venerdì 31 ottobre 2008

Gianluigi Rondi stila un bilancio del Festival Internazionale del Cinema di Roma

Gianluigi Rondi, in attesa della premiazione delle 18,30, incontra la stampa per fare un bilancio della prima edizione del Festival che lo vede timoniere.
Si dice soddisfatto prima di tutto degli eventi collaterali alla selezione ufficiale, con particolare riferimenti al mercato, The Business Street, e agli Stati Generali del Cinema, dei quali dice: “Si sono gettate le basi legislative e giuridiche per tutto quello che sarà il cinema a venire, ci vuole una legge che coordini e riassatti l’intero sistema cinema”.
Soddisfatto anche dell’attenzione che hanno ricevuto le mostre, in particolare quella del ’48, che unisce senso civico e passione per il cinema del Presidente della Fondazione Cinema per Roma. Di grande valenza, emotiva e cinematografica, gli omaggi agli scomparsi, che hanno dato l’occasione di recuperare materiale interessante ed inedito.
La cosa che non gli è piaciuta invece, e questo lo si sapeva già visto che lo aveva esternato in più sedi ed occasioni, è stato l’eccessivo materiale in concorso. “Quattro film in concorso al giorno – dice – sono davvero troppi. So che per voi della stampa è impossibile vederli tutti. Essendo io un critico mi arrabbio perché so che bisogna scelgiere, ma i film in concorso devono esser potuti visionare tutti. Prometto che questa cosa verrà rettificata il prossimo anno”. Rondi precisa che comunque la colpa non è dei selezionatori, che, quando lui è salito in corsa, avevano già selezionato il materiale, e non potevano comportarsi altrimenti.
Proprio riguardo i selezionatori Rondi auspica delle novità, che spera siano apportate già dalla prossima edizione: “Spero che chi vorrà occuparsi della selezione avrà con me uno scambio d’opinioni. Abbiamo l’11 novembre un Consiglio Direttivo della Fondazione dove esporrò le mie idee, ci metterò sicuramente la non completa autonomia dei direttori”.
Rassicurazioni invece sul fronte location per le prossime edizioni, il contratto con l’Accademia di S. Cecilia è stato prolungato fino al 2001.

giovedì 30 ottobre 2008

Recensione film: A corte do Norte




A corte do Norte racconta la storia di tre donne, in tre periodi storici diversi. Lo scorrimento delle vicende si ritrova, in un percorso circolare che termina ai giorni nostri, a inseguire la soluzione di un’enigma: la morte di Rosalina, donna vissuta a Madeira che aveva una impressionante somiglianza con la imperatrice Sissi, della cui dipartita non si è mai trovata prova concreta.
L’opera fa e disfa la trama troppe volte, i continui salti temporali e l’utilizzo di Ana Moreira, modesta interprete emergente portoghese, per dare il volto alle irrequiete protagoniste delle varie epoche creano una confusione che, stratificandosi col passare del tempo, distrae e quasi condanna lo spettatore ad una visione poco sensata.
Il lavoro di Botelho quindi non pone in primo piano la linearità e la coerenza della storia, si limita a costruire scene che si incastrano male tra loro, fornendo una complessità che una trama già contorta non meriterebbe. Tematiche come l’affermazione della donna, l’identità, il senso di appartenenza ad una famiglia sono reperibili, ma inefficaci e mal sviluppate. Emergono perché la costruzione di alcuni caratteri, attribuibile più al romanzo a cui si ispira che al lavoro di sceneggiatura di Botelho, è costruita verso una direzione ambigua ed enigmatica.
L’utilizzo del digitale in sostituzione della pellicola tra l’altro non aiuta, e allora A Corte do Norte soffre anche di un impatto visivo poco dinamico. La costruzione di ogni scena come fosse un’opera pittorica, significativo l’omaggio funzionale alla trama dedicato alla Giuditta ed Oloferne di Caravaggio, se da un lato inizialmente sorprende ed incanta, dall’altro annoia ben presto. D’altronde una serie di ottimi fotogrammi e di affascinanti screenshots privi di cinetica non produce quasi mai come risultato un film visivamente bello. E allora quello che potrebbe, e dovrebbe, essere il punto forza diventa un ulteriore passo falso.

Dal punto di vista contenutistico la cifra è relegabile al melodramma femminile d’epoca, in cui amori impossibili e attriti famigliari sono leit motiv a dir poco ripetitivi, e dove il confronto dei personaggi, che tra loro legano rapporti tipicizzati (le serve che s’innamorano dei padroni, le sorelle che provano amori platonici per i fratelli, ecc.), con la realtà sociale dell’epoca è affidata alle solite feste o rappresentazioni teatrali, più o meno eleganti e patinate a seconda degli episodi.
Un esperimento, quello del regista, poco riuscito. Forse il romanzo di Agustina Bessa Luis era poco traducibile in un cinema che potesse produrre un minimo di senso artistico, ed allora il risultato è un melodrammone appannato, sconclusionato che poco aggiunge in termini di qualità al materiale in concorso al Festival di Roma.
VOTO 51/100

Recensione film: Missing




Nei fondali di un’isola giapponese di Yonaguni un ricercatore muore in modo misterioso. Il suo fantasma tornerà dalla sua amata, in una realtà distorta che viaggerà tra onirico ed immaginazione.
Tsui Hark porta a Roma fuori concorso un film stravagante e controverso. Missing è un’opera che non accetta classificazioni, inquina i generi, appiccicandoli in modo violento e traumatico, analizza e reinventa continuamente i personaggi con occhio inquieto e disturbante.
Quando la strada imboccata pare esser quella del thriller, ecco che le suggestioni e le visioni si spostano prepotentemente nel linguaggio del cinema horror orientale, quando invece l’horror si esaurisce, in modo tra l’altro poco indagato, eccoci nel campo del melodramma romantico. L’unico aspetto comune, oltre ad uno sfacciato product placement a favore della Panasonic, è l’importanza dell’acqua come elemento vitale, il vero e proprio fil rouge del lavoro metaforico dell’autore.
Impossibile, si potrebbe pensare. Ed invece è proprio così, anzi le parole non descrivono a fondo la multicromaticità che Missing propone. Esperienza visiva accecante, più che film dall’invidiabile impianto narrativo, mette troppa, a dir poco, carne al fuoco.
Mescolare i generi va bene, quando la storia lo richiede. Quando i personaggi sono ben delineati allora i generi, fastidiosa etichetta che non attacca sui prodotti di qualità, neanche dovrebbero esistere. Invece Tsui Hark esagera. Proporre al pubblico un tale esercizio di stile porta irrimediabilmente ad una reazione scomposta. I tanti film dentro al film non convincono neanche se espiantati e giudicati singolarmente. Ed ecco l’horror assomigliare ad una parodia dei tanti prodotti giapponesi, The Grudge su tutti; esteticamente caricato da effetti speciali grossolani, porta con sé sequenze davvero mal strutturate. In pratica un horror giapponese contaminato dal cattivo gusto delle rivisitazioni made in Usa degli ultimi anni. Il film romantico ha toni oltremodo melensi e patetici.
Anche formalmente Tsui Hark fa scelte discutibili, gli stacchi e le inquadrature prevaricano spesso una messa in scena non curata. Da questo punto va comunque riconosciuta una certa coerenza: la voglia di sorprendere lo spettatore trova riscontro anche nella direzione registica mai classica.

Finiti i titoli di coda di Missing avremo visto la protagonista nei panni di una subacquea avventuriera (Trappola in fondo al mare), una psicanalista che impazzisce (Gothika), una vittima perseguitata dai fantasmi (scegliete voi), una specie di assistente sociale per i fantasmi (questa è nuova), una donna che ha perso l’amato e lo rivede da fantasma (Ghost) in un prodotto pasticciato ed ultracitazionista, che merita comunque una visione per il coraggio e l’originalità.
VOTO 48/100

Intervista al regista polacco Zanussi e all'attore ucraino Stupka, regista ed attore di With a warm heart

Zanussi questo film segna un suo ritorno alla commedia. Perché questa scelta?

Krzysztof Zanussi: “Mi sembrava che era arrivato il momento in cui dovevo cercare di dire cose serie in una commedia nera. Pensavo di poter inserire l’atteggiamento nichilista in un forma comica. Fa sempre ridere qualcosa che si smaschera, che è finto: un uomo che induce la potenziale vittima al suicidio, dicendo cose in cui non crede minimamente, mi sembrava potesse essere un ottimo soggetto”.

Il film si chiude troppo presto e con troppo buonismo, dopo il trapianto Dopo trapianto si chiude in maniera troppo veloce. Basta un cuore nuovo?

K.Z.: “Ho voluto inserire un forte elemento di favola, non realistico. Non è il cuore nuovo a suggerire la redenzione del personaggio, bensì il pericolo della morte. Quando tutto finisce volevo lasciare forte la sensazione che la vita vale qualcosa.
Il cuore poi sin dal medioevo è rappresentato come fosse il centro dell’anima, anche se i processi emozionali e spirituali si svolgono nel cervello. Il cuore ha una forza metaforica: un cuore nuovo può salvarti anche sul piano spirituale, oltre che quello fisico”.

Bohdan Stupka lei è stato Ministro della Cultura della Repubblica ucraina ed ha un’esperienza incredibile come attore alle spalle. Come si è trovato a lavorare con Zanussi?

Bohdan Stupka: “E’ la prima volta che faccio una commedia nera. Mi piacciono ruoli tragici, li preferisco. Insieme a Zanussi avevo già lavorato ne L’allodola, uno sceneggiato per la tv, visto che si dice che Dio ama tre volte, io vorrei tornare a lavorare con lui per una terza volta.
Abbiamo fatto le prove ed abbiamo discusso insieme sul personaggio. Abbiamo creato la figura insieme, non ho avuto nessuno come esempio o modello, però nella vita vedo tante persone che pensano con i soldi e non con il cuore. Vedo tante persone vuote dal punto di vista spirituale, vogliono avere la pancia piena e possedere cose belle. La nuova oligarchia che è arrivata da noi, da voi già esiste da anni”.

Il suo film si pone come forte critica alla natura dell’uomo, ma anche alla società moderna, ce ne vuole parlare?

K.Z.: “Non accetto una visione del mondo in cui l’uomo sia solo un prodotto della società. Infatti nel film quando il personaggio di Stupka deve decidere a chi lasciare i propri averi per danneggiare maggiormente il mondo la scelta ricade sui teorici del nichilismo, che escono dal film come il miglior modo per distruggere le generazioni future.
La figura del giovane ipersensibile e iperidealista che non trova spazio nel mondo è una figura retorica, molti ragazzi oggi rifiutano il gioco del mondo, e questo deve essere trasferito in un atteggiamento pratico, non autolesionista come accade al protagonista che vuole togleirsi la vita. Alla fine troverà un suo spazio dove realizzarsi, aiutando gli animali. Il suo personaggio e le nuove generazioni hanno la necessità di vedere qualcosa di disinteressato”.

In Polonia l’opinione pubblica ha gridato allo scandalo quando ha saputo che nel suo film ci saraebbe stata la cantante pop Doda, ci parli di com’è andata.

K.Z.: “Vedo che le voci della nostra provincialità arrivano anche qui da voi. Abbiamo una cantante pop di pessimo gusto in Polonia, molto volgare. L’ho chiamata per inscenare la metafora del cambiamento a tutti i livelli. Il collegamento mio con la ragazza ha creato grande agitazione tra l’opinione pubblica ed anche tra gli attori, era un mio scherzo in buona fede da inserire nel film. Certi attori pensavano non si potesse recitare insieme ad un mostro mediatico del genere. Il film ha procurato a lei, che tra l’altro canta bene ed è bella, molte copertine”.

Progetti per il futuro?

K.Z.: “Ho in progetto di dirigere una Medea a Siracusa, è un’opera impegnativa e tragica, con la Medea non si gioca. Alla mia età si hanno tantissimi progetti non realizzati, ma io sono ancora pronto”.

mercoledì 29 ottobre 2008

Recensione film: With a warm heart


With a warm heart è una piacevole commedia di taglio autoriale del regista polacco Krzysztof Zanussi. Konstanty è un ricco e dissoluto oligarca che ha problemi di cuore, ed ha bisogno di un trapianto. Stefan è un timido ragazzo che vuole farla finita. Il gioco è presto fatto.

Al Festival di Roma continua il viaggio nei generi e nella mescolanza di questi che gli organizzatori avevano annunciato nella conferenza d’apertura. Questo film, che è lontano dall’essere un capolavoro, sembra essere la versione buona del grossolano Le plaisir de chanter, simile per destinazione ed intenti, passato qualche giorno fa, una dimostrazione di come è giusto approcciare il genere e, in assoluto, l’arte cinematografica.

Le scelte registiche e la direzione del cast producono un risultato piacevolemente interessante. Il cinema austero ed impegnato di Zanussi fa spazio ad una commedia nera dall’umorismo tagliente, che punta tutto sull’incontro-scontro tra bene e male, giocata sul carisma di un ottimo Bohdan Stupka e sui continui tentativi, tutti grottescamente falliti, di suicidio da parte del giovane aiutato dallo scagnozzo.

I personaggi di Konstanty e Stefan sono le due facce, caricate e tipicizzate, di una società che ha vissuto una rapida ascesa come quella dell’Europa centrale. Ricco e malavitoso il più anziano, idealista e sognatore il ragazzo; vedranno le loro vite incontrarsi per caso e dare vita ad una scura favola che dimostrerà come tutti possono cambiare.

La metafora di un cuore nuovo che produce una redenzione inimmaginata, nonostante suoni banale, viene inscenata bene, in un finale trasognante forse un minimo affrettato. Certo il film si muove su crismi già abusati, il risultato che ne esce però sullo schermo ha un suo carisma e un aspetto, sia narrativo che stilistico, che riporta indietro ad un cinema di genere degli anni ’70 e ’80.

Davvero una buona vena quella che attraversa l’ultima fatica di Zanussi, che non sembra accantonare la destinazione del suo cinema, un linguaggio diverso dello stesso discorso, nichilismo e sfiducia nella natura umana restano la condicio sine qua non del regista per mettersi a edificare un progetto.

Sicuramente With a warm heart non è un capolavoro, ma trasuda nella sua realizzazione un forte rispetto per il cinema e per il genere della commedia da parte dell’autore che ben poco vi si è cimentato in carriera, regalando una storia che ben si esaurisce sullo schermo, non lasciando porte aperte a causa di sceneggiatura stilata con imperizia, come spesso successo quest’anno al Festival di Roma.

VOTO 74/100

martedì 28 ottobre 2008

Recensione film: Iri


Il regista cinese Zhang Lu (Desert dream, Grain in ear) parte da un evento realmente accaduto nel 1977. Nella città del sud della Korea Iri l’esplosione della stazione causò anche il crollo di molti palazzi circostanti e uccise migliaia di persone. La vita andò avanti, la città cambiò nome, ma alcune ferite non si chiusero mai. Questo il pretesto per raccontare una storia ambientata ai giorni nostri. Jin-seo è una ragazza che ha un lieve ritardo mentale, dovuto per l’appunto ad un incidente dovuto all’esplosione (ecco una di quelle ferite che non si riemargineranno più), vive con il fratello e lavora come inserviente in una scuola di cinese. Un film dall’elevata carica drammatica che riporta una situazione limite: la protagonista, vista la sua pura ingenuità dovuta al suo disturbo, si trova a venir sfruttata sessualmente da tutti gli uomini con cui si relaziona. Uno sguardo duro verso la società moderna, un’analisi disincantata della natura umana, quella virile in particolare. L’unico personaggio maschile positivo è un immigrato clandestino iracheno, il quale, per un’ironia malevola, sarà invece l’unico che verrà accusato dalla comunità di violenza nei confronti della giovane. Proprio lui che non ne aveva mai approfittato finisce nel mirino, un bersaglio sin troppo facile per una cittadina infestata da ipocrisia ed insoddisfazione. Una serie innumerevole di personaggi trova la propria affermazione solo attraverso l’esibita violenza sessuale. L’aspetto formale dell’opera percorre la strada battuta dalla maggior parte del cinema autoriale asiatico. Le dimensione temporale è allungata, le vicende si snodano con una lentezza inesorabile, spesso portata all’inverosimile e all’irritante. La mancanza totale di colonna sonora, che avrebbe potuto colmare qualche spazio, penalizza ancor di più il ritmo, inesistente, appesantendo anche le scene meno significative. Zhang Lu si segnala comunque per una splendida messa in scena, messa a servizio di inquadrature sempre fisse. La costruzione di alcuni fotogrammi è altamente significativa, cinema e senso combaciano per alcuni momenti sullo schermo, in uno degli istanti cinematografici tecnicamente più interessanti dell’intero Festival di Roma. Un film da consigliare ai soli appassionati di cinema orientale che sono abituati a certi ritmi non proprio serrati, gli altri difficilmente capirebbero la direzione e le scelte di un cinema per niente leggero come quello di Zhang Lu.
VOTO 68/100

Recensione film: Le plaisir de chanter


Le plaisir de chanter è una commedia anticonvenzionale che prende di mira il filone spionistico e le commedie amorose. I vari strampalati personaggi, tra cui si intrecceranno turbinose storie, si ritrovano ogni settimana a lezione di canto lirico, dove ognuno dovrà spogliarsi della propria maschera sociale e confrontarsi con gli altri.
La pellicola francese, presentata in concorso al Festival del Cinema di Roma, è diretta da quell’Ilan Duran Cohen vincitore del Premio Orizzonti a Venezia 2004 con Le petit fils. Facile però ipotizzare che il destino di quest’ultimo film sarà meno glorioso.
Il registro grottesco dell’opera non si rivela pungente quanto vorrebbe, tralasciando alcune sequenze ritmate, il resto non è altro che un’epifania continua di gag sessuali e battute irritanti, perché forzatamente ricercate.
Le plaisir de chanter si inserisce come prodotto di un cinema supponente ed autoreferenziale, che ignora quale sia il requisito minimo richiesto ad ogni pellicola, il saper tenere il fruitore attaccato alla storia. Guardando il film francese l’interesse che si prova nei confronti delle vicende è soffocato. L’unica cosa che salta agli occhi è la voglia del regista di segnalarsi per l’arguzia e la ricercatezza, prodigandosi in un inutile esercizio di stile, e l’inadeguatezza di un cast che, tralasciando un paio di elementi, offre un prova poco corale e mal funzionante sullo schermo.
Difficile trovare una destinazione all’opera, che potrebbe trovare anche in Francia una fredda accoglienza, d’altronde i successi recenti d’oltralpe hanno dimostrato come le commedie che utilizzano comunque un linguaggio ricercato devono parlare al popolo con schiettezza e aderenza sociale per essere apprezzate.
In definitiva quello di Duran Cohen è un film nato per strappare arguti sorrisi, più che sonore risate, ma s’impegna troppo nel sottolinearne l’arguzia, dimostrando un modesto rispetto nei confronti della storia e del mezzo.
VOTO 31/100

domenica 26 ottobre 2008

III Festival di Roma - Recensione di Aide-toi et le ciel t'aidera


Aide-toi et le ciel t’aidera, aiutati che il cielo t’aiuta letteralmente, è un film low budget ambientato nella periferia francese in cui una donna di colore (Felicite Wouassi) deve barcamenarsi per portare avanti una famiglia numerosa e problematica, il tutto tra morti improvvise e situazioni surreali.
Un’opera piccola e indipendente che s’interroga su tematiche scottanti affidandosi ad un linguaggio e ad una costruzione tipica di generi meno impegnati. L’integrazione, la precarietà, la vecchiaia e la morte vengono addolciti da siparietti surreali ed esilaranti, una delicatezza che devitalizza il nichilismo di fondo comunque presente.
La fotografia della comunità nera appare vivida e plausibile grazie ad una tecnica che spesso si avvicina al taglio documentaristico, Francois Dupeyron, già regista di Monsieur Ibrahim, utilizza inquadrature dal basso e camera a mano per gran parte del film, quel che ne esce sono immagini significative che affascinano per la loro veemenza.


Il centro gravitazionale della storia è la protagonista Sonia, tutto si svolge in base ai rapporti interpersonali che lei intrattiene: con gli anziani per cui lavora, con i figli, con l’amica, con il nuovo amore. La carica scenica della Wouassi è perciò elemento imprescindibile della natura di un progetto del genere in cui molti degli attori si trovano per la primissima volta a relazionarsi con la cinepresa ed in cui il suo personaggio è al contempo struttura e dettaglio dell’impianto narrativo.
Il disagio sociale che viene presentato è attuale e mai pedagogico, e anche il ruolo dell’amore, narrato incantevolmente, assume colori contrastanti dal retrogusto agrodolce.
Il film non si carica l’onere di produrre giudizi di qualsivoglia tipo, l’integrazione della comunità nera viene semplicemente fotografata in maniera realistica, inserendo alcune scene di pura tradizione africana davvero trascinanti.
Anche la descrizione della caldissima estate parigina del 2003, nella quale tantissimi anziani persero la vita, è un semplice sfondo messo lì a ricordare quel che successe.
In sintesi Aide-toi et le ciel t’aidera è un affresco dalle tinte forti, una pellicola lussureggiante che anche grazie alla presenza della musica hip-hop francese nel finale porta con sé tematiche sociali intrinseche al genere della commedia impegnata, qui dotata di rara vitalità.

VOTO 74/100
Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Intervista al cast de Il passato è una terra straniera e a Daniele Vicari


Daniele Vicari perché ha scelto questa storia?

Daniele Vicari: “Il romanzo di Carofiglio mi ha colpito profondamente, l’ho trovato estremamente moderno. Questo è un modo di fare letteratura che sta per fortuna prendendo piede in Italia, racconta i chiaroscuri della società moderna e nel frattempo mi ha ricordato i protagonisti di alcuni romanzi di fine ‘800, che avevano problemi d’identità. Proprio la questione dell’identita è il motivo fondamentale che mi ha spinto a fare il film. E poi ovviamente perché ho pensato che da una storia così si poteva fare un film in cui il cinema potesse avere delle ampie possibilità di esprimersi”.

Elio Germano il tuo personaggio intraprende un percorso che tu hai deifnito liberatorio, nell’intepretarlo hai provato a fare la stessa cosa?

E.G.: “Qui ho voluto decostruire, più che costruire per lasciare al personaggio la possibilità di rimanere stupito davanti agli eventi. Scavare piuttosto che edificare. Così che il personaggio potesse meglio considerare questa apertura verso un mondo nuovo, come fosse una liberazione. Una cosa che mi fa molto piacere è che nel film racconta più quello che non vediamo di quello che si dice”.

Michele Riondino la tua interpretazione e quella di Elio Germano sono state molto coinvolgenti, come ti sei preaprato?

Michele Riondino: “È stata un’espserienza molto diversa da altre esperienze cinematografiche che ho avuto. Ho affrontato una preparazione rigida, come teatrale, del personaggio. In un secondo momento è avvenuto l’incontro con Elio: abbiamo trattato molto sulla sceneggiatura, abbiamo ridotto ed eliminato alcune parole ed abbiamo fatto una sorta di lavoro di simbiosi con i personaggi”.

Il suo è un film di genere?

D.V.: “Il tema dei generi cinematografici è superato, ormai i generi si mescolano tra loro in maniera inestricabile. Il problema che mi pongo sempre è se il racconto nel suo sviluppo produce senso, molti film di genere invece non producono senso alcuno. Il racconto narrato nel romanzo mi è sembrato subito capace di produrre senso”.


Valentina Lodovini come ti sei preparata alle scene di violenza così forti?

V.L.: “Il clima di lavoro era molto sereno ed accogliente, ho vissuto comunque il qui e ora che si cerca così tanto al cinema. La scena è stata così forte che dopo averla girata ho cominciato a proteggermi anche nella vita, cosa che prima non facevo”.

A tal riguardo il regista ci tiene a dire: “ Amo i film in cui c’è anche l’azione e non ci sono persone che parlano intorno al tavolo. Girando il film ho imparato che le scene violente o sono studiate come si studia una danza o non funzionano”.

Per finire Vicari, riguardo le polemiche che si sono scatenate dopo la censura ricevuta dal suo film (v.m. 14 anni), lancia una forte stoccata: “L’istituto della censura è una sopravvivenza del medioevo ipocrita e fallace, i film più belli della storia del cinema in Italia sono stati vietati, se dobbiamo proteggere i cittadini in questo modo c’è qualcosa che non va nella nostra società. Bisogna discutere di questo per crescere come comunità”.

Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Incontro con Giampaolo Pansa ed il cast e il regista de Il sangue dei vinti


Il sangue dei vinti è un’iniziativa Rai Cinema, il film è una versione ridotta delle due puntate della fiction che andrà in onda sulle reti nazionali. “Il film è costato 9 milioni di euro. La fiction – dice il produttore Fracassi - andrà in onda a dicembre 2009. Il film uscirà nelle sale invece a Febbraio 2009”.
Il film, liberamente ispirato al romanzo di Giampaolo Pansa, vuole rendere giustizia alla memoria delle vittime, sia dei partigiani che dei repubblichini di Salò, della guerra civile italiana precedente alla vittoria degli alleati.
Proprio ieri Fini ha detto che si poteva parlare, riferendosi a Napolitano, di El Alamein con la memoria pacificata di oggi. Ed a questo riguardo il regista Michele Soavi dice: “L’intento del film è proprio questo, una sorta di pacificazione per rendere umana una guerra, dove vengano seppelliti tutti i morti”.
Protagonista del film Michele Placido, storicamente uomo di sinistra, che rivela di aver fatto parte della Giovine Italia quando era adolescente: “Fino a 16 anni ero iscritto alla Giovine Italia e anche nelle Università c’era una preponderanza MSI. Venendo a Roma e facendo il poliziotto, ho conosciuto dei compagni e sono diventato di sinistra. Ho capito che il fascismo è stato un orrore. Non c’entra nulla, ma oggi mi trovo vicino agli studenti questi giorni”.


Presente all’incontro con la stampa Giampaolo Pansa, che si leva subito un sassolino: “Mi sarei aspettato che il film fosse stato in concorso, presentarlo come proiezione speciale non mi è piaciuto, ma l’ho accettato come accetto tante cose italiane che non mi piacciono”.
Per quel che riguarda la trasposizione cinematografica del suo libro la vede così: “Il sangue dei vinti è un libro intraducibile in un film. Una specie di lungo elenco di nomi ed orrori. Qui è stata inventata una storia con un personaggio immaginario, che Placido interpreta come nessuno poteva fare. Il film mi basta, e anzi conoscendo i miei polli (del pollaio Italia), mi basta e mi avanza”.
Anche per Michele Soavi non dev’essere stato semplice confrontarsi con una tematica del genere, che, volenti o nolenti, ha distrutto le vite di persone che ancora oggi non hanno un riconoscimento diffuso: “Mi sono avvicinato al progetto con estrema cautela, ho esperienze familiari in merito. Mio padre, che è uno scrittore, viveva al Nord, ed è diventato repubblichino per cultura. Mia madre viene da una famiglia di ebrei. In generale si è scelto di seguire il Pansa-pensiero. Lo stesso scrittore mi ha suggerito di fare il film come se fossi un lappone, quindi isolandomi dalla situazione del nostro Paese. Questo mi ha aiutato a raccontare la verità”.

Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Recensione de Il sangue dei vinti


Dopo i tedeschi La banda Baader Meinhof e Schattenwelt, anche l’Italia si cimenta nella rivisitazione dell’interpretazione di un ricordo partecipato del proprio passato non troppo remoto.
Il sangue dei vinti, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Giampaolo Pansa, è ricavato dalla fiction di due puntate che andrà in onda nei primi mesi del 2009 sulla Rai. Michele Placido e Barbara Bobulova sono i protagonisti di una storia banale, rivisitata in chiave revisionista e pacificata, dove le colpe vengono equamente divise tra partigiani e repubblichini.


Formalmente la pellicola contiene tutti i difetti che una produzione televisiva può offrire: fotografia patinata, recitazione da sceneggiato, sceneggiatura popolare.
Anche se Soavi cerca di inserire elementi di genere, il giallo verso il quale sembra tendere inizialmente il film scema dopo i primi venti minuti, per lasciare spazio ad un intricato tentativo di descrivere in maniera improbabile ed affrettata le realtà del Paese.
I due fratelli del protagonista assurgono, come facce della stessa medaglia, a modelli esplicativi per la didattica elementare dell’opera: da una parte Ettore (Alessandro Preziosi), partigiano tutto ideali ed istinto, dall’altra Lucia, arruolatasi nella Repubblica di Salò dopo aver perso il marito nel bombardamento di San Lorenzo. Entrambi scenderanno a compromessi con la propria morale, uno per portare avanti l’idea, l’altra per esternare il rancore lancinante.


Le interpretazioni lasciano davvero a desiderare, bisognerebbe aver visto la versione completa che andrà in tv per dare un giudizio complessivo, ma nel film presentato al Festival né Placido né la Bobulova, quelli da cui ci si aspettava qualcosa di più, regalano buone prove. Il resto del cast, come in tutte le produzioni tv, accentua ogni espressione, che esce ridicola o sovraccarica. I continui primi piani, necessari sul piccolo schermo, creano irritazione ed angoscia al cinema.
Il sangue dei vinti è un prodotto, forse anche passabile in tv, che sul grande schermo ha davvero poco senso. Le tematiche, il linguaggio, la cifra, oltre alla realizzazione formale, mal si sposano col pubblico cinematografico che dovrebbe avvicinarsi al progetto, essendo per natura facilmente assimilabili dalle masse di telespettatori.

VOTO 43/100

Tommaso Ranchino

Recensione film: L'heure de l'eté


Assayas porta sullo schermo tematiche quali il lutto, la famiglia, il ricordo tramite un linguaggio alternato all'interno dell'opera, momenti caotici e dispersivi vengono pian piano sostituiti da sequenze ben riuscite.
Quando tre fratelli perdono l'unico collante che hanno, la madre, la famiglia si sgretola pian piano, subendo una diaspora definitiva, evitata fino a quel momento dalla presenza della genitrice.
Il talentuoso regista sfrutta bene ancora una volta il mezzo che ha tra le mani, ogni inquadratura contiene significativi punti di vista, però questa volta si presenta meno efficace e diretto. La carica drammatica della prima parte è praticamente nulla, un muro divide lo spettatore dai protagonisti ed il coinvolgimento ne risente. Stratagemma certamente creato ad hoc da Assayas, vedi l'Allen di Match Point.
La poetica ricercata, colma di allusioni metaforiche, viene fuori alla lunga, quando il film acquista volume, si emancipa dalla tematica del lutto, diviene un affresco insolito ed affascinante di una famiglia come tante, di ragazzi parigini come ce ne sono a migliaia, raccontati qua con occhio benevolo e sognante, forse nostalgico.
Le figure della casa di famiglia da mettere in vendita e delle inestimabili opere d'arte da dismettere, elemento principale dell'esistenza e della convivenza che questa famiglia aveva conosciuto, si sobbarcano una valenza prepotente e totalizzante all'interno del registro narrativo. Simbolismi che assegnano al significato insito nelle varie opere d'arte un valore non solo affettivo e commemorativo, ma anche un aspetto di rifugio dalla realtà, una voglia di voler fermare il tempo, di fotografare edonisticamente l'esteticità di un'esistenza, di un amore. Così come la madre non faceva altro che parlare del fratello, affermato artista di fama internazionale, rivivendone l'amore incestuoso che avevano condiviso attraverso l'affermazione e la divulgazione delle sue opere, così il figlio maggiore, l'unico rimasto a Parigi, attraverso l'ossessione per la casa di famiglia e per le opere che la popolavano resta aggrappato ad una situazione familiare ormai lentamente, inesorabilmente, naturalmente tramontata.
Il rinnovamento generazionale e l'accettazione inconscia del mutamento della propria situazione culmina nella scena finale della festa organizzata dai nipoti della defunta, quando la casa, già sgombra e prossima alla vendita diviene teatro di una festa tra ragazzi d'oggi.
Un'opera complessa, a tratti magnifica, a tratti farraginosa, che lascia in fin dei conti attratti ed affascinati.
VOTO 70/100

III Festival di Roma - Intervista a Felicìte Wouassì e Francois Dupeyron

Da dove nasce l’idea di una commedia che toccasse tali e tanti temi di rilevanza sociale in Francia?

Francois Dupeyron: “Mi sono ispirato al vostro cinema degli anni ‘65 -’70. Ho visto I mostri e altri film come questo. Voi avevate già toccato questo tasto, in quelle pellicole parlate dei problemi sociali con grande ironia. Oggi la periferia francese, la vecchiaia e le persone di colore sono un problema sociale per la Francia. Gli si da prima un’etichetta e poi non se ne parla più. Nonostante questo io non ho voluto fare un documentario, anche perché sono un regista non un giornalista. Il punto di partenza è stato un fatto sociale presente da noi: per strada vedi donne anziane al braccio di di tutrici di colore. E queste vecchie spesso sono razziste, l’ho trovata una cosa molto intensa che potesse provocare un riso provocatorio”.

Nel film vengono utilizzate molte inquadrature dal basso, come mai?

F.D.: “Era per dare maggiore forza, non per fare un documentario. Le inquadrature dal basso danno importanza agli attori, perchè sembrano più grandi. Servono anche a dare dinamicita e spazio agli attori. Vado contro la regia accademica, mi piace innovare lo stile e metterlo al servizio del film”.

Felicite Wouassi come ha affrontato il personaggio della protagonista?

Felicite Wouassi: “Francois mi ha regalato un libro giapponese ‘Le belle addormentate’, l’ho letto e devo dire che mi ha dato tanto, mi è rimasto dentro.
Ho costruito un personaggio che passasse inosservato inizialmente, che non avesse alcuna carica sessuale, per creare così un effetto diverso al suo disvelamento della sua carne. Questo è stato il difficile nel preapararlo.
Ho preso Sonia come fosse una figura simbolica di una madre universale e così ho voluto trasemetterla”.

Felicite è il centro di gravità permanente della storia e si relaziona con diversi attori, come si è trovata?

F.W.: “La cosa più bella è stata che Francois ci ripeteva tutti i giorni: ‘Noi qua non facciamo il cinema’. A partire da lì gli attori ed io eravamo liberi di proporre e Francois si prendeva ciò che gli interessava. Alcuni attori sono per la prima volta in un film ed anche io mi sono sentita veramente libera. Mi ha ricordato il primo film della mia carriera che ho girato in Ungheria. Il regista lavorava così”.

Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Recensione di Baksy


“Baksy” è un piccolo film kazako della regista Guka Omarova, già apprezzata dalla crtica dei Festival internazionali con “Schizo”, che racconta la storia di una sciamana di nome Aidai, ma non solo. Aidai ha capacità ultraterrene e la sua presenza rende accettabile e straordinaria la vita in una landa desolata ed arida. Quando però gli interessi di un criminale locale le porteranno via la sua terra tutto andrà a sgretolarsi, svelando risvolti inattesi.
La pellicola si fa forte della carismatica figura di una protagonista come non se ne vedono spesso, ma lo fa con parsimonia. La figura principale è in video per un’esigua tranche del film, che verso la metà si trasformerà in opera di genere, con rapimenti, riscatti, omicidi e pistole. Rimarrà comunque presente nelle sensazioni e nelle aspettative di tutti i personaggi, per poi riapparire in un finale ottimamente strutturato.


È questa la particolarità che segnala il poco ambizioso “Baksy”, quella di implementare tanti film in uno solo, la narrazione sfrutta l’elemento sovrannaturale con un rispetto estetico verso la veridicità della pellicola che raramente si riscontra in progetti simili. L’attaccamento alla terra, che può esser facilmente inteso come rispetto per la natura, è, pur se taciuto, elemento centrale del simbolismo e della poetica. La direzione del cast verso una recitazione naturalista, difficile fare altrimenti con tali mezzi e tali condizioni, qualifica e responsabilizza ancor più l’approccio verista del cineasta kazako.
Quando poi il film prende una piega inaspettata lo spettatore è consapevole che la sterzata è strumentale al fine primo, il kitsch e lo squallore delle ambientazioni ‘cittadine’, che per buona parte sono le uniche cose che si vedono, si piazzano in forte contrapposizione alla situazione brada della casa della sciamana ormai demolita.


Un progetto interessante, davvero. Ma troppo difficilmente esportabile nel nostro panorama distributivo. Pressochè impossibile mantenere alta l’attenzione in un cinema che trascina dei ritmi naturalmente diversi, un background culturale assolutamente impervio e non decodificabile.
Una chicca di cui solo i festivalieri più attenti potranno giovare. Omarova, ci si vede al prossimo Festival.

VOTO 73/100
Tommaso Ranchino

sabato 25 ottobre 2008

III Festival di Roma - Recensione de Il passato è una terra straniera


Bari. Giorgio (Elio Germano) è uno studente 22enne a cui manca un esame alla laurea in giurisprudenza per inseguire il sogno di diventare magistrato. Quando però incontra Francesco (un sorprendente Michele Riondino), abile baro che frequenta i tavoli da gioco, da quelli più fatiscenti a quelli patinati, del capoluogo pugliese, intraprende la strada della truffa e della criminalità, riscoprendo un’area della propria personalità fino ad allora soffocata.
Vicari torna a confrontarsi con tematiche che si annidano ai margini dell’impianto sociale nazionale, le bische di Bari sono un palcoscenico insolito, perfetto per inserire le caratteristiche del suo cinema crudo ed aggressivo.
Il cliché del “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” viene rivisitato grazie ad un’introspezione analitica installata sottotraccia in tutta la pellicola, il protagonista ha qualcosa di diverso dal classico bravo ragazzo che vuole provare delle emozioni nuove trasgredendo alle regole. La sua è una metamorfosi che non fa altro che dare ossigeno alle sue pulsioni più naturali. Dall’appagamento sessuale ricercato in una relazione con una donna sposata alla bramosia incalzante di una ricchezza lampo, Giorgio non fa altro che entrare in contatto con la propria indole più primitiva. Quella che per altri sarebbe una discesa verso gli inferi è per lui un viaggio nell’Eden della sua affermazione adulta.
La devianza sessuale di Francesco, conseguenza di una personalità fragile ed insicura, richiama, nel confronto con la manifesta sessualità di Giorgio, ombre di teorie freudiane un po’ banali.
Il regista, apprezzato dalla critica in Velocità massima e autore di documentari di gran successo, tende ad esagerare, spesso senza motivo, per rendere il messaggio che si prefigge ancor più efficace. L’asciuttezza formale e narrativa in molti casi è la cura di tutti i mali, ma il regista sembra non aver ancora fatta sua la lezione. Il vero tallone d’Achille del progetto è una sceneggiatura lacunosa e in molti casi sbrigativa che lascia vere e proprie voragini all’interno della storia.
Vicari avrebbe dovuto, dato che ha dimostrato di saperlo fare in più occasioni, anche dentro il film, affidarsi maggiormente all’accostamento di colonna sonora ed inquadrature inquinate e sporche, che rende personale il suo cinema. Qui lo fa troppo poco nella prima parte e ne abusa a dismisura invece nelle fasi conclusive.
Ancora una volta un buon Elio Germano dimostra di essere un attore ordinario finché il personaggio non richiede una violenza, fisica o verbale che sia, ed un atteggiamento sopra le righe. La sua faccia da bravo ragazzo e la sua capacità di scaldarsi con naturalezza lo stanno incastrando in ruoli sempre più simili. Già ne Il mattino ha l’oro in bocca si era confrontato con il gioco, quella volta erano i cavalli, e con il baratro verso cui spinge, una schizofrenia questa che le sue capacità interpretative sanno rendere con plausibile intensità sul grande schermo.
A conti fatti Il passato è una terra straniera è un buon film, che però intraprende strade già battute e, visto il potenziale artistico insito nelle caratteristiche di chi vi ha partecipato, avrebbe potuto essere ancor più diretto, decurtando elementi superflui e fuorvianti.

VOTO 63/100
Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Recensione di L'Heure d'ete


Assayas porta sullo schermo tematiche quali il lutto, la famiglia, il ricordo tramite un linguaggio alternato all’interno dell’opera, momenti caotici e dispersivi vengono pian piano sostituiti da sequenze ben riuscite.
Quando tre fratelli perdono l’unico collante che hanno, la madre, la famiglia si sgretola pian piano, subendo una diaspora definitiva, evitata fino a quel momento dalla presenza della genitrice.
Il talentuoso regista sfrutta bene ancora una volta il mezzo che ha tra le mani, ogni inquadratura contiene significativi punti di vista, però questa volta si presenta meno efficace e diretto. La carica drammatica della prima parte è praticamente nulla, un muro divide lo spettatore dai protagonisti ed il coinvolgimento ne risente. Stratagemma certamente creato ad hoc da Assayas, vedi l’Allen di Match Point.
La poetica ricercata, colma di allusioni metaforiche, viene fuori alla lunga, quando il film acquista volume, si emancipa dalla tematica del lutto, diviene un affresco insolito ed affascinante di una famiglia come tante, di ragazzi parigini come ce ne sono a migliaia, raccontati qua con occhio benevolo e sognante, forse nostalgico.
Le figure della casa di famiglia da mettere in vendita e delle inestimabili opere d’arte da dismettere, elemento principale dell’esistenza e della convivenza che questa famiglia aveva conosciuto, si sobbarcano una valenza prepotente e totalizzante all’interno del registro narrativo. Simbolismi che assegnano al significato insito nelle varie opere d’arte un valore non solo affettivo e commemorativo, ma anche un aspetto di rifugio dalla realtà, una voglia di voler fermare il tempo, di fotografare edonisticamente l’esteticità di un’esistenza, di un amore. Così come la madre non faceva altro che parlare del fratello, affermato artista di fama internazionale, rivivendone l’amore incestuoso che avevano condiviso attraverso l’affermazione e la divulgazione delle sue opere, così il figlio maggiore, l’unico rimasto a Parigi, attraverso l’ossessione per la casa di famiglia e per le opere che la popolavano resta aggrappato ad una situazione familiare ormai lentamente, inesorabilmente, naturalmente tramontata.
Il rinnovamento generazionale e l’accettazione inconscia del mutamento della propria situazione culmina nella scena finale della festa organizzata dai nipoti della defunta, quando la casa, già sgombra e prossima alla vendita diviene teatro di una festa tra ragazzi d’oggi.
Un’opera complessa, a tratti magnifica, a tratti farraginosa, che lascia in fin dei conti attratti ed affascinati.

VOTO 70/100
Tommaso Ranchino

III Festival di Roma - Incontro con Olivier Assayas


Dopo David Cronenberg un talentuoso ed apprezzato regista francese come Oliver Assayas ha incontrato il pubblico del Festival di Roma, prima della proiezione de L’heure de l’eté, suo ultimo film.
L’incontro è stato scandito, come si usa qui al Festival, da alcune scene significative della sua cinematografia, e il regista ha intrattenuto i presenti, mantenendo la conversazione su di un livello elevato, forse anche troppo per il pubblico capitolino, che spesso si è fatto sentire auspicando l’inizio della pellicola.
L’incontro ha toccato vari aspetti della sua arte unica ed in continuo divenire.

Scrittura del film

Assayas racconta come sia cambiata e maturata la metodologia con cui approccia la scrittura e la lavorazione di un film: “Prima vedevo la fase della scrittura in modo completamente diverso. Mi mettevo a scrivere un film, la sceneggiatura, le inquadrature e tutto quello che mi fosse potuto servire per girare. Una volta che il film era scritto lo giravo. Erano due fasi ben distinte. Adesso invece la fase della scrittura per me comincia prima di scrivere la prima parola e finisce in studio quando la post-produzione è terminata e rivedo gli ultimissimi dettagli”.

Il rapporto con gli attori

Il francese è uno che instaura un rapporto speciale con gli interpreti delle sue opere: “E’ fondamentale per me favorire la spontaneità degli attori. Io non faccio mai fare le prove, e questo può rivelarsi un problema con quelli che sono abituati a farle. Per farli sentire a loro agio gli dico, mentendo, che filmo le prove per abitudine, invece sto girando”.

Il rapporto col cinema sperimentale ed underground

Il suo amore per il cinema pare essere iniziato con la passione per il cinema underground del movimento newyorkese: “Amavo molto il movimento sperimentale di New York, trovo che abbia reinventato il cinema moderno, al pari di quello che ha fatto da noi la Nouvelle Vague. Sono convinto che ci sia una profonda connessione tra il cinema sperimetale e quello narrativo, il cinema indipendente, sia europeo che americano, non sarebbe stato lo stesso se Warhol non avesse fatto ciò che ha fatto.
Nella scena sperimentale che ho inserito nel finale di Irma Vep ho voluto portare un esempio della giuntura che ci può essere tra cinema sperimentale e narrativo. L’ho girata con un regista sperimentale francese, Claude Duty, che adesso è passato al cinema classico e fa commedie in Francia.
Il cinema contemporaneo è un complesso d’immagini che derivano da altre immagini già fatte da altri. Tutto sembra già visto. Io cerco nella mia arte di ricreare nello spettatore una verginità nei confronti dell’immagine, così da essere totalmente preso e recettivo nei confronti delle emozioni”.

Il lato fisico e l’azione nel suo cinema

Ci confida che ama il cinema in cui l’azione e la fisicità sono presenti ed importanti: “Il rapporto fisico col cinema è una cosa essenziale. Il cinema indipendente ha totalmente perso questo rapporto. L’horror ad esempio mi affascina per questo forte impatto fisico. Nel 2001 con Demonlover ho voluto cimentarmi nel linguaggio fisico del cinema americano di genere, trovo che vada a toccare delle corde essenziali, l’ho fatto anche perché il cinema indipendente stava e sta perdendo il contatto con il pubblico giovane, mancando di fisicità”.

La musica

La musica è un elemento onnipresente nella vita di Assayas: “Sia il mio film d’esordio che Clean del 2004 parlano di musica. Sono cresciuto negli anni ’70, influenzato dalla controcultura di quegli anni ed al centro di tutto c’era la musica. Volevo sin da subito nel fare cinema ricreare la sensazione che la musica mi dava da giovane. Quando filmo una sequenza cerco l’immediatezza e l’energia tipiche della musica”.