martedì 15 luglio 2008

Recensione di Joshua - Occhio al bimbo prodigio!


Amanti del genere, riunitevi, ma senza eccessiva fretta.
Un titolo che merita la contenuta attenzione degli appassionati di horror, sezione ‘bambini posseduti’, è senz’altro Joshua. Il sentiero battuto da Omen – Il presagio viene qui ripercorso con uno stile ancor più inquietante, introspettivo, disturbato.
I Cain sono una famiglia come tante: newyorkesi, borghesi, stressati, depressi. Nella loro normalità spicca però la figura enigmatica del figlio, Joshua per l’appunto, un bambino precoce, arguto, un piccolo genio. Quando viene alla luce la secondogenita in casa Cain gli equilibri, già precari, si spezzano e si tramutano in squilibri, alimentando una spirale inquieta di eventi.
La pellicola, pur non giovando di picchi emozionali eccessivi, s’inserisce con dimestichezza all’interno del filone sopraccitato. Il progetto riscuote in fase di distribuzione la buona vena delle assennate scelte pre-produttive. In primis l’ambientazione, svoltasi maggiormente all’interno dell’impersonale appartamento dell’Upper East Side di Manhattan, ha donato al film quella ‘cappa’ narrativa, indispensabile per costruire un incalzante climax d’inquietudine ed angoscia. La chiusura dell’appartamento e la conseguente ermeticità sociale della famiglia contribuiscono all’enfasi emozionale, quasi stringendo il cerchio intorno ai già ristretti Cain. Kubrick’s Shining docet.
Un altro punto a favore è senz’altro la scelta del cast: un ottimo, come sempre, Sam Rockwell è un padre stranamente affettuoso, un’intensa Vera Farmiga, già vista nei panni di una femme fatale sui generis in The Departed di Scorsese, assume connotati bipolari davvero ben ritmati. Sorprendente poi l’interpretazione di Jacob Kogan, accompagnato dall’ormai insopportabile slogan affibbiato ad ogni debutto (con successo) infantile: “per la prima volta sul grande schermo”, il quale investe Joshua di una profondità e di una subdola irrequietezza che, in alcuni momenti, sembra addirittura travalicare le intenzioni narrative dello script dello stesso regista George Ratliff. Il quale (lo script) è croce e delizia dell’intera pellicola. Se, infatti, da una parte ci regala un drappello di personaggi davvero ben strutturati, dall’altra ci butta lì un finale davvero poco entusiasmante. Crea tutte le aspettative del caso, ma poi le disattende proprio nella fase di maggior carica emotiva della narrazione.
A conti fatti, in un panorama di desolazione, di qualità e quantità, distributiva, Joshua è senz’altro un prodotto interessante. Con tutti i limiti del caso, finirà per essere il miglior horror, psicologico più che fisico, della stagione estiva.
Curiosità in calce, non inserita a tempo debito per l’eccessivo rischio di distrazione riscontrato nei più accaniti fan: Jacob Kogan vestirà i (pesanti) panni dell’umano/vulcaniano Mr.Spock adolescente nell’attesissimo Star Trek firmato dal moderno guru del mistero, J.J. Abrams.

VOTO 65/100
Tommaso Ranchino

martedì 8 luglio 2008

Recensione de Il divo - La spettacolare verità di Paolo Sorrentino



Sorrentino è grande, immenso, perché esprime nel suo cinema una duplice sensazione, doppiamente efficace: sa essere visionario ed immaginifico restando comunque vigorosamente aggrappato alla realtà sociale del nostro paese. E’ l’unico, insieme al pur diversissimo Virzì, che riesce a raccontare l’Italia attraverso un cinema dall’input e dal background autoriale, narrativamente e formalmente senza paragoni o riferimenti possibili.
La sua opera ultima, Il Divo, è l’ennesima conferma di un’attitudine migliorata, nonostante sia solo un classe ’70, col tempo e con l’esperienza. La pellicola narra, come tutti ben sanno, le vicende di una tranche della vita (spettacolare ci assicura Sorrentino) di Giulio Andreotti. La formazione degli adepti, perlopiù ceffi loschi e poco raccomandabili, della sua corrente all’interno della DC, la cupa questione Moro, poi Pecorelli, poi Calvi, le ombre di accuse perenni ed insostenibili (per il Paese, mai per Andreotti), il grottescamente singolare rapporto con una consorte santificabile. Questi i tasselli dell’eccezionale mosaico posto sfacciatamente e vigorosamente all’attenzione di un Paese intero. Il nocciolo della questione si cela proprio qui: l’attenzione di un Paese, di un popolo. È su questo che vuole (e ce la fa) far leva il regista, vuole destare le coscienze popolari, non tanto per demonizzare l’ormai universalmente riconosciuto Belzebù della storia politica italiana, ma per porlo a monito, a deterrente per il futuro. Gli italiani, dopo i trascorsi infelici e truffaldini, sembrano non aver poi imparato così bene la lezione, e l’intenzione della pellicola va, nella sua accezione universalistica, ricercata proprio in questa voglia di discontinuità.
La rilevanza contenutistica dello script si muove contestualmente con una forma cinematografica aggressiva e perfetta. La sceneggiatura è al solito poderosa e il personaggio di Andreotti, merito e menzione speciale ad un meraviglioso Servillo nella sua miglior interpretazione in assoluto, è inquietante ed incantevolmente paradossale. La voce pedante e soporifera di Andreotti-Servillo risuona indimenticabile in alcune sequenze che difficilmente usciranno dalla storia del nostro cinema. Merito dell’interprete napoletano sta anche nell’aver costruito un personaggio ben lontano dai (pericolosi) clichè di una banale imitazione, cucendosi addosso una magnetica aurea semicaricaturale che aggancia inesorabilmente lo spettatore anche negli inevitabili momenti di stanca della narrazione.
Come ne Il divo Andreotti si muove tra i corridoi dell’austera casa sollevato dal terreno, quasi spettro, così la classe politica spesso si è (auto)innalzata dalla missione terrena che l’elettorato le ha conferito, allontanandosi da quel ‘basso’ che la sostenta e la legittima, perdendo il necessario contatto con la realtà e, ahimé, con la lealtà.
Pellicole del genere addossano un bagaglio così pesantemente impagabile, sia nel valore intrinseco delle tematiche che nella potente cifra stilistica lasciata in eredità, da entrare a pieno diritto nell’Olimpo del cinema europeo contemporaneo.
Proprio da qui riparte il grande cinema italiano: dalle sceneggiature e dalla visionaria cinetica della macchina da presa del giovane Sorrentino, troppo, troppo, genio e un po’ di (sana) sregolatezza.
VOTO 83/100
Tommaso Ranchino

mercoledì 2 luglio 2008

Recensione di Doomsday - Visioni grottesche d'oltremanica




Roba da matti. E per fortuna, diciamo noi. Dalla Gran Bretagna, dopo un periodo di apatia e qualunquismo impreziosito dal solo Danny Boyle, arriva una pellicola schizzata. Ma schizzata seriamente.
Glasgow, giorni nostri. Un virus ribattezzato ‘Il Mietitore’ infesta la città che viene messa in quarantena col successivo ripristino ed ammodernamento del Vallo Adriano (!). A 20 anni di distanza l’epidemia sembra ripresentarsi in pieno centro lonidnese. Una squadra scelta viene inviata laddove sembrerebbe esserci qualche sopravvissuto al virus scozzese, per trovare una cura.
Fin qui tutto bene, trama scontata, leit motiv trito e ritrito. Isteria di massa e personaggi stereotipati sembrano, ahinoi, il massimo a cui aspirare.
Invece no. All’interno delle mura si nasconde un mondo surreale, tribù post-apocalittiche metropolitane, look da bikers e bombe molotov sempre in tasca, sono in guerra con una comunità medievale, retta dai valori della cavalleria che fu. Una sorta di metaforica dicotomia idealizzata della società moderna, divisa in modo intestino e schizofrenico tra eccessi edonistici e consumistici e valori bigotti ed iperconservatori.
Mentre nel suo incipit la pellicola sembra trovarsi a metà strada tra lo splatter e l’epico, quando i protagonisti varcano le Mura gli si para davanti una realtà così improponibile che di colpo anche l’animo dell’opera si svela in tutta la sua sana follia.
Tra scene di cannibalismo ed inseguimenti alla Ken il Guerriero, la protagonista, una modella di 50 kg che fa ben poca fatica a stendere giganti in armatura, si sposterà, in sequenza, con un carrarmato, con un treno a vapore, con un cavallo ed, infine, con una Bentley nuova di pacca.
Doomsday è assurdo, splatter, grottesco, anni ’80, trash, hard rock, fantasy, action. E’ tanto, forse troppo, in troppo poco.
Si inserisce in quel filone, quasi deserto ormai, di opere che non si propongono alla massa per sovraffollare botteghini ed annoiare palati più fini, anzi. Parla ad un popolo di (pochi, ma fedeli) appassionati, che non mancheranno di apprezzarlo, ma con riserva. Sì, perché Doomsday comunque manca di quella presenza, fondamentale in un progetto del genere, di personaggi cult. I ‘buoni’ e i ‘cattivi’ sono caricati, ma in modo banale, senza un’eccentricità che gli unicizzi. La nicchia di adepti non potrà non accorgersene.
Si assiste, in corso d’opera, ad una depauperazione del fine primo della spedizione per lasciarsi coinvolgere dalla vorticosa e crescente assurdità delle situazioni. Lo humour, sempre meno british, dà un accento cromatico a tutta la pellicola. Proprio quella cromaticità che una fotografia buia e una regia alquanto televisiva non sono stati in grado di dare. Certo Marshall non è Rodriguez né tantomeno Tarantino, la fotografia e il movimento registico di Grindhouse, punto di riferimento autoriale del genere, sono lontani anni luce. Ma, paradossalmente, questa amatorialità formale rende alcune sequenze ancora più ridicole, perciò meglio riuscite.
Doomsday ha poi dalla sua il merito di presentarci uno scenario apocalittico (finalmente) lontano dal fiume Hudson e dall’isola di Manhattan. Questa volta il centro metropolitano della visivamente sconosciuta ai più Glasgow e le suggestive Highlands sono lo scenario dei massacri.
Da segnalare la presenza dell’unico interprete degno di nota, Malcom McDowell, icona della cultura pop per aver incarnato la follia di Alex in A Clockwork Orange, in un ruolo dal minutaggio secondario, ma di fondamentale rilevanza dal punto di vista narrativo. Il cast è in linea con tutto il resto: trash, ridicolo, sgangherato, divertente.
Una chicca da non perdere per gli appassionati del genere, una brutta sorpresa da evitare con cura per i meno avvezzi.

VOTO 70/100
Tommaso Ranchino

martedì 1 luglio 2008

Recensione de Il mio sogno più grande - Autogol a raffica


Quando Gracie perde l’adorato fratello in un incedente, il dramma che la divora si trasforma ben presto in voglia di riscatto, di rivalsa. Allora decide di sostituire il fratello nella squadra di calcio del liceo. Il cammino che la porterà a realizzare il suo sogno è ciò che il film racconta in maniera formalmente sbiadita. Inoltre la trama paga una manifesta banalità dilagante, che lascia perplessi fin dalle sequenze iniziali.
La pellicola made in USA, nata dalla voglia e dalla determinazione dell’attrice e produttrice Elisabeth Shue di raccontare una storia a lei realmente accaduta, si presenta come un college movie estivo, scontato e lievemente tedioso nella sua prevedibilità.
Le interpretazioni del cast sono l’unico appiglio su cui puntare, ed infatti risultano più che riuscite (intensa la protagonista Carly Schroeder, addirittura eccellente ‘papà’ Delmont Mulroney). La sceneggiatura è, al contrario, il tallone d’Achille: dialoghi melensi, personaggi opachi, relazioni ed introspezione inesistenti.
La direzione di Guggenheim, marito della Shue, è televisiva e scontata. Inquadrature standardizzate rendono tutto tristemente patinato. La fotografia pubblicitaria poi non aiuta assolutamente.
I (mai nobili) cugini di genere, vedi la saga targata Adidas Goal, hanno (almeno) dalla loro una serie di sequenze di gioco ben realizzate, che portano i fruitori nel cuore del campo e degli spogliatoi dei tempi di mezz’Europa (come se non bastassero gli interminabili Mercoledì di Champions). Invece qui le rare scene di gioco sono ben sotto le aspettative, non che da Gracie ci si aspettasse chissaché per carità.
Andandosi ad accostare invece a Bend it like Beckham, opera del 2002 lontana dall’essere un capolavoro, il paragone diventa, vista la vicinanza negli intenti, ancora più impietoso. Nel film di Gurinder Chadhala rivalsa sociale ed integrazione razziale erano, tralasciato il pretesto, il fulcro della struttura narrativa. Addirittura il lato sportivo era meglio affrontato.
Dispiace il fatto che il genere del football, qui soccer, movie non riesca ancora a realizzare qualcosa che possa restare ai posteri o di perlomeno consigliabile. Le uniche volte in cui ci si è riusciti è quando lo si è affrontato immedesimandoci nel tifoso (Febbre a 90°, Hooligans), raccontando quindi non le gesta sportive, ma descrivendo il ruolo, fondamentale, che spesso il calcio ha nella vita delle persone.
Alla fine de Il mio sogno più grande ci resta in mano la grinta della protagonista, un paio di buone prove attoriali e un’oretta e mezza di scialbo intrattenimento.

VOTO 40/100
Tommaso Ranchino