui e creare un personaggio a sé stante, come fosse un fumetto; mi sono mosso su un binario parallelo, nella storia ci sono anche delle cose inventate. Mi piaceva molto la distanza che il personaggio aveva dalle cose e il suo conseguente cinismo. Un paio di volte Baldini è anche venuto sul set, è un tipo talmente particolare che non saprei dire cosa ne pensava, se gli piacesse o meno”. Interessante, e inedita, la rappresentazione che si dà di Fiorello: “Imitare Fiorello è impossibile – dice Corrado Fortuna che lo interpreta – per la sua poliedricità, sicché nella costruzione del personaggio ci siamo ispirati ai racconti di quegli anni lì che abbiamo raccolto in giro. Non ne ho imitato il look, ci siamo basati soprattutto sull’aspetto selvaggio di Fiorello in quel periodo”.
Il lavoro di Germano e Patierno sul protagonista è stato complesso e il regista ci tiene a raccontarlo: “Ho strappato una foto da una rivista di moda, l’ho fatta vedere ad Elio e gli ho detto di partire da quella. Era una foto pubblicitaria di Ethan Hawke. Man mano che tutto maturava Elio l’ha riempita di note. Abbiamo collaborato così tanto che non ricordo nemmeno quali idee sono sue e quali mie”.
Per Patierno la scelta di fare nomi e cognomi è stata l’unica percorribile ad un certo punto: “Il primo problema che mi si è presentato è stato quello di fare o no i nomi veri. All’inizio ero fermo sull’idea di non farli, sembrava ridicolo fare un film su Marco Baldini dove c’erano Fiorello, Cecchetto e gli altri. Poi invece ho maturato l’idea di rischiare, anche perché i personaggi erano talmente riconoscibili che a quel punto sarebbe stato ridicolo non chiamarli col proprio nome”.
Anche Laura Chiatti, nei panni di una cassiera della sala scommesse, si è trovata benissimo a lavorare col regista: “Lavorare con lui è stata un’esperienza spiazzante. Quando gli chiedevo come andasse fatta una scena, lui mi rispondeva di farla come me la sentivo, come volevo, di interpretare il personaggio di Cristiana a modo mio. E’ un vero neorealista. Dopo aver lavorato con Sorrentino con il quale bisogna stare attenti anche alle virgole, mi sono trovata ad avere a che fare con un regista che ci ha lasciato completa carta bianca”.

Il gioco e la radio

Il ruolo del gioco d’azzardo è funzionale alla storia e sia il regista che l’attore ci si sono dovuti confrontare: “ Non amo il gioco, le sale me le sono dovute far piacere. – dice il regista - Nonostante ci sia una scena di poker e molte sequenze nella sala scommesse, non volevo fare un film sul gioco. La sala diventa solo una sezione della storia”. Germano invece: “Non è che io sia un gran giocatore, però mi piace giocare e prendere rischi nel mio lavoro”.
Radio Deejay è onnipresente nella storia, e alcune scene sono state girate proprio negli studi dove registravano negli anni ’80 i due mattatori radiofonici: “La radio è stato l’unico punto di contatto con la realtà delle vicende. Abbiamo ascoltato – dice Elio - e risascoltato le registrazioni originali, sia di Radio Dejaay che di Radio Fantasy, e poi abbiamo fatto dei veri programmi radio, con chiamate reali. Ci siamo cimentati ad improvvisare come facevano i protagonisti”. Patierno s’intromette ed aggiunge: “Pensate che Gianmarco (Tognazzi ndr) è un appassionato di radio, ed ha fatto realmente il regista delle trasmissioni radiofoniche sul set. Ha parlato a lungo con il personaggio che ha interpretato, Danny, per indirizzare al meglio il ruolo. Linus è stato l’unico di Radio Deejay a vedere il film; nonostante ci siano ancora delle pendenze con Marco Baldini, ha dovuto ammettere che in fondo quel personaggio che stava lì sul grande schermo gli era proprio simpatico”.

Germano e il successo

Elio Germano è considerato un po’ da tutti il migliore attore della sua generazione: anche in questo caso si conferma mai banale e molto introspettivo nell’interpretazione di ciò che gli viene proposto. Nel 2007 è arrivata la consacrazione in Mio fratello è figlio unico, dove lui, nel ruolo di Accio, si è aggiudicato il David di Donatello come Miglior attore protagonista: “Dopo il premio del 2007 ho avuto molto lavoro. Le offerte non mi sono di certo mancate: sono soddisfatto però perché ho fatto tutte cose interessanti. Forse ho lavorato un po’ troppo, però si sa in questo lavoro ci sono anche momenti di ‘riflessione’ molto prolungati. Di sicuro sto meglio adesso che lavoro tanto di quando stavo a casa a non fare nulla”.

Incontro con Pierfrancesco Favino - In Italia non si apprezza il lavoro di noi attori



Nell’ottica dell’iniziativa del critico Franco Montini I volti nuovi del cinema italiano, lunedì scorso l’attore Pierfrancesco Favino ha incontrato pubblico e stampa nella sala Deluxe della Casa del Cinema di Roma: una chiacchierata sul cinema italiano e non solo con uno degli attori più intensi ed affidabili del panorama attuale.

I film corali

L’attore romano si è trovato tra i protagonisti di alcuni dei film più importanti degli ultimi anni, che sembrano avere tutti un comun denominatore: la coralità. Opere come L’ultimo bacio, Romanzo Criminale, Saturno Contro e La sconosciuta puntano manifestamente sul lavoro di gruppo del cast. Favino la vede così: “In questi anni in Italia c’è stato un vero e proprio filone di film corali. Io sinceramente non ho una preferenza per questi o per altri. E’ stata una combinazione che io mi trovassi in tutti questi progetti dalla natura simile. Devo dire che posso scegliermi i ruoli da interpretare solo da pochissimo tempo”.

Il mestiere dell’attore in Italia

Favino, un po’ stizzito per la verità, ci tiene a precisare un po’ di cose sulla situazione dell’attore, e del cinema più in generale, in Italia: “Onestamente penso che la vera cosa nuova del cinema italiano siano gli attori. E il cinema non riesce a stargli dietro. Si parla tanto dei nuovi registi in Italia, ma secondo me il regista più moderno resta ancora Bellocchio. Il sentimento d’invidia tra noi attori non esiste più, si è trasformato in un costruttivo spirito corporativo, ma per i registi non è così”.
Quando poi gli vengono riferite le dichiarazioni di Elio Germano, secondo il quale gli attori in Italia non siano presi sul serio, dice: “Dipende, l’attore si può fare in mille modi diversi. Però troppo pochi si rendono conto che la presenza dell’attore può totalmente cambiare un film. Solo quattro registi che ho incontrato, su quaranta film che ho fatto, sanno davvero dirigere il cast. Qui da noi si pensa che gli attori siano solo una faccia, va costruita la cultura dell’importanza del mestiere che facciamo. Ad esempio Germano era un grandissimo attore ben prima di Mio fratello è figlio unico”.

Il lavoro a Hollywood

L’attore ha partecipato a tre progetti hollywoodiani: Una notte al museo, Le cronache di Narnia e Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee. Quando gli si chiede se i registi americani invece siano più attenti agli attori, dice: “Dipende. Nel primo film, Una notte al museo, ho lavorato con un regista assolutamente indifferente nei confronti degli attori. In Narnia invece ho incontrato Andrew Adamson, un cineasta davvero attento al lavoro col cast. Per Spike Lee il discorso è diverso: ha una sensibilità diversa da Adamson. Si è dimostrato davvero sensibile alle richieste e alle esigenze che avevo, è stata una grande esperienza lavorarci”.

Cinema e TV

Favino è stato il Bartali della fiction televisiva e, da pochi giorni, ha terminato le riprese di una fiction su Giuseppe Di Vittorio, del quale regala ai presenti una spassosa imitazione. Ha dovuto costruire entrambi i personaggi con una certa cura: “Bartali è così popolare che è rimasto nitidamente nella memoria collettiva, quindi mi sono subito preoccupato della non somiglianza fisica che ci divideva. Poi però Castellitto mi ha consigliato di creare un mio Bartali, e così ho cercato di fare. Il personaggio di Giuseppe Di Vittorio invece mi ha da subito colpito per la sua integrità morale. Mi sono letto praticamente tutto quello che c’è in giro su di lui, tutti i suoi discorsi. Lui era un bracciante del Sud che è diventato addirittura Presidente della Federazione Sindacale Mondiale. Da Cerignola a Washington. Andrà in onda ad autunno”.
Quando viene messo di fronte al fatto che spesso gli attori non fanno TV perché hanno paura di non essere ben visti dal mondo del cinema e di non essere più chiamati dai registi, risponde: “Magari il cinema italiano avesse il coraggio di fare un film su personaggi come Di Vittorio. Perché dobbiamo vedere Il petroliere e non facciamo un film sul nostro Mattei? Perché non facciamo più biografie o film epici? Mi diverto onestamente di più nel fare Bartali, piuttosto che quattro amici che parlano delle fidanzate che li hanno lasciati, quelli li posso vedere tutti i giorni nella mia vita quotidiana. E poi credo fermamente che la TV non serva a far addormentare le persone”.

lunedì 18 febbraio 2008

Il mito di Rambo rispolverato tra umanitarismo e splatter - Recensione di John Rambo



John Rambo ormai vive in una palafitta sulle rive di un fiume, al confine tra Tailandia e Birmania e si guadagna la pagnotta cacciando a mani nude serpenti velenosi, usati per impressionare i turisti americani e non con degli spettacolini di terz’ordine. Quando un gruppo di missionari, capeggiati da una raggiante bionda, vuole recarsi in Birmania nel cuore pulsante della guerra civile per portare aiuti alle popolazioni martoriate da mine antiuomo e malattie d’ogni sorta, gli chiede aiuto per risalire il fiume, lui non si tira indietro. Una serie di scontati eventi lo porterà poi a rispolverare i vecchi coltelli e l’ormai assopito istinto omicida.
A 20 anni di distanza da Rambo III torna nelle sale il reduce del Vietnam impersonato negli anni da Sylvester Stallone che, dopo Rocky Balboa, personaggio sicuramente più cucito addosso all’attore di Phliadelphia, dovrebbe metter fine (ma forse no) anche a questa saga. La violenza onnipresente è degna di uno splatter anni ’80, e a tratti sembra di assistere ad uno sparatutto da sala giochi più che ad un film. Sicuramente negli anni Stallone ha preso il vizio di ritoccare più il suo viso che le proprie sceneggiature, i dialoghi sono quanto di più scontato e perbenista si possa sentire. L’umanitarismo poco giustificato tende a stancare ben presto e la funzione documentaristica della pellicola nelle scene iniziali risulta un po’ fuori luogo.
Nonostante tutti i difetti riscontrati, il film riesce nella sua funzione principale: in qualche scena rievoca l’immagine del mito di Rambo, accontentando i fan accaniti. Un esperimento alla Rocky IV (ti spiezzo in due per capirci), un cinema che non racconta la storia ma rievoca icone e miti, sfociando in un collage di immagini funzionali alla soddisfazione maschile in stile clip musicale, che troverà sicuramente un suo pubblico di nostalgici afficionados. Si cerca un cattivo da odiare e poi lo si massacra, questo l’obiettivo. John Rambo in un paio di sequenze fa questo, e lo fa alla grande. Quando tutto sembra andare per il verso storto gli occhi spiritati e pieni d’odio dell’eroe appaiono nel bel mezzo della lussureggiante giungla ed aizzano lo spettatore più testosteronico. Mentre la debole storia si snoda in modo più che frenetico, John ricade negli abissi del proprio inferno personale, e, nonostante i flashback siano (per fortuna) quasi inesistenti, i fantasmi del passato si riaffacciano minacciosi.
In conclusione, anche se a volte Stallone assomiglia troppo alla sua parodia cinematografica (il Charlie Sheen di Hot Shots 2) e per lui la campanella sia suonata già da tempo, John Rambo tra mille pecche risulta un film d’azione molto fisico dal sapore anni ’80 che sa aggredire lo spettatore, entuasiasmando chi vive nel mito dei primi capitoli e di quei tempi andati.

Voto 59/100


Trailer

lunedì 11 febbraio 2008

Intervista a Sylvester Stallone in Italia per presentare John Rambo - Sly: "Fatemi fare un quinto Rambo"



Il leggendario Sylvester Stallone, a Roma per presentare il suo ultimo film John Rambo, risponde nella gremita sala conferenze dell’Hotel Hassler alle domande della stampa.
Gli eroi moderni - dice – non devono avere muscoli o prestanza fisica, ma cuore e cervello, nient’altro!”. Lo sa bene il ragazzone di Philadelphia che ha deciso di ambientare il suo ultimo Rambo nell’inferno della guerra civile birmana, portando alla luce barbarie spesso soffocate: “Nel mondo ci sono tante guerre: Darfur, Iraq, Somalia. Ma ce ne sono anche altre silenziose, vedi la Birmania: lì si combatte una devastante guerra civile da ben 60 anni senza che nessuno ne parli con decisione. Ho pensato che Rambo non sarebbe potuto tornare a combattere in una guerra famosa e così la Birmania è stata funzionale alla storia in due modi: uno nell’educare ed informare i più giovani di una guerra fratricida che si consuma quotidianamente, l’altro nel permettere a Rambo di poter tornare a confrontarsi col proprio inferno personale e con la propria natura omicida”.
Maliziosamente punzecchiato sul suo stato di forma sempre smagliante Sly scherzando dice: “Ho tre figlie che sono delle forze della natura: correre dietro a loro è il segreto della mia forma. Uomini correte dietro ai vostri figli e vedrete come vi manterrete in forma!”.
Quando poi gli si chiede perché in tutti i Rambo, compreso quest’ultimo, non ci sia mai stata una scena di sesso, risponde divertito: “Evidentemente John in una qualche esplosione ha perso qualcosa lì sotto quando era in Vietnam, e da quel giorno compensa le mancanze con dei grandissimi coltelli”.
Il nuovo film contiene un livello di violenza mai così elevato in un film di Stallone: “Ho dovuto inserire tutti quei cadaveri e quegli abusi perché sono stato praticamente costretto a farlo dalla realtà raccapricciante che si vive in quell’inferno che è la Birmania. Ad esempio qualche tempo fa è uscita la notizia di una ventina di monaci buddhisti trucidati, ma la realtà delle cose è ben lontana, i monaci ad essere stati uccisi in quell’occasione sono stati centinaia e centinaia”.
Interrogato sulla situazione dell’industria dell’action movie in questi anni Sly confessa: “Oggi gli action movie sono molto meno fisici di un tempo. Ai tempi miei e di Arnold Schwarzenegger erano i muscoli a farla da padrone, mentre oggi ci sono i computer e le tecnologie. Non dico che sia peggio o meglio, ma solo un approccio diverso al genere”.
Nella sua classifica personale dei quattro Rambo Sylvester Stallone mette al primo posto il primo capitolo: “Il primo film è un po’ come il primo figlio: ha i suoi difetti ma l’affetto che provo per quello supera gli altri. Al secondo posto metterei sicuramente quest’ultimo. Poi un pari merito tra il secondo, che rappresenta la massima espressione tipicamente hollywoodiana della fantasia maschile, e il terzo. A proposito del terzo (che racconta l’impegno di Rambo in Afghanistan contro i russi ndr) io sconsiglio sempre di fare un film che parli di politica attuale: due settimane prima che uscisse il mio film Gorbaciov ha dato due baci sulla guancia di Reagan ed ecco che io sono diventato il vero nemico; ovunque andavo a presentare il film mi fischiavano ed insultavano”.
Poi il solare attore americano si scurisce in viso quando confessa di non essere potuto andare in Birmania: “Ho chiesto di potermi recare in Birmania, come fanno altro miei colleghi vedi Angelina Jolie in Iraq e Gorge Clooney in Darfur, per testimoniare al meglio quella situazione drammatica, ma il governo del Myanmar mi ha detto che non ero ben accetto. Questo fa capire quanta omertà c’è in quella zona del mondo”.
Immancabile una domanda sulle prossime presidenziali, che vedono Sly schierato per McCain: “Innanzitutto devo dire che io non darei retta a ciò che dicono gli attori sulla politica: non ci capiscono nulla! Io mi sono schierato per McCain non perché è un reduce del Vietnam come Rambo, ma perché mi ispira fiducia: sono del parere che in questo momento il Paese, dopo anni disastrosi, si debba affidare ad un uomo d’esperienza e non ad un novellino. Un domani Hillary e Obama saranno certamente due star della politica, ma oggi non sono ancora pronti”.
Alla fine della conferenza l’ex Rocky ammette di non voler fare di questo il suo ultimo Rambo: “Se dovessi farla finita con Rambo sarei depresso. Ho voluto lasciare un finale aperto perché ho ancora tanto da raccontare sul personaggio, e spero con tutto il cuore di avere la possibilità di farlo”.

Woody Allen chiude la sua trilogia londinese senza infamia né lode - Recensione di Sogni e delitti


Londra. Ian e Terry sono due fratelli squattrinati, ma dai vezzi costosi. Il primo, ammaliato da una magnetica attricetta, insegue il sogno americano e l’affare della vita in California, l’altro, un meccanico dei sobborghi, si consuma tra alcool e gioco. Spronati da uno zio facoltoso e dalla dubbia integrità morale si ritrovano invischiati fino al collo in una cosa ben più grande di loro, rimanendone poi impantanati.
Il newyorkese, stacanovista indefesso della cinepresa, chiude la sua trilogia londinese non proprio in bellezza. Cassandra’s dream (ignobilmente ribattezzato Sogni e delitti qui da noi) non tocca i livelli, tra l’altro ben lontani tra loro, né del fiore all’occhiello Match Point né del deontologicamente alleniano Scoop.
Il tema della scalata sociale, onnipresente in Match Point, viene qui propinato in modo più opaco e forse meno efficacemente maniacale, i toni ironici e il caustico sarcasmo del cineasta accantonati per far spazio ad una storia dai risvolti noir, priva però delle travolgenti passioni di Match Point.
Visivamente la pellicola ha tutti i pregi del caso: la fotografia nei film di Allen risulta più che spesso un ingrediente ben dosato ed imprescindibile. La direzione del cast è come sempre impeccabile: Colin Farrell inscena un personaggio insicuro e nevrotico con un’interpretazione spintasi ben oltre le più lecite aspettative; Ewan Mc Gregor conferma ancora una volta di saper passare da un personaggio all’altro con discreta dimestichezza, senza eccellere mai però e attestandosi ormai come un professionista di livello medio-alto (cosa non proprio auspicabile per un artista). Straordinario invece, nei panni dello zio, Tom Wilkinson (già nominato agli Oscar per Michael Clayton): nelle poche scene in cui appare lascia un segno permanente per tutta la durata del film.
La mania di sfornare film come fossero abiti di sartoria, belli ma spesso superflui, non alimenta affatto l’originalità delle opere di Allen, e anche questa volta ne abbiamo una conferma. Ormai ci si avvicina all’opera del newyorkese sapendo già che ci si muoverà all’interno dei soliti paletti: la presenza di uno (o più) omicidi, la questione sociale affrontata in modo più o meno velato, la caustica ironia di Woody (quando recita anche) e la presenza immancabile della femme fatale, qui con le sembianze dell’indigena Hayley Atwell, vista solo in qualche produzione televisiva della BBC.
Sogni e delitti risulta comunque (a tratti) godibile e ben diretto, giovando nei suoi picchi di alcune sequenze vividamente pregne di pathos, quanto mai accostabili ai momenti di un’immaginifica tragedia greca (Match Point fa ancora capolino).
In conclusione Cassandra’s dream si può tranquillamente annoverare nel (troppo) lungo registro di Woody Allen tra quei film belli ma non strettamente indispensabili.

Voto 65/100


Trailer

sabato 2 febbraio 2008

Godzilla incontra la strega di Blair - Recensione di Cloverfield



Agli abitanti di Manhattan fischieranno le orecchie in questo periodo, dopo I am legend arriva nelle sale un’ulteriore rappresentazione catastrofica del loro habitat quotidiano. Un gruppo di ragazzi si riunisce in un loft per salutare un amico che l’indomani lascerà la Grande Mela per andare a lavorare in Giappone. Una breve introduzione presenta i vari personaggi e in pochi minuti New York si trova nel panico, tra esplosioni e urla. Il tutto è testimoniato da un filmino amatoriale ritrovato anni dopo nella zona, ormai deserta ed abbandonata, un tempo conosciuta come Central Park.
Al tramonto degli anni ’90 The Blair Witch Project aveva fatto scalpore per il senso d’assoluta immedesimazione che l’uso della telecamera a mano aveva introdotto sul grande schermo. J.J. Abrams, l’ideatore di Lost insieme a Damon Lindelof, non se n’è dimenticato e, quasi 10 anni dopo, porta in sala il progetto Cloverfield. Un disaster movie sui generis che ben coniuga il fascino del terrore di massa provocato da un mostro alla Godzilla che distrugge la città e la sensazione puramente realistica che solo una ripresa amatoriale può dare.
Il film, grazie anche alla durata esigua di 74 minuti, gode di un ritmo incalzante, incedendo frenetico senza pause o impacci. Questa volta non c’è il Will Smith o il Bruce Willis di turno che cerca di salvare il pianeta, ma solo un gruppo di ragazzi più o meno credibili che scappano da qualcosa di cui non hanno minima consapevolezza. Proprio questo insolito punto di vista, diverso da quello tradizionale del regista onnipotente, dal punto di vista tecnico, e dell’eroe, dal punto di vista dell’intreccio, crea intorno all’invasione un fitto e coinvolgente mistero (il riferimento a Lost è palese).
Il regista Matt Reeves confeziona un prodotto ben girato e plausibile e, nonostante la camera a mano a tratti possa dare il voltastomaco, alcune scene si avvicinano ad un’esperienza in prima persona degna di un simulatore forse mai provata in modo così soddisfacente in una sala cinematografica.
Il basso profilo del cast è funzionale alla scelta (furba) della produzione di creare un alone di mistero e curiosità intorno al progetto che fino ad un mese fa, nonostante già girasse un trailer online (riecco Blair Witch Project), non aveva neanche un titolo.
In conclusione la Cloverfieldmania, già esplosa negli States, che facilmente seguirà il film è una ragionevole conseguenza di un lavoro totalmente privo di ispirazione nel senso più rarefatto del termine, ma ben curato sotto molti punti di vista, da quello tecnico a quello promozionale.

Voto 63/100


Trailer