venerdì 28 settembre 2007

Recensione: I'm Not There

Il genio di Bob Dylan nell'interessante e complesso film di Todd Haynes

I'm Not There è un lavoro geniale e impressionistico "ispirato alla vita e alla musica di Bob Dylan".
Più che un biopic convenzionale, il film consiste in una serie di storie intrecciate fra loro, ognuna delle quali esprime un aspetto della personalità volubile di Dylan. I produttori hanno definito così, i protagonisti di queste storie: "il menestrello delle pianure del sud, il profeta del folk, il poeta visionario, il Giuda elettrico, il divo inossidabile, il predicatore evangelico, il cowboy solitario" - e
questo è solo l'inizio.
Cinque diversi attori interpretano sei diversi personaggi "dylaniani". Gli attori sono donne e uomini, bianchi e neri, e vanno dagli 11 anni di un bambino, ai 50 di un uomo maturo.
I "Dylan" si chiamano Woody (un bambino nero di 11 anni, sempre in fuga), Robbie (un attore donnaiolo, sempre on the road), Jude (un giovane artista tormentato), John/Jack (l'idolo folk che diventa predicatore), e Billy (il famoso fuorilegge, miracolosamente ancora vivo, ma sta invecchiando). Arthur il poeta punteggia le scene parlando rivolto direttamente in camera.
Le storie sono dense e ingegnose incursioni in alcune fasi della vita di Dylan, che si intrecciano pur restando separate fra loro - ognuna filmata in un modo diverso e in uno stile adeguato al suo tema. Si svolgono in mondi sia reali che immaginari, e sono illustrate e inframmezzate da immagini vere e false di notiziari, filmati di repertorio, voci fuori campo, narrazioni rivolte alla macchina da presa, allucinazioni, sequenze oniriche e, in una scena memorabile, un
montaggio subacqueo...
Gran parte dell'azione si svolge in America negli anni '60 e '70, quando notizie drammatiche e personalità della politica inernazionale irrompevano nelle case per la primissima volta. Quelle immagini familiari - il movimento per i diritti civili, la guerra del Vietnam, le figure incombenti di Lyndon Johnson e Richard Nixon - fanno da sfondo alle storie che via via prendono forma.
Gli autori danno continuità a storie e stili diversi con una colonna sonora corposa e coerente. Il film si apre con l'inno dylaniano all'irrequietezza, Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again, prosegue con le altre canzoni di Dylan (originali o cover) in ordine più o meno cronologico, e si chiude opportunamente col suo successo più rappresentativo e internazionale, Like a Rolling Stone.
Il regista e sceneggiatore Todd Haynes ha cercato di rendere tutta la complessità e i salti logici che hanno reso famosi in tutto il mondo i testi di Dylan. Data l'immensa copertura mediatica di ogni aspetto della "storia di Bob Dylan", una biografia tradizionale sarebbe stata superflua, e probabilmente non sarebbe stata accolta con favore dal diretto interessato.
Il casting è piuttosto stravagante, e potrebbe lasciare qualcuno perplesso. L’esuberanza degli anni infantili e giovanili di Dylan (compreso il mitico viaggio attraverso l’America, per fare visita al suo idolo, Woodie Guthrie, in ospedale) è rappresentata da un bambino nero di 11 anni.
La popolare attrice Cate Blanchett interpreta il Dylan giovane e lanciatissimo di “Don’t Look Back”; Heath Ledger è il marito e superstar dell’epoca di “Blood on the Tracks” . Christian Bale è l’austero ex-profeta del folk convertito alla religione. In quella che è decisamente una digressione fantastica, spunta fuori un Billy the Kid in carne e ossa, interpretato da Richard Gere, con tanto di look western e atmosfera da baraccone.
Rispetto a questi uomini di fantasia, le donne della vita di Dylan sono raffigurate in modo mirabilmente realistico e onesto: l’intensa Charlotte Gainsbourg è la moglie; l’indipentente e risoluta Julianne Moore è la sua successiva compagna. Il cast è un miscuglio intrigante di personalità artistiche diverse. Il formato è decisamente originale, ma il risultato complessivo è stimolante e dotato di una sua coerenza emotiva.
Le storie si sviluppano intrecciandosi in modo efficace verso il crescendo drammatico degli ultimi dieci minuti, in cui la moglie di Robbie, dopo anni di sofferenza e solitudine, lo lascia portandosi via le figlie. Il copione stempera l’emozione, qui, usando solo una canzone da Blood on the Tracks album, e troncata a metà. Ma questo film così giocoso e spregiudicato funziona? La risposta è sì. I
produttori sono professionisti di grande competenza, che lavorano con Haynes fin dai suoi esordi. Gli interpreti sono attori consumati e affascinanti, e le parti più surreali e sopra le righe della sceneggiatura (Billy e il Wild West) sono affidate alla grande esperienza di Richard Gere.
Ma soprattutto, Haynes è molto cresciuto dai tempi di Velvet Goldmine. Oggi è un regista maturo, che con il suo Lontano dal paradiso ha conquistato il grande pubblico, senza rinunciare né alla complessità né all’integrità della sua visione.