mercoledì 28 ottobre 2009

Recensione L'uomo che verrà


Giorgio Diritti porta al Festival del Cinema di Roma un film che racconta la strage di Marzabotto, un massacro senza precedenti perpetrato dalle SS il 29 settembre 1944 che portò alla cruenta uccisione di 770 tra donne, contadini e bambini.

Il film del regista del sorprendente "Il vento fa il suo giro" vuole essere un racconto delle umanità interrotte, di una serie di barbarie sconsiderate e senza freni. Il cineasta bolognese conferma le sue qualità, costruendo un film che parla al pubblico attraverso il paesaggio e le facce di chi da quel paesaggio dipende, accantonando facili trappoloni da film storico o bellico.

Un'opera che guarda al realismo, un'opera interamente recitata nell'antico dialetto bolognese, ormai in disuso, per scaraventarci alle condizioni di fame e ignoranza di quegli anni lì e soprattutto di quel momento storico. Per rendere il tutto ancor più scarno ed efficace Diritti filtra il suo racconto attraverso gli occhioni di Martina, ragazzina muta, o che non vuole parlare, che curiosa continuamente il mondo che la circonda, trovandosi di volta in volta di fronte ad immagini raccapriccianti ed insostenibili.

"L'uomo che verrà" è però figlioccio di tanto materiale con il quale cinema italiano si è già troppe volte confrontato, ha un suo sguardo se vogliamo più intimista ed asciutto, anche se nel finale alza troppo i toni, ma non riesce comunque a colpire nel segno.
Un buon prodotto quindi, delicato, ben condotto e coerente, ma nulla di più. Si aggiudica comunque la palma del migliore degli italiani in concorso, non che ci volesse un granchè a sbaragliare lo sparring partner "Viola di mare" e lo sprecato "Alza la testa".

Alcune scelte resteranno fisse nella mente di chi lo vedrà, vedi il dialetto, le ambientazioni e le facce che calzano a pennello con i due elementi precedenti, resta però lo sconcerto per la scelta fatta a monte dal regista di imbarcarsi in un progetto così didattico che più di tanto non avrebbe potuto dare.

VOTO 65/100

Castellitto e Angelini presentano Alza la testa al Festival di Roma


Alessandro Angelini torna alla manifestazione romana dopo aver portato nel 2006 "L'aria salata". Ritorna il tema padre - figlio, ma questo è solo un punto di partenza perchè il film è ben più complesso: "E' vero che anche qui ricorre la tematica padre-figlio, ma qui l'ho solamente usata come uno spunto per raccontare meglio la storia di Mero, un percorso sinuoso ed anarchico che è la storia del film".
Il regista ci tiene infatti a sottolineare che la tortuosa via che il film imbocca è voluta: "Non volevamo fare un film lineare, un film che seguisse un percorso canonico. Volevamo raccontare la vita così com'è, dai mille volti e dalle insidie onnipresenti. Per questo la pellicola parte come una commedia sgangherata, poi diventa romanzo di formazione, poi un film dai toni altamente drammatici, per sfociare all'ultimo in un finale liberatorio".

Anche Sergio Castellitto, inteprete favoloso del ruolo del protagonista Mero, ha sue idee forti sul film: "Alza la testa è un film molto semplice e paradossalmente anche molto popolare. Il mio personaggio è un operaio, che si trova abbandonato dalla moglie a dover crescere da solo un bambino. Un padre-madre forse troppo invasivo e troppo possessivo".
Castellito vuole sottolineare come il prorprio personaggio: "fa cose scorrette, ed è per questo che risulta simpatico. E' un animo basico il suo, è un razzista, ma il suo è un razzismo esclusivamente popolare, non è un razzismo che consegue da un ragionamento o da un bagaglio culturale. Si deve scontrare con gli extracomunitari tutti i giorni sul lavoro.
Proprio per queste qualità dei personaggi il nostro è un film che si attesta come una risposta studentesca a tutto quel cinema italiano inutile e autoreferenziale, quel cinema che si interessa più a guardare allo specchio che alla finestra aperta".

MP News incotra il cast e il regista di Oggi sposi


In una conferenza stampa per pochi intimi nello Spazio Alitalia abbiamo incontrato il gruppone che ha messo su l'ultimo film di Luca Lucini "Oggi sposi". Un cast che, a vederlo tutto insieme, assomiglia di più ad un'associazione che potrebbe chiamarsi ‘nuove leve del cinema italiano'.

La prima domanda è per la Crescentini e il suo personaggio: "Il personaggio che interpreto non è altro che un'arrampicatrice sociale, una che vuole fare la bella vita a tutti i costi, scarificando anche i sentimenti. E a spingerla ossessivamente verso una vita del genere c'è sempre stata una madre fortemente presente che continuava a ripeterle: l'amore passa sempre mentre i soldi rimangono".
Il personaggio di Carolina s'innamora del magistrato nerd intepretato da Filippo Nigro: "In me c'è una bella percentualona di nerdaggine che ritroviamo anche nel mio personaggio, quindi ad essere sincero non ho dovuto faticare neanche tanto per calarmi in questi panni".
La Crescentini interviene e dice: "Quando tu sei una persona molto costruita come lo è il mio personaggio e vedi una persona così semplice e vera non puoi non provare tenerezza ed esserne attratta".

Nel film di Luca Lucini appare, tradendo la riservatezza e la poca voglia di tornare sul grande schermo che lo caratterizza da qualche anno, il mitico Renato Pozzetto. Ovviamente per il regista non deve essere stata una passeggiata convincerlo: "Ho dovuto corteggiarlo un bel po' Renato, e devo dire che lo sforzo per rendere questa una commedia di livello e che funziona è molto dovuto alla grandezza e alla caratura degli attori che interpretano anche ruoli secondari con poche battute. Sono andato a casa di Pozzetto per convincerlo, e sono davvero soddisfatto di averlo fatto tornare in scena rimettendosi in gioco".

Anche il personaggio di Gabriella Pession è, come molte cose in "Oggi sposi", sovraccaricato e manierato: "Il mio è un personaggio sopra le righe che ha molto di Paris Hilton e di Beyonce nella sua costruzione. Ma a dire la verità mi sono ispirata anche ad altre persone di cui vi lascio indovinare il nome...".

Il regista sembrerebbe aver preso spunto dalla classica commedia all'italiana: "Più che un riferimento a qualche film o scena di preciso il mio è stato proprio un atteggiamento. A me la commedia all'italiana è sempre piaciuta tantissimo, e sono convinto che oggi possiamo rinvigorirla attualizzandola e mettendo da parte quel complesso d'inferiorità nei confronti delle cinematografie straniere che ci portiamo dietro. Se i personaggi sono scritti bene e ad interpretarli ci sono dei grandi attori si può uscire fuori dallo stereotipo fatto di sole macchiette che il nostro cinema porta in giro, e i personaggi così avrebbero profondità e umanità".

In un film sul matrimonio la stampa più patinata non può farsi scappare una domanda su questa istituzione sociale-sentimentale, e i vari attori del cast dicono la loro.
Isabella Ragonese: "Non mi sposerò mai".
Francesco Montanari: "Mi sposerò a 90 anni, se c'arrivo, in Grecia. Io, lei e il mare".
Gabriella Pession: "Trovo che la trafila burocratica e organizzativa sia terrificante, al massimo potrei entrare in un posto e sposarmi così, sul momento. Quindi potrei sposarmi solo a Las Vegas".
Moran Atias: "Mi auguro di trovare una persona con cui condividere la vita e sposarmi".
Luca Argentero (da poco convolato a nozze con la collega Myriam Catania): "La fede sulla mano mi da una gran bella sensazione, io, a differenza dei miei colleghi sciagurati (ride ndr) sono convinto che il matrimonio sia un'istituzione molto importante, e che coincida con la fortuna, che ho avuto, di trovare qualcuno con cui condividere il resto della propria vita".
Dario Bandiera, che ha intrattenuto tutti i presenti durante la mini-conferenza stampa: "Vabbè ma non vale, Luca è un tipo tranquillo, mette pace in tutti sul set, noi siamo una manica di pazzi. Per quel che riguarda me io convivo ed è come esser sposati, meglio però perché se ci lasciamo non gli devo dare niente, e poi posso andare con chi mi pare, mi piacciono i rapporti alla pari".
Filippo Nigro: "Anche io sono felicemente sposato, anche se non porto la fede al dito perché trovo che sulla mia mano stia male, mi faccia sembrare un macellaio".
Carolina Crescentini: "Non mi sposerò mai perché non voglio sapere se il mio compagno starà con me tra 30 anni o no, voglio scoprirlo vivendo".

Lucini, incalzato dai presenti riguardo al perché non avesse alzato il tiro del film realizzando una commedia più sofisticata, dice: "Il mio primo obiettivo era fare un film comico e popolare. Trovo che sia un grande pregio il fatto di riuscire a far ridere dal fruttivendolo all'amministratore delegato di una società. È un tentativo di riavvicinare un certo tipo di pubblico verso una commedia che non c'è più".

Non poteva mancare un pensiero a Michele Placido, interprete straordinario in "Oggi sposi", oggi non presente, e su come il regista abbia convinto, dopo Pozzetto, anche un grande come lui: "Io ero sicuro che andando sopra le righe il film avrebbe acquistato maggior forza e originalità. Pensavo che spiegare questo a Placido e convincerlo ad accettare un personaggio del genere sarebbe stata un'impresa. Lui invece mi ha subito capito, quando gli ho fatto un riferimento al Nino Manfredi di Brutti, sporchi e cattivi. Poi sul set si è trovato benissimo con il resto del cast, Luca, Pannofino, Lunetta Savino e si è creato un clima davvero giusto".

Clooney presenta a Roma il suo ultimo film e la stampa italiana continua il suo becero duello col divo

Clooney non ha un buon rapporto con i giornalisti italiani, questo è ormai evidente. La sua conferenza per presentare l'applauditissimo "Up in the air" è stata scialba e senza mordente, un susseguirisi di domande che poco hanno a che fare con l'ottimo film che l'attore americano ha presentato a Roma e che offre un ampio raggio d'argomenti a disposizione di una stampa che, qui immatura, non lo sa sfruttare.

Immancabile ancora una volta la domanda, anzi l'esortazione a fare outing, riguardo la presunta omosessualità di Mr. Clooney, il quale risponde all'intervistatore: "Lei è una persona davvero simpatica".

Una conferenza insomma che scorre tra l'annuncio di Clooney dei due progetti registici che bollono nel suo pentolone, un film su Guantanamo e una commedia, e le dichiarazioni di circostanza riguardo Violante Placido, con la quale sta lavorando attualmente sul set del prossimo "The American": "Violante è un'attrice fantastica e una donna meravigliosa".

A proposito del film che si gira a Sulmona immancabili, e le definiremmo imperdibili, due parole sull'Aquila: "La città deve ricominciare la propria esistenza, dobbiamo tenerla ancora sotto la luce dei riflettori, per evitare che un tragedia di tali dimensioni cada nel dimenticatoio. E' l'unica cosa che possiamo e dobbiamo fare".

Nella fiera del nonsense ecco il domandone sulla politica, una prode giornalista chiede al bel George le prime cose che farebbe se diventasse per un giorno Presidente del Consiglio dei Ministri: "Ma qui non funziona per caso come in America, dove non puoi diventare Presidente se non sei nato sul suolo dello Stato? Allora il problema non si pone nemmeno". E giustamente non risponde.

Insomma Clooney ce l'ha con la stampa, si è paventato addirittura un ritiro dalle conferenze stampa per la presentazione dei film, altro non sarebbe una semplice conseguenza della scelta già fatta a suo tempo di non rilasciare più interivste tv quando esce un suo nuovo film: "Quando presento un film non rilascio più interviste perchè alla fine non si parla mai del film stesso ma quando ci sono io di mezzo finisce sempre sul gossip".

E' sinceramente deprimente assistere a spettacoli del genere, soprattutto perchè davanti c'è uno come Clooney, uno che di cinema ne sa, uno che anche dietro la macchina dice la sua, uno che si sta ritagliando un suo spazio davvero interessante con ruoli in film (para)indipendenti e che è andato da tempo ben oltre alle smancerie da divo belloccio. Basterebbe capirlo.

lunedì 26 ottobre 2009

Asia Argento incontra il pubblico al Festival di Roma


Asia Argento è apparsa spigliata e meno ragazzaccia di come la si dipinge di solito. Dotata di un'autoironia davvero fuori dalla norma e arguta nel rispondere ed ammiccare.
Si è presentata così all'incontro con il pubblico, moderato da Mario Sesti, nel quale ha ripercorso la propria carriera, soffermandosi anche sulla regia e sul proprio futuro.

Quella che si era presentata come una ragazzaccia si mostra oggi come una 34enne qualsiasi, i modi di fare da rockstar hanno fatto spazio allo stile da mamma moderna che sfoggia raggiante e soddisfatta: "Al cinema ho spesso interpretato ruoli estremi perché mi divertivano tantissimo. Ma non ero io". Ed in effetti lei è diversa, altrochè se lo è. "Sono stata incastrata a lungo in quei ruoli. E' stata una mia scelta. Mi piaceva esplorare. Colpa della timidezza. Sono profondamente timida, un po' eremita, esco poco di casa. Così, quando uscivo per fare i film, volevo esplorare. Sono ancora timida. Guardate, mi sudano le mani".

Un colpo al cuore per i suoi fan?

Oggi forse la sua testa da cinefila, che è cresciuta a pane, sangue e cinema, è proiettata con maggior impegno nella costruzione di una carriera, e soprattutto una credibilità, dietro la macchina da presa. Effettivamente le opere da lei firmate finora non hanno mai attirato i favori di pubblico e critica, su "Scarlet Diva", che è stato spesso massacrato, dice: "Avevo 23 anni e volevo raccontare quella storia, era una questione di vita o di morte, come succede quando sei giovane. Volevo fare quel film a tutti i costi, era una rabbia che volevo liberare. Ora faccio fatica a rivederlo, è come un diario d'infanzia, con tutte le imperfezioni dell'adolescenza. In Italia non è stato molto amato, c'era del sense of humor e molti invece hanno pensato che mi prendessi sul serio. Ma le critiche mi hanno aiutata".

La carriera di regista gliela consiglia da sempre il padre: "Gli attori sono delle persone terribili, ti conviene fare la regista" (Dario Argento). E proprio sul suo approccio alla recitazione svela un interessante retroscena riguardo la sua interpretazione in "Palombella rossa" di Nanni Moretti: "Girava le scene duemila volte. In seguito capii che lo faceva con tutti. Ma allora, io avevo 14 anni, pensavo che lo facesse solo con me. E cominciai a pensare che davvero quel mestiere non facesse per me".

E proprio sulla sua pesante famiglia d'arte, che annovera nel suo albero genealogico più vicino registi, attori, produttori lei tiene a precisare di non essere una raccomandata: "E' vero che sono filgia d'arte, ma ho sempre dovuto farmi un mazzo così. Lavoro incessantementa da quando avevo 9 anni".

Insomma la determinazione e la tenacia dell'Asia che tutti conosciamo e, chi più chi meno, abbiamo imparato ad apprezzare , o a sopportare, non sembra del tutto sopita. Forse lei dovrebbe ricordarsene di più rendendosi conto che proprio questo suo lato l'ha sempre caratterizzata, evitando lo spauracchio del dimenticatoio e dell'omologazione.

Recensione: Lang Zai Ji (the warrior and the wolf)


Ambientato più di 2.000 anni il film che il regista cinese Tian Zhuangzhuang presenta al Festival di Roma in concorso. Le truppe dell'imperatore Han vengono sconfitte dalle tribù dei ribelli che vivono all'estremo confine occidentale, il generale Hu è costretto a riportare i superstiti a corte, dove lo aspetta il destino dello sconfitto. Sulla strada del ritorno la tempesta incessante di neve li costringe a fermarsi nella città di Harran, dove vive una tribù maledetta, che esce solo di notte e si trasforma in lupo quando si accoppia con uno 'straniero'.

E' qui che prende vita l'amore violento e passionale tra Hu e una donna Harran, il regista non indugierà nel racconto quantomeno carnale degli amplessi tra i due. Il film sarà per circa 2/3 formato dal sesso violento e disperato che li condurrà verso un amore impossibile, dalle conseguenze licantrope nefaste.

A parte qualche scena di forte impatto paesaggistico, il film cinese si rivela un naufragio senza speranze. L'amore tra i due, che nasce da uno stupro, per poi assestarsi sui toni più civili del sesso violento, si rivela dalla prima apparizione sullo schermo della donna, e gravita troppo l'attenzione dell'autore.

Il film era sembrato sul punto di diventare decente quando erano stati nominati questi Harran, la tribù maledetta con le sue leggende e con il mistero che li avvolgeva da secoli, il che lasciava presagire l'ingresso di un manipolo stanco e sconfitto di soldati all'interno di una comunità ostile e soprannaturale. Ed invece questo aspetto viene lasciato sullo sfondo, accennato in qualche sequenza persino ridicola.

Tutto, per fortuna, si spegne in un finale simbolico e non necessario. Bocciato.

VOTO 40/100

Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo (The Imaginarium of Dr. Parnassus)

Il 4° Festival di Roma ha vissuto una delle esperienze certamente più attese e di maggior richiamo con la proiezione all'Auditorium dell'ultimo film di Terry Gilliam "The imaginarium of Doctor Parnassus". Un progetto segnato da grandi ambizioni e da un'attenzione ovviamente ampilificata a dismisura dalla morte di Heath Ledger.


Gilliam fa scelte coraggiose, forse incaute, per tutto il film. Un'esaltazione quasi religiosa del colore accecante e del kitsch più assurdo che dietro lo specchio magico del Dr. Parnassus prendono forme viste raramente prima. Un esercizio megalomane alla ricerca dell'immagine surreale perfetta, un mondo interposto a quello che tutti conosciamo, dove gli avventori dell'Imaginarium rifocillano le loro anime oppresse e danno sfogo, ognuno a modo suo, a sogni e incubi, sempre costretti a scegliere tra diavolo e acqua santa. Anche Gilliam entra nell'Imaginarium, e perde subito il controllo del materiale che ha in mano. Esalta i propri pregi, evidenziando al contempo i difetti.

La sua inclinazione innata nel provocare l'immaginazione dello spettatore, gettandolo in pasto a elucubrazioni quasi infantili, tocca qui l'apice. E allora il film sarà un viaggio all'interno di storie assurde, immortali, sempre interrotte dall'inizio di un'altra più avvincente, di personaggi rubati qua e là alle favole, alla tragedia, alla mitologia (Faust su tutti) e al cinema di genere.

E proprio qui viene fuori il Gilliam che non sa controllarsi, quello che non riesce a domare nemmeno il mondo che è al di qua dello specchio magico. Il regista, allucinato anch'egli da un progetto forse scappatogli presto dalle mani, non sa rendersi conto che per continuare a stuzzicare la fantasia degli spettatori bisogna far credere loro che vi sia ancora un sottile cordone ombelicale che tiene la storia, o almeno i personaggi, attaccati ad una parvenza di realtà che rende il tutto davvero magico e senza tempo, evitando di porgere il fianco ad una punta d'irritabilità che qualcuno potrebbe palesare in più di due ore di deliri.

Bisognava asciugare, sfoltire tutto il 'troppo' gilliamiano, e ce n'è davvero tanto, rinvigorendo così le ottime idee da cui si era partiti. Dall'omaggio metaforico su cui poggia tutto fatto all'arte, che altro non è che il mondo dietro lo specchio, la porta per noi tutti verso una piacevole deriva dove tutto è lecito, per arrivare conseguentemente alla mitologica figura dell'artista che non riesce mai a godere appieno del proprio talento.

La prematura scomparsa di Ledger non ha certamente aiutato la compatteza della pellicola, che in mezzo a tutto quel frastuono propone anche la trasfigurazione del personaggio di Tony che, aldilà dello specchio, prenderà i volti del solito Johnny Depp, di un Jude Law assolutamente fuori ruolo e di un buon Colin Farrell. Nonostante la scaltrezza di chi ha preso questa decisione, assolutamente plausibile analizzando la storia, cresce proprio in questo suo ultimo film il rammarico, cinefilo più che misericordistico, per la scomparsa di Ledger, qui magnetico e camaleontico come avremmo voluto rivederlo altre volte.

Se è vero che il troppo stroppia, comunque è innegabile che gli eccessi destano anche grandi curiosità, e questo è quello che merita il film di Gilliam, tanta sana curiosità ed ammirazione, con la lucida consapevolezza che si sarebbe potuto fare di meglio semplicemente aggiustando il tiro in un paio di scelte.

VOTO 58/100


Terry Gilliam ricorda Heath Ledger


Il genio ex Monty Phyton sbarca al Festival di Roma per presentare "The imaginarium of Dr. Parnassus", ultimo film interpretato dallo scomparso Heath LedgerDifficile soffermarsi su un film, anche se dell'importanza di "The imaginarium of Dr. Parnassus", quando questo porta con sé la struggente testimonianza di una vita, e una carriera, interrotte bruscamente. Ed infatti l'incontro con Gilliam torna spesso, quasi sempre, al ricordo dell'attore americano. "Per me era un attore, un uomo e un amico straodinario. Pieno di vita e di humour, dotato anche di un pizzico di sarcasmo, e poi una cosa che mi impressionava di lui era la saggezza che portava con sé. Ho sempre pensato che nelle sue vene scorresse sangue aborigeno, aveva 247 anni quando è morto".Nella pellicola le scene che Ledger non è riuscito ad intepretare sono state affidate a Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, tre illustri amici di Heath: "Johnny, Jude, Colin hanno voluto collaborare e prendere parte al film perchè sono sempre stati molto vicini a lui. E io trovo che questo loro conoscerlo così bene lo abbiano portato anche nelle loro interpretazioni. Anche l'entourage di Tom Cruise ha proposto il suo assisitito per sostituire Heath, ma io non ho accettato perchè si conoscevano poco. Volevo solo amici stretti di Heath sul set".Ovviamente la morte di Ledger ha messo tutti di fronte ad una serie di scelte da fare: "Abbiamo deciso - dice il regista - di non cambiare assolutamente lo script, di realizzare il film così come lo avevamo immaginato con Heath".E proprio questa dichiarazione sposta l'attenzione sulla passione che l'interprete aveva per la regia, della quale avrebbe voluto fare il proprio lavoro un domani: "Era così deciso a diventare un regista, sul set non faceva altro che apprendere e la sua voglia di imparare era inesauribile. Voleva cambiare continuamente le scene e addirittura modificava le proprie battute. La sua presenza era così forte sul set che avevamo anche pensato di co-firmare la regia. Devo essere sincero neanche io spesso riuscivo a stare dietro a tutta la sua energia, era incredibile quando lavorava".
E questa energia sul set era forse una delle sue caratteristiche fondamentali, quello che lo stanno immortalando nel ricordo di tutti come un personaggio incredibilmente carismatico e pieno di vita: "Rideva continuamente, ci sorprendeva davvero in ogni momento, riempiva tutti di scherzi. E la cosa incredibile che lui faceva tutto questo sempre nell'ottica della continua costruzione del suo personaggio. Cambiava accento e modi a seconda dell'oggetto della sua seduzione. Questa natura camaleontica che ha contribuito a creare un personaggio davvero complesso son certo che ha aiutato l'opera di Depp, Law e Farrell che hanno potuto reinterpretare a loro modo un personaggio dalle mille facce".

Muccino vs Tornatore


Continua l'iter del Festival di Roma nel presentare al pubblico duetti (o duelli?) d'eccezione, le poltrone della Sala Petrassi che l'anno scorso erano riservate a Toni Servillo e a Carlo Verdone passano quest'anno alla coppia di autori Gabriele Muccino - Giuseppe Tornatore. Una chiacchierata piacevole, a tratti, un po' tediosa in altri, ripercorre attraverso le scene più significative dei loro film, che sono state scelte a vicenda, l'opera dei due. Due visioni di cinema formalmente diverse, sostanzialmente no. Entrambi amanti di una coralità partecipata, di uno sguardo multiforme e sempre in movimento, le scene di "Malena" e di "Come te nessuno mai" ne provano l'efficacia, si incontrano senza scontrarsi. Ciononostante le premesse erano sembrate diverse, pronti-via e Muccino attacca Tornatore: "Sei ridondante nei tuoi film, alla fine in quel marasma non arrivi al cuore della questione che vuoi raccontare". E Tornatore, meno frizzante e istrionico del collega balbuziente romano nell'eloquio, ma dotato di retorica da vecchia volpe, ribatte secco: "Me lo dicono in tanti, mai pensato che è semplicemente il mio stile?". Le acque, ahinoi, si quietano ben presto. I due si cullano l'uno nell'altro, sviolinate per il quantomeno discutibile "Baarìa" da una parte, buonismo da venditore dall'altra. Tornatore, addirittura ribattezzato Peppuzzo da Muccino in un'occasione, descrive così il cinema del romano: "La sua costante credo sia raccontare in modo effervescente, brillante, generazioni diverse. Mi sembra che tutti i protagonisti dei suoi film vadano verso quello che è anche il titolo di una delle sua pellicole: La ricerca della felicità". E va realmente vicino a quello che per l'Italia è stato Muccino, dimenticandosi presto però di quello che sta invece facendo oltreoceano, dove accetta di stordire gli spettatori con i patemi tutti hollywoodiani di Mr. Will Smith. Nella cinematografia del siciliano è palese, anche troppo, il continuo omaggio al cinema, "Nuovo Cinema Paradiso" e "L'uomo delle stelle" su tutti, mentre in Muccino questo aspetto non si riscontra, anche se lui si definisce, divertendo il pubblico, uno "che sa cosa ruba e a chi. Anche per rubare ci vuole un'arte". Tra scene di "Sette anime" e "La ricerca della felicità" ci si imbatte in un Polanski attore d'eccezione per una sequenza, quella del suicidio di Depardieau, di "Una pura formalità". Occasione imperdibile, visti i recenti accadimenti legati alla carcerazione del genio polacco, per Tornatore che corregge il tiro alle dichiarazioni da lui lasciate giorni addietro: "Molti hanno frainteso il senso delle mie parole in suo favore. Non volevo avallare gli 'stupri d'autore', come alcuni hanno voluto interpretare, ma solo dimostrare il mio affetto per Roman. La giustizia deve fare il suo corso, ma finora con lui le cose sono andate in maniera un po' strana". E Mario Sesti, e la sala tutta, si è stretta idealmente intorno a Roman, che finirà il suo "Ghost" in carcere per presentarlo alla Berlinale 2010. Anche questa volta l'incontro tra due grandi del cinema italiano di oggi ha fatto centro, soprattuto perchè il reale merito di un progetto di questo tipo è quello di trasformare lo spettatore occasionale in (neo)cinefilo, e questo per noi è sempre un bene, facendolo entrare inconsapevolmente in una forma mentis che non aveva prima.

Recensione: Tra le nuvole

Clooney incanta il Festival con un personaggio che gli si cuce addosso, e il film piace a tutti

Ancora a Roma, ancora una full immersion nel microcosmo di personaggi anticonvenzionali per un Jason Reitman che, se è vero che tre indizi fanno una prova, dopo "Thank you for smoking" e "Juno" dichiara sommessamente al mondo cinefilo di essere bravo. E lo è per molti motivi, tanto per cominciare perchè con lui gli attori danno sempre il meglio, Aron Eckhart prima, Jennifer Paige poi, ancora si cullano e raccolgono i frutti delle loro esperienze reitmaniane. Lo è perchè il suo registro agrodolce ingenera risate sempre più intelligenti, pennellando favolette nere mai ridondanti.

Oggi la sua preda è la crisi profonda delle aziende statunitensi, che, costrette a ridurre drasticamente il personale, devono affidarsi a tagliatori di teste professionisti. Gente senza scrupoli e senza fissa dimora, che divora chilometri per licenziare i poveri disgraziati. E nella squadra hollywoodiana degli attori di mezz'età nessuno meglio del ragazzaccio dagli occhi languidi George Clooney poteva imbarcarsi in un ruolo non scontato come questo. Ed allora il mostro di Reitman prende presto forma, un uomo fissato con le carte fedeltà delle compagnie aeree, del noleggio auto, delle grandi catene alberghiere (e qui il product placement si spreca), che vive la sua esistenza, vuota, tra licenziamenti lampo e convegni nei quale promuovere un filosofia di vita tutta sua e alquanto deprimente. Tutto questo tra sequenze che ammiccano risate mai scontate.

Reitman si conferma abile domatore di stranezze, il film scorre e diverte, merito da dividere con Clooney questo, a volte è addirittura irresistibile, con un occhio sempre attaccato all'attualità degli Stati Uniti, e ai vizi di una società che da qualche tempo, Obama a parte, sembra essere arrivata ad un punto di saturazione preoccupante.
E' forse qui il merito maggiore di "Up in the air", nel forsennato andirivieni e avvicendarsi delle città degli States, l'occhio del protagonista attraversa in lungo e in largo un Pese intero, e quello dell'autore, parallelamente, va a fondo di un impianto sociologico dal denominatore comune.

Il film non si esaurisce qui, i personaggi si ritrovano inconsapevoli passeggeri di un percorso che porterà (quasi tutti) ad una risoluzione, o perlomeno maturazione, che segnerà il continuo delle loro esistenze. E Ryan (Clooney) sarà il collante, il deus ex machina che avvierà ogni processo interno ai personaggi che lo affiancano, trovando quell'amara consapevolezza che chiude il sipario.
Tutto è veloce, i ritmi incalzano lo spettatore. Un film da vedere, un gioiellino per il Festival di Roma.

VOTO 76/100

Recensione: Viola di mare



Presentato all'Auditorium il primo film italiano in concorso. Prodotto dalla Cucinotta, che si ritaglia anche un piccolo ruolo, e distribuito da Medusa, il film della Maoirca si ispira ad un romanzo di Giacomo Pilati, "Minchia di Re", che racconta il percorso e l'amore omosessuale di due giovani donne in un'isoletta sicula di meta '800. L'approccio alla tematica e l'ingresso di questa in un ambiente iperconservatore e patriarcale non erano dei più comodi, ed infatti il film della Maiorca si sgretola ben presto. La storia, pur se tratta da un episodio (dicono) realmente accaduto, viene soffocata sotto il peso delle innumerevoli sovrastrutture che vi si creano sopra, ancora una volta la complessità di un romanzo rovina l'intenzione di un film. Gli spunti interessanti non mancano, vedi la coraggiosa scelta registica manifestata da inquadrature non convenzionali e poco televisive (rischio scongiurato vista la militanza dell'autrice nel piccolo schermo) e la colonna sonora di Gianna Nannini, che sporca e attualizza il costume ottocentesco. Ma non basta. Le scelte voluttuose che accompagnano tutto il rapporto tra le due, una buona Solarino, che esce alla lunga, e un'impacciata Ragonese, meno in palla rispetto a "Tutta la vita davanti", intasano il gusto di chi guarda il film, paralizzano il percorso intrapreso all'interno dell'ipocrisia popolare e sottocategorizzano il tutto ad un melò ambiguamente realizzato. Un melò nel quale il motto è: "C'è solo un modo per volersi bene" (Angela a Sara). D'altro canto però il repentino cambio di rotta che "Viola di mare" vive, che non anticipiamo, lascia il campo al teatro del paradosso, desta la curiosità dei più attenti e fa crescere il rammarico. Il vero punto di forza dell'intero progetto sarebbe dovuto essere quello di analizzare le reazioni e le relazioni sociali che una bomba ad orologeria come il rapporto tra Angela (Solarino) e Sara (Ragonese) e le sue conseguenze avrebbero potuto avere. Questo soprattutto all'interno di un ambiente del genere, e lo sfruttare meglio l'ambientazione dell'isola, che in questi esperimenti aiuta eccome (Abrams docet), avrebbe rafforzato l'impianto metaforico e la riuscita della pellicola. Invece quel che rimane è un melodrammone troppo elaborato che vive soprattutto dell'interpretazione della Solarino e della singolarità comunque riconoscibile della tematica, il tutto deliziato da alcune scene erotiche d'impatto che esaltano sinuosità e asperità fiscihe delle due protagoniste, modelli di bellezze agli antipodi tra loro.

Mp News incontra Valeria Solarino, Isabella Ragonese, Donatella Maiorca, Maria Grazia Cucinotta e Gianna Nannini

(alla regista) La voglia di rappresentare un amore irrituale, che poi alla fine risulta essere l'unico sentimento sincero, a cosa è dovuta?

Donatella Maiorca: "Viola di mare è una grande storia d'amore e di libertà, la libertà di poter scegliere chi amare. Angela è una donna che s'innamora solo di sara, non di tutte le donne. E proprio per questo che la storia tra di loro, essendo universale, era attuale allora ed è attuale oggi.

Poi mi interessava smascherare un virus latente nell'essere umano: il razzismo e la violenza nei confronti dei diversi. Un altro aspetto che rende attuale il film".

(alle attrici) Come avete approcciato i vostri personaggi non facili? Avete mai pensato di scambiarveli?

Valeria Solarino: "Non avrei mai ceduto il mio ruolo, ero fortemente attaccata al personaggio di Angela. Ho sempre avuto chiara in mente una sola cosa: Angela ama Sara in qualsiasi momento della storia. Perciò qui parliamo dell'amore come dovrebbe essere considerato: due esseri umani che si incontrano senza dover rientrare in dei cliché stabiliti o dover riempire delle tabelle già scritte".

Isabella Ragonese: "Il personaggio di Sara l'ho lavorato in maniera meno evidente ed esposta rispetto a quello di Valeria. Ho dovuto intraprendere un percorso più soottile, prima di girare ho cercato di dimenticare ogni cosa attinente all'attualità, ho pensato ad una ragazza ingenua e normale cercando di capire cosa potesse scattare in lei, di cosa si fosse innamorata.

E secondo me Sara si innamora dell'amore che Angela prova per lei, più che di Angela stessa. Il film racconta quanto è potente una passione quando è reale".

(alla produttrice) Come commenta la bocciatura della legge contro l'omofobia?

Maria Grazia Cucinotta: "Non parlo mai di politica, ne parlano tutti oggi ed è una cosa grave perchè così si confonde la gente. Io faccio solo cinema, e così affronto il problema. Facendo il mio lavoro e portando avanti un film del genere. Per realizzarlo ho preso molte porte in faccia e ringrazio fortmente la Medusa che ha creduto nel progetto".

(alla realizzatrice della colonna sonora) Ti sei divertita nel comporre la colonna sonora per Viola di mare?

Gianna Nannini: "Per me quando faccio una colonna sonora è sempre importantissimo parlare con il regista. Questa volta vista l'ambientazione fortemente caratterizzata volevo uscire dal luogo comune della musica popolare, e siccome oggi il rock è la musica popolare per eccellenza il passaggio per me è stato molto vicino. Inoltre ho voluto recarmi personalmente sui luoghi dove tutto è accaduto e tutto è stato girato. Alla fine ho inserito delle sonorità di chitarra molto acide, che appartenessero al luogo e ai suoi sapori, che ho campionato stando lì".

giovedì 15 ottobre 2009

I photoreporter boicottano Paz Vega e Christopher Lee


Le acque si sono subito agitate nella giornata d'apertura del Festival, e questa volta non sono state nè le star capricciose nè gli organizzatori in cerca di visibilità per la kermesse a smuoverle, bensì i fotografi accreditati alla manifestazione. Un po' mestieranti, un po' artisti hanno mandato a vuoto il primo photocall del Festival, quello di "Triage". La bella iberica Paz Vega, il mostro sacro Christopher Lee e il regista serbo già premio Oscar per "No man's land" Danis Tanovic sono rimasti a bocca asciutta, nessun flash e nessun richiamo casereccio del genere: "Paz facce un soriso" hanno deliziato la mattinata all'Auditorium delle primissime star sbarcate al Festival. Singolare la notizia soprattutto se si tiene conto che nel film in questione i protagonisti sono due fotografi di guerra inviati in Kurdistan, i quali, tenendoci alla larga, non fanno un fine idilliaca. Dalla sua la FPA (Fotoreporter Professionisti Associati) sostiene, e a ragione, che gli spazi dedicati ai fotografi sono inadatti al numero di questi, e perciò le condizioni in cui si lavora sono inaccetabili. Nel comunicato diffuso i fotoreporter sfatano il mito secondo il quale "sarebbe stato lo stesso Renzo Piano a proibire la costruzione per i photocall", registrando la smentita degli architetti del team di Piano.

La magia della musica marocchina pervade il primo giorno del Festival di Roma

Presentato al Festival del Cinema di Roma come proiezione speciale il documetario "Sound of Morocco" di Giuliana Gamba. Un mockumetary che delinea delicatamente il panorama musicale del Paese marocchino, raccontandone la magia e la magneticità ereditati dalla tradizione, attraverso la gita a Zri Zrat, culla del movimento musicale marocchino più antico, e motivandone la crescita e la consacrazione attraverso l'incontro con Omar Sayed, leader degli storici Nass El Ghiwane, definiti da Scorsese i 'Rollin' Stones d'Africa'. Il Cicerone di questo viaggio all'interno dei suoni di un Paese incredibile come il Marocco sarà Nour Eddine, che da vent'anni vive e suona in Italia, e che qui farà da tramite tra il nostro modo di pensare e quello di un Paese in fervida trasformazione. Questi pretesti hanno aiutato la regista a raccontare meglio il panorama odierno, attraversando le città di Tangeri, Ouazzan, Meknes, Casablanca e Essaouira (dove ogni anno si svolge il Festival di musica Gnawa). Un affresco complesso e coinvolgente, che lascia all'improvvisazione dei musicisti coinvolti, vedi il freestyle improvvisato dai rapper di Casablanca e gi urli delle donne ad una festa tradizionale, le redini del racconto di un popolo che vive un momento di grande orgoglio e rivendicazione, attingendo da ieri per costruirsi un domani accettabile.

mercoledì 14 ottobre 2009

Recensione: Nemico pubblico


John Dillinger era per gli Stati Uniti della Grande Depressione l’antieroe di un popolo intero, l’inafferrabile rapinatore di banche, romantico, metteva in ginocchio, colpo su colpo, proprio quegli istituti che in quegli anni affondavano l’economia di un Paese intero. L’uomo che da solo mise in crisi e in discussione l’efficienza e l’effettiva utilità della neonata FBI. Colui che sfidò l’intero sistema, mettendo a segno evasioni e rapine da costa a costa.

Dozzine di romanzi e produzioni se ne sono occupati prima, ma qui ci si trova di fronte a qualcosa di visceralmente diverso.

È questo il pretesto, non da poco, da cui Mann parte: un terreno di contenuti dove il regista si muove a dir poco a suo agio, quello della definizione, quasi epica, di vita, morte e miracoli di cattivi dal cuore d’oro. Assassini dal carisma incontenibile sullo schermo, come il Tom Cruise di Collateral, o i poliziotti corrotti di Miami Vice, che l’affermazione planetaria di Michael Mann permette di veder interpretati da star di prim’ordine.

Stavolta è il turno di un Depp nella sua interpretazione perfetta, che accantona, almeno fino al 2011, i panni di pirata fulminato, e si ritrova magnetico protagonista di un gangster movie girato, ovviamente, alla Mann.

Proprio la coppia Depp-Mann sarà il motore di “Public enemies”, inquadrature con telecamera a spalla al servizio di un’interpretazione vecchia scuola, dove non per forza bisogna trasformarsi, ingrassare, imbruttirsi, invecchiarsi o prendersi in giro per richiamare amori di pubblico, critica e Academy.

Il resto, seppur ben curato, è un contorno che qui diviene di poco conto: il Bale inespressivo relegato ad un ruolo volutamente secondario, la descrizione di un’epoca vista ormai troppe volte al cinema, il crogiolarsi su facili stereotipi che la vita da ladro gentiluomo e un’ottima spalla femminile quale ‘Edith Piaf’ Marillon Cotillard porgono facilmente.

Il salto di qualità rispetto ad un buon film lo fa fare la, riconosciuta, vena registica di Michael Mann, che mette su un classico gangster-movie girato all’interno di un registro cinematografico che lui, prima e meglio di altri, incarna perfettamente. L’esperienza di un’immagine realistica, con una fotografia naturale spinta quasi al limite, sensazioni che i nuovi media come internet (vedi youtube) hanno insegnato a digerire come pane quotidiano, ma che sul grande schermo stravolgono lo spettatore. Lo lanciano nell’azione a fianco del Depp di turno, attraverso un’immaginaria telecamera nascosta nei covi dei criminali degli anni ’20.

Ed allora giù il cappello per Mr. Mann che, nell’epoca del 3D a tutti i costi, zittisce tutti e si conferma assoluto padrone del cinema d’avanguardia tecnologica ad alto budget. “Public enemies” funziona su tutta la linea (cast, sceneggiatura, scenografie, costumi), è un gangster-movie di primo livello, dove però sembra che il girato sia quello del backstage di una webtv indipendente inviata sul posto a dar fastidio e non quello ufficiale della major di turno (Universal).

VOTO 80/100