giovedì 25 dicembre 2008

Recensione di The Spirit


Basato sulla graphic novel di Will Eisner che quando uscì, parliamo del lontano 1940, disse fortemente la sua su ciò che sarebbe venuto dopo, “The Spirit” è il primo film personalmente diretto da Frank Miller, reduce dalla stretta ed ottima collaborazione con Robert Rodriguez per “Sin City”. Ed è proprio da lì che si parte, dall’esperienza che Miller ha avuto sul set con Rodriguez, dove ha capito che avrebbe potuto disegnare i propri film, girare le scene sul green screen, e poi unire il materiale girato alle proprie illustrazioni.
In questi anni, proprio grazie a Miller, ci troviamo di fronte ad una commistione, cinema e fumetto, che verrà ricordata come una delle più fruttuose mai strette tra due arti visive. Prodotti che difficilmente possono essere definiti film, o semplice animazione, qualcosa che prende dal mondo del cinema la cinetica e la dinamicità che un foglio non potrà mai avere, ma che strappa dalle pagine di Miller, o meglio dalla versione milleriana del lavoro di Eisner, quella incredibile creatività cromatico-stilistica a cui un regista canonico non potrebbe mai aspirare. Qui il merito infinito del talento di Miller, un talento così prepotente da portarlo ad eccellere in campi così complessi e diversificati quali il disegno, la scrittura e una schizzata ossessione per i personaggi, tanto per dirne una la striscia di Batman “The Dark Knight” che ha fatto la fortuna del cinefumetto, definizione per la verità strettina in questo caso, meglio riuscito di tutti tempi porta la sua eccellente firma.
Certo la conduzione di un film è altra cosa, “The Spirit” sembra rubare troppo a “Sin City”, distorcendo la natura più pop, alla “Watchmen” diciamo, del lavoro di Eisner. Ed allora l’impatto visivo, che in assoluto è ottimo, poco e male si amalgama con la storia dell’ex poliziotto innamorato della sua città. E più in generale tutto risulta troppo frazionato, riducendosi ad un insieme di siparietti, singolarmente riusciti, ma che uno appresso all’altro lasciano tante perplessità.
Il fiore all’occhiello del primogenito di Frank Miller è l’ironia che lo attraversa in lungo e in largo, il cupo noir di “Sin City” è qui dolce e demenziale, il ‘villain’ Octopus (Samuel L. Jackson), alter ego maligno del protagonista inscenato dal poco carismatico Gabriel Macht, attira le benevolenze dei lettori/spettatori nella sua spasmodica delirante ricerca del superuomo, passando goduriosamente per i travestimenti nazisti che ricordano più il naziporno “La bestia in calore” che “Schindler’s list”. Un teatro dell’assurdo, quello di Samuel L. Jackson, sarcastico e parodico, dotato di una vivace cromaticità che avremmo voluto vedere lungo tutta la pellicola. Splendida anche la Send Saref di Eva Mendes, esplosa più che mai in tutto il suo intrigante fascino, donna che preferisce, e di gran lunga, i diamanti alla vita vera, gli amori d’interesse a quello vero. E proprio sugli amori e sui continui colpi di fulmine del protagonista la novel si riderà addosso più volte, facendoci rider di gusto anche a noi per la verità.
Un risultato agrodolce, che pende comunque verso una promozione con riserve, che risente in malomodo dell’onda lunga del riuscito “Sin City”, scimmiottandolo eccessivamente, invece di coglierne gli elementi che avrebbero potuto essere utili a rendere al meglio il messaggio di Will Eisner, dove la città è l’unico vero amore del protagonista, su cui tra l’altro ci si sarebbe potuti scervellare di più in fase di casting. Qui invece quella che dovrebbe essere un’immaginaria New York, altro grande amore, assieme alle donne, di Frank Miller, fa solo da sfondo e da musa dei deliranti monologhi narranti del suo ‘spirito’ di superomino, altra fotocopia di “Sin City”.

VOTO 58/100
Tommaso Ranchino

lunedì 22 dicembre 2008

Recensione film: Lissy - Principessa alla riscossa


Era il 2007 quando l’acuto Michael Bully Herbig regalò al pubblico tedesco “Lissi und der wilde Kaiser”, un cartoon digitale che, partendo dai lavori Dreamworks e arrivando anche a prendersene gioco, si poggiava sulla forte caratterizzazione del suo creatore, che ha prestato volto e voce alla protagonista femminile. Una pellicola per adulti, pregna di una valenza locale nel suo humour che le ha consentito di comandare la bundesliga del box office a lungo.
Qui in Italia il discorso è diverso. Michael Herbig non è uno degli showman più seguiti ed amati, anzi è un perfetto sconosciuto. Una comicità che si prende gioco delle fissazioni e delle caratteristiche grottesche di alcuni tedeschi avrebbe trovato una naturale indifferenza nel nostro panorama culturale. Ed allora la Moviemax, che distribuisce il film, ha deciso di ritoccare profondamente la natura dell’opera, edulcorandone i toni, riscrivendo per intero battute e doppi sensi inadattabili. Quello che ci arriva è un cartoon in pieno stile Dreamworks, con la piacevole aggiunta di una comicità a sfondo sessuale che nei prodotti d’oltreoceano non si vede mai, viste le storture conservatrici che caratterizzano lo stomaco degli Stati Uniti.
Un prodotto che rubacchia alle opere che hanno segnato il genere: lo Yeti che, in una sorta di singolare par condicio, si colloca perfettamente a metà tra il Sully di “Monsters & co.” e Shrek, la vena parodica di prodotti quali lo stesso “Shrek”, “Cenerentola e gli 007 nani” e “Cappuccetto Rosso e gli Insoliti Sospetti”.
Il vizio della rivisitazione italiana è proprio quello di prendersi troppe libertà nei confronti dell’originale, ci si trova sovente di fronte ad un esito che sa di rimpastato e disarmonico. La voglia di accontentare tutti, bimbi e genitori, finisce per disilludere entrambi: né il pubblico più giovane potrà godere di una sintonia con i personaggi e con la storia, né gli adulti potranno ridere di gusto come avrebbero potuto. Si è voluta imboccare una strada cerchiobottista, forse per non perdere le potenzialità di un prodotto d’animazione dalle spiccate qualità tecniche, nulla a che invidiare ai lavori Pixar, che verrà lanciato appena dopo le feste, facendo leva sulle nostalgie delle incantevoli atmosfere natalizie appena nate e già finite.
“Lissy – Principessa alla riscossa” resta comunque qualcosa di nuovo, nella sua accezione originaria, e un prodotto che arriva invece in immenso ritardo rispetto ai modelli statunitensi, meritandosi comunque una visione per un paio di trovate particolarmente riuscite.
VOTO 50/100

venerdì 12 dicembre 2008

Recensione del Bambino con il pigiama a righe


Bruno si è trasferito nei pressi di un campo di concentramento, e la noia delle sue giornate lo spingerà ad avventurarsi aldilà del filo spinato, incontrando la propria maturazione e la consapevolezza di una condizione insostenibile.
L’amicizia infantile tra Bruno, figlio di un ufficiale nazista, e Shmuel, bimbo ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, porterà ad un incontro di due realtà opposte, manifestazioni di uno stesso riferimento socialmente allargato, quello dell’umanità gretta e arrendevole.
È proprio il rapporto amicale tra i due che monderà la trasmissione di una situazione violentata dal cinema, come quella della Shoah, in un approccio che tanto richiama, pur se con velleità e stilemi del tutto ineguali, “La vita è bella” e “Le train de vie”. Metaforicamente il regista Mark Herman, affidandosi all’input dell’infanzia, s’interroga sull’inesplicabile realtà di quegli anni. Due bimbi che si specchiano uno nell’altro, risvolti estremi di una situazione hobbesiana e paradossale di homo homini lupus che ancora oggi trova un’acerba analisi o risoluzione almeno intenzionale.
L’assoluta immedesimazione sociale e gerarchica degli adulti, splendida l’interpretazione di Vera Farmiga, scatenerà un vortice di violenza che la singola coscienza di ognuno degli aguzzini difficilmente saprebbe anche immaginare o strutturare: un caso estremo della rappresentatività comunitaria che sfoga i propri tumori attraverso l’imbarbarimento più becero nei confronti della debolezza della minoranza etnica. Una disfunzione che ha generato uno sterminio di dimensioni epidemiche, le quali conseguenze aleggiano ancora nelle rappresentazioni immaginarie di un futuro di convivenze insostenibili.
“Il bambino con il pigiama a righe” sorprende per la capacità di emanciparsi dal clichè del buono e del cattivo, dell’ebreo e del nazista, del bimbo e dell’adulto, in un affresco che trasuda coscienza narrativa e un realismo rivisitato ad hoc per la situazione. Come se il regista fosse stato ignifugo nei confronti degli inebetiti esperimenti ed esercizi narrativi che tale tematica ha ispirato. Lo scuotimento sentimentale facilone e a portata di tutti qui non è minimamente indagato, il garbo nel rappresentare la violenza interna al campo evidenzia una sana dose di rispetto nei confronti di una memoria condivisa e gravosa.
In sostanza un film che tira dritto, non si ferma al primo assunto banale, abbatte le barriere, in primis quelle psicologiche, ricordandoci che il pigiama a righe è stato cucito da noi, su misura delle nostre paure sociali, senza possibilità di una redenzione che non passi per la consapevolezza di una colpa largamente condivisa a tutti i livelli.

VOTO 68/100
Tommaso Ranchino

giovedì 4 dicembre 2008

Recensione di Bolt


Dopo poco più di un mese dall’uscita dello splendido e, a modo suo, rivoluzionario Wall-E, il miglior prodotto in assoluto dell’animazione nell’era digitale, la Disney torna in sala con “Bolt – Un eroe a quattro zampe”. E lo fa senza la Pixar, questa è la notizia. Nonostante ci sia John Lasseter, storico uomo Pixar, nei panni di produttore esecutivo e, naturalmente, di guida per gli esordienti registi, il prodotto, tecnicamente impeccabile, che ne esce ha caratteristiche simili, ma non del tutto identiche alle collaborazioni Disney – Pixar.
Il film narra delle avventure di Bolt, cane protagonista di una serie tv di successo nella quale salva il mondo grazie ai suoi superpoteri. Il problema è che per Bolt esiste solo il mondo fittizio in cui è un supereroe, e quando esce dal teatro di posa hollywoodiano per andare in cerca della sua padroncina si scontrerà, e i traumi non saranno pochi, con il mondo vero e con la realtà di non essere dotato di alcun superpotere.
La Disney torna al classico, ci sono tutti gli ingredienti indispensabili che hanno caratterizzato i prodotti anni ’90: i buoni sentimenti, l’amore incondizionato e reciproco (tra il cane e la sua padroncina), l’ironia pulita, un protagonista integerrimo e lo stuolo dei personaggi spassosi, ben caratterizzati ed ancor meglio costruiti, e il necessario happy ending. Tutti elementi che rendono il prodotto meglio fruibile, soprattutto rispetto a Wall-E, ad un pubblico più giovane.
La solfa indubbiamente è rinnovata esclusivamente nella forma, ma ha il merito di sfornare e lanciare nel mercato natalizio l’ennesimo fenomeno mediatico, si è ormai perso il conto da Mickey Mouse in poi; il cagnolino Bolt farà ancora una volta breccia nei cuori del pubblico più verde e recettivo, non ci sono dubbi a riguardo.
Il protagonista si formerà fluttuando tra le varie dimensioni che si alterneranno (realtà-finzione, mondo umano-mondo animale), tra (dis)avventure e pause di riflessione, lungo un viaggio on the road che attraverserà lo stomaco degli Stati Uniti, da New York a Hollywood, in compagnia di due immancabili compagni di viaggio prima e di vita poi: un’ironica e sarcastica gatta abbandonata ed un criceto sovrappeso e tv-dipendente, che da sempre segue sul piccolo schermo le avventure del super-cane col quale si troverà ad unirsi in un metaforico percorso di formazione che gioverà a tutti i personaggi della storia. Ed allora Bolt imparerà a fare il cane ‘normale’ trovando la propria felicità, nel più classico immaginario dell’animazione di tradizione.
Il film è poi impreziosito da dettagli sempre impeccabili: dal doppiaggio alla cura nel delineare i personaggi anche secondari, o addirittura solo figuranti. Tutto è coordinato e questo si riconferma il punto di forza delle produzioni disneyane, nelle quali, anno dopo anno, successo su successo, la soglia d’attenzione dell’intero team, con o senza Pixar, resta alta.
Con Bolt si ride, ci si commuove, ci si diverte senza pensarci troppo su, un’occasione, per gli adulti, di staccare la spina e rilassarsi di fronte all’ultima frontiera dell’entertainment per famiglie.
Qualcosa di già visto, certo, ma di cui difficilmente il pubblico si stancherà o si priverà come lieto intervallo tra le abbuffate natalizie, soprattutto se casa Disney continuerà a dimostrarsi così affidabile ed infallibile.

VOTO 58/100
Tommaso Ranchino

Recensione di Torno a vivere da solo


Giagià (Jerry Calà), dopo vent’anni di matrimonio, torna a vivere nel suo loft da scapolone impenitente nel centro di Milano. Equivoci, tradimenti, intrecci amorosi più o meno strampalati si alterneranno in un film che vuole, riuscendoci poco o niente per la verità, fotografare con disimpegno la situazione, modernistica più che moderna, della famiglia allargata, sia in senso numerico che in senso di genere o razza, manifestando nel finale un’affermazione goliardica dell’amore omo-transgender. La sostituzione di ‘Pace e bene’ in ‘Pacs e pene’ la dice lunga.


“Torno a vivere da solo” è il sequel, più ideale che reale, di uno dei film che ha reso Calà un protagonista della commedia all’italiana degli anni ‘80, “Vado a vivere da solo”. Nonostante questo punto di contatto la nuova creatura dell’istrione, che ormai 57enne torna in un ruolo principale, segna l’affermazione di un distacco da ciò che era stato, strizzando l’occhio a quel che sarà, o almeno questa è la speranza. Il gigioneggiare oltremodo manierato che lo ha reso celebre e vendibile nei suoi anni d’oro, quando girava 4 film l’anno, è riproposto in modo ragionatamente relativo attraverso la razionalizzazione iniziale, che poi diventerà un’eclissi totale in corso d’opera, dei suoi pezzi forti. Chi vedrà “Torno a vivere da solo” ritroverà nelle prime sequenze il Jerry che aveva riposto nella memoria, forse ancora più carico ed eccessivo, ma durante il disporsi della storia ad una rivisitazione nostalgica, spesso riprovevole e stucchevole in alcuni colleghi di Calà che lavorano a pieno ritmo ancora oggi, si sostituirà un flusso nuovo, quello di un interprete rinnovato, meno caratterista, ma con più corde a disposizione. Una scelta azzardata, forse.
Il prodotto che comunque viene liberato nel carnaio anticinefilo natalizio del 2008, uscirà in 200 copie il 5 dicembre, ha dalla sua un minor richiamo commerciale, senza dubbio, ma un’attenzione verso il cinema e verso la commedia lievemente maggiore e più rispettosa. Il cast, a tratti ridicolo, vedi un Don Johnson oltremodo fuor d’acqua, la Henger, la Ingerman, Max Parodi e qualche altro elemento minante rilasciato qui e lì, giova però anche di note liete, su tutti un ispirato Paolo Villaggio, trascinatore di un paio di monologhi strepitosi, un Enzo Iacchetti sorprendentemente morigerato nell’interpretare il migliore amico omosessuale che si innamora del protagonista, e poi delle vecchie glorie del teatro milanese quali Gisella Sofio e Piero Mazzarella.


L’influsso di qualche bravo attore si sente anche nella dinamicità della pellicola, i cinepanettoni più recenti hanno sempre sofferto la totale irrilevanza della storia, mortificata, con diabolica ripetitività, dalla vena caratterista dei comici che vi recitano, che qui invece non figurano. Dopo tanto tempo ci si ritroverà a seguire, senza trascendere per carità, la trama di una commedia non impegnata prodotta nel nostro Paese. Chiaro che qui non si aprirà un’era nuova, ma una ventata, anzi un alito, di una rivalutazione della risata facilona ricercata in un ritorno al passato è soffiato.
Chi si avvicina con supponenza ed esigenza si guardi bene, e giustamente, dalla visione della pellicola. Chi invece poco bada al mezzo cinema, all’espressione artistica e ai contenuti, ma che anzi non disdegna una capatina annuale da Boldi e De Sica, si goda questo film onesto e coerente con la propria natura, preferendolo ai già citati avversari, e non se ne pentirà.

VOTO 50/100
Tommaso Ranchino

sabato 29 novembre 2008

Intervista ad Oliver Stone per W.


Oliver Stone ha presentato a Torino il suo ultimo e controverso lavoro, “W.”. Una parodia ragionata sul Presidente degli Stati Uniti dal gradimento popolare più basso della storia, ma che non bisogna dimenticare che è stato comunque eletto due volte, che ha trovato dappertutto un muro distributivo dovuto alla troppa vena politica e all’impellente ed onerosa attualità del tema.
Fare un film sul Presidente in carica è stato problematico, sia per la figura controversa del
Presidente stesso, sia per la situazione politica che tendeva a mutare in continuazione.
Stone ci descrive le difficoltà nel fare un film su Bush: “Durante le riprese poteva verificarsi un attacco terroristico oppure gli Stati Uniti, come effettivamente avevano intenzione di fare, avrebbero potuto dichiarare guerra all’Iran. Poi il crollo dell’economia ha smorzato i toni dell’amministrazione Bush, che ha dovuto rivedere i propri piani, e ha danneggiato McCain che i sondaggi davano in vantaggio prima del 16 settembre”.
Come si diceva “W.” è una pellicola che porta con sé grandi problemi legati alla distribuzione: “In America il film è stato accolto abbastanza bene ma la crisi economica forse ci ha in parte
danneggiato perché è diventata protagonista dell’attualità americana più del Presidente
stesso. Per gli americani Bush è «morto» il 16 settembre. Tuttavia, nutro grandi speranze
per il film di ottenere dei riconoscimenti e di avere una vita lunga oltre alle proiezioni nelle
sale. Credo che possa essere ben apprezzato anche in Europa dove Bush non è mai stato
molto amato. Per quanto riguarda la distribuzione italiana del film, è probabile che verrà acquistato da una casa di distribuzione piccola, indipendente e molto forte che crede profondamente nel
film. E nonostante in Italia l’amore per il cinema non si traduca più in una visione nelle
sale, il film potrà comunque continuare a vivere in DVD o essere trasmesso da qualche
emittente”.
Josh Brolin si è caricato onori ed oneri di interpretare il ruolo di Bush, Oliver Stone ci racconta le singolari motivazioni della scelta: “Josh Brolin è un meraviglioso caratterista che nel 2007, grazie in particolare a Non è un paese per vecchi è riuscito a far conoscere le sue doti. Fino a quel momento non riusciva a sfondare a Hollywood, per questo ho riscontrato un’analogia col Presidente perchè a 40 anni entrambi avevano fallito, l’uno come attore, l’altro come politico, presidente di una squadra di baseball e uomo d’affari. Un’altra analogia era la figura ingombrante del padre,
un famoso attore sposato con Barbra Streisand. Brolin inizialmente si è quasi risentito di
queste analogie ma io gli ho proposto immediatamente il ruolo perchè vedevo in lui un
atteggiamento texano che si è manifestato nell’accento ben costruito e nella camminata. È
una sorta di cow-boy alla John Wayne. Abbiamo girato il film in sequenza cronologica per seguire i cambiamenti nella vita di Bush. Nello scegliere il cast abbiamo pensato ad attori che non avessero somiglianze fisiche con i reali personaggi ma che potessero in qualche modo sentirsi quei personaggi”.
Vedremo come e dove verrà distribuito questo film che, per onestà intellettuale, dovrebbe esser visto, criticato e discusso in tutto il mondo.

Incontro con Roman Polanski



Il regista, intervistato da Nanni Moretti, parla del suo cinema, in occasione della retrospettiva dedicatagli al Torino Film Fest


A Roman Polansky è stata dedicata un’intera retrospettiva, che ha ripercorso la sua intera militanza di filmaker, dall’esordio nel ’51 con “Morderstow” per arrivare all’ultimo cortometraggio “Chacun son cinéma” del 2007. Uno spostamento, dall’essere europeo e americano al contempo, che ha caratterizzato il suo cinema, attraversato dallo smarrimento e dall’angoscia di non poterne uscire mai.
Nella chiacchierata a 360° con Nanni Moretti Polanski ammette di aver molto amato il nostro cinema, ma di esser sconcertato sul momento attuale: “Mi ricordo che da studente aspettavo con ansia il film successivo di De Sica o Rossellini mentre negli anni ’60 seguivo i giovani registi italiani (Pasolini, Olmi, Bellocchio, Bertolucci, De Seta) sia come collega sia come spettatore. Mi chiedo cosa sia successo al vostro cinema dopo. Sarà colpa della televisione”.
Ma anche per la Nouvelle Vague francese ha una parola dura: “I film della Nouvelle Vague sono spesso inguardabili. A parte forse Truffaut”. Il suo approccio singolare al cinema ha fatto sì che spesso i suoi film, pur avendo avuto gran successo, non siano stati interpretati come lui se lo aspettava: “Spesso scopro cose del tutto inaspettate o che non avevo immaginato. Specialmente riguardo alla comicità. A volte il pubblico ride senza che io ne capisca il motivo o invece non sembra divertirsi in momenti che per me sono comici. A volte. Per esempio per me L’inquilino del terzo piano era un film comico, ma il pubblico l’ha inteso diversamente”.
La retrospettiva, fortemente voluta dal regista ossessionato dalla Sacher, è andata bene, attraversando l’intera manifestazione ha riscosso anche un discreto interesse del pubblico.

giovedì 27 novembre 2008

Recensione film: New Orleans mon amour (Fuori Concorso)


Il regista statunitense Michael Almereyda torna a Torino 11 anni dopo aver presentato il suo corto “The Rocking Horse winner”, con un lungometraggio che vuole omaggiare, cominciando dal titolo, quella che lui stesso definisce la sua seconda casa: “New Orleans mon amour”.
Girato in una condizione problematica per la città sul Mississipi, ovvero nel 2006, un solo anno dopo la tragedia di Katrina, il film racconta l’amore extraconiugale tra il Dr. Jekyll e la giovane Hyde, che si sono ritrovati, entrambi volontari, tornandosi ad amare dopo che l’uragano, oltre alle case e a tutto il resto, si era portato via anche il loro rapporto.
Tra realtà e finzione, la pellicola divide il proprio animus, velleità documentaristiche che tentano, riuscendoci a metà, di riportare una tersa istantanea della New Orleans convalescente e degli spettri che la abitano, e in questa desolazione la vicenda amorosa dei due risulta falsata e distorta. Il regista dimostra di essere un modesto narratore, la storia, scollata e ricucita a forza più volte, non ha il piglio che ci vorrebbe, lasciando affievolire anche la resa della sezione documentaristica.
Il voler offrire una personale trasposizione dell’amore, di coppia o universalistico, tentando al contempo di rendere giustizia ad un momento cupo della storia di una magnifica città, nella quale non ha smesso di pulsare vibrante il cuore nero del blues, è un’ambizione irraggiungibile da Almereyda. L’unica cosa che trova la giustizia cercata è il sentito omaggio alla città, della quale è tangibile l’affezione dell’autore. La passione per il cinema riversata qui è indubbia, a tratti ci si emoziona davvero, e alcune frazioni di “New Orleans mon amour” sono dei piccoli film, opposti tra loro, da spiantare ed ammirare.
In sostanza l’autore indipendente statunitense ha messo troppa carne al fuoco, dimostrando presto di non avere le corde e l’occhio per gestire il troppo materiale narrativo e cinematografico in cui si era imbarcato.
VOTO 56/100

mercoledì 26 novembre 2008

Recensione film: Wendy and Lucy (Fuori Concorso)


Wendy è diretta in cerca di fortuna in Alaska, una macchina, il suo adorato cane Lucy ed uno zaino carico gli unici residui della sua vecchia vita. Fermatasi per la notte in una cittadina dell’Oregon, la scomparsa all’indomani dell’adorata Lucy avvierà un processo di smarrimento interiore alla protagonista, che tra le disperate ricerche del cane scaverà silenziosamente al proprio interno.
La regista di Miami Kelly Reichardt utilizza un registro scarno, puntando tutto, o quasi, sull’interpretazione di Michelle Williams, conosciuta ai più per la serie tv “Dawson’s Creek” e per esser stata moglie dello scomparso Heath Ledger. L’attrice non delude, sono i suoi occhi e le sue espressioni a restituire al pubblico le sensazioni predominanti dello script, solitudine, angoscia, disorientamento. La troviamo qui trasformata ancora, l’adolescente pienezza di “Dawson’s Creek” e i capricciosi panni da superdiva di “Io non sono qui” di Todd Haynes sono lontani, vestita in modo sciatto, porta un caschetto bruno che la fa somigliare ad un uomo, anche per disilludere le fastidiose avances che avrebbe potuto incontrare nel suo viaggio verso l’Alaska.
“Wendy and Lucy” è un film che, pur dicendo poco con le voci, mette in questione innumerevoli aspetti dell’esistenza umana: la voglia di mettersi alle spalle un passato che la storia non concede allo spettatore, l’amore per un cane, simbolo di un affetto disinteressato e fanciullescamente irrinunciabile, il mettersi in viaggio verso il nord, in un modus che ricorda tanto l’epopea del Supertramp di “Into the wild”. E come nel film di Sean Penn la nostra girovaga incontrerà un anziano che le darà aiuto, senza chieder mai nulla in cambio, personaggio, o deus ex machina, che riporterà Wendy a fidarsi della natura umana, sciogliendo quella contrattura sociale che i suoi sguardi nei confronti del prossimo sembrano palesare. I magnifici luoghi e le musiche di Eddie Vedder che tanto e bene hanno contribuito alla riuscita di “Into the wild” sono qui assenti, ma l’ottimo lavoro di sceneggiatura ha riportato appieno nell’immaginario comune le sensazioni di una vita, e di un film, itinerante. La città dell’Oregon è essenzialmente tappa di un qualcosa di più grande, che parte da lontano per arrivare lontanissimo, le emozioni di una vita da scoprire come quella di Wendy magnificano la visione.
Lodabile il buongusto della sceneggiatura di affrontare con garbo il rapporto cane-padrone, l’animale sarà in video per non più di un quarto d’ora, e questo lascerà campo alla narrazione di un sentimento quanto mai misterioso ed empatico.
Un buon lavoro di cinema indipendente americano, che descrive sensazioni contrastanti senza parlarsi mai addosso, senza ammiccare mai, senza fare della facile demagogia cinematografica.
VOTO 75/100

Recensione film: Bitter and twisted (Torino 26)


Liam è scomparso prematuramente, lasciando una fidanzata ed una famiglia numerosa. La dipartita del giovane avvierà un meccanismo diabolicamente ben congegnato, stravolgendo le vite delle persone più care che però, attraverso la gravosa rielaborazione del lutto, vivranno una metamorfosi necessaria che aprirà loro inaspettati spiragli vitali.
Giù il cappello per l’opera prima del 24enne Christopher Weekes, che interpreta (alla grande), dirige e scrive un lungometraggio incantevolmente ritmato, dimostrando una notevole nozione di cinema. Autori ben più rodati non sempre raggiungono il risultato prefisso, qui ci si trova davanti ad un film che vuole parlare della vita a chi la vita la vive tutti i giorni, soffermandosi sulle depressioni e sulle solitudini di un manipolo di personalità eccezionalmente descritte. Un cinema formalmente denso, costruito su di un’ottima colonna sonora e su di un’ammirevole varietà d’inquadrature, e che propone una coralità attoriale che rende tangibile il dinamismo di una sceneggiatura acuta, fiera dell’umorismo nero che la pungola.
L’autore si è visibilmente confrontato e riferito al cinema indie più blasonato, la vicinanza stilistica a registi come il primo Paul Thomas Anderson è palese.
L’istantanea che ne esce è quella di un’umanità disperata e sola, che si appiglia al prossimo per un’autoaffermazione sociale dovuta più che voluta. Esseri umani che, smarriti, ne cercano altri in cui smarrirsi. Il volto dell’amore, familiare o di coppia, assume un’espressione enigmatica ed inquietante, a tratti disarmante; la felicità rimane così null’altro che un compromesso, almeno fino a quando nel finale i personaggi non si guardano in faccia come forse non era mai successo prima.
“Bitter and twisted” punta dritto e non si distrae, pur essendo molto costruito e poco aggrappato al reale, non accentua le proprie astrusità come si verifica spesso in lavori del genere. Pur trovandosi in situazioni assurde ed assumendo atteggiamenti al confine del surreale i personaggi mantengono una loro dignità e credibilità, facendo sì che l’opera conservi fino in fondo la propria vigoria e non si specchi smodatamente.
VOTO 72/100

Recensione film: Momma's man (Torino 26)


Una dimensione temporale lunga e vorticosa la caratteristica essenziale del terzo lungometraggio di Azazel Jacobs, figlio di quel Ken Jacobs (che vediamo comparire nei panni del padre qui) che con i suoi lavori e il suo impegno nell’arte visiva ha dato un apporto notevole al movimento underground del cinema newyorkese.
“Momma’s man”, l’uomo di mamma, comunica un disagio preminente e totalizzante che paralizza il protagonista, che, tornato nella sua New York per motivi di lavoro, non riesce più a tornare alla sua nuova vita losangelina, in cui aleggiano le forti presenze e le onerose responsabilità di una moglie e di una figlia a carico.
Nel periodo in cui Mike, il cui nomignolo Mickey ostentato di continuo accentua la sfumatura infantilisitica del suo personaggio, resterà nella casa in cui è cresciuto, si configurerà in lui una personalità sorniona ed a tratti nostalgica, il bamboccione per scelta cercherà i vecchi amori e gli amici di un tempo, ma ben presto questo desiderio di ‘rimpatriate’ si trasformerà in un’immobile implosione intestina all’animo del personaggio. Disagio che rinchiuderà in casa Mickey, che lo porterà ad annullarsi e ad isolarsi in una scatola a chiusura stagna.
La forma visiva che Jacobs sceglie per esibire l’impianto narrativo della sua opera è senza filtro ed iperrealistica, al punto da ricavarne in qualche fotogramma un riscontro sullo schermo paradocumentaristico, al quale una direzione mai volutamente costruita o governata del cast da man forte in ogni singolo fotogramma.
L’ignoranza condivisa a più livelli delle motivazioni dei comportamenti del personaggio è resa eccezionalmente, in particolar modo perché la storia stessa non ne possiede gli strumenti di decodifica richiesti, pubblico e cinema si troveranno così a porsi la stessa domanda senza risposta data, in una rara tangenza che la settima arte avrà con chi ne fruisce.
Cinema incredibile per quanto significativo, forse non eccessivamente indagato laddove ci si sarebbero potute sporcare le mani un po’ di più, ma che nel complesso funziona, riportando fedelmente la sensazione universale della difficile relazione con gli altri, ma soprattutto con sé stessi, in quei momenti in cui ci si guarda allo specchio e si respinge l’accettazione dell’esistenza che si sta portando avanti, nascondendosi tra le rassicuranti braccia di una madre premurosa che forse sin dall’inizio ha compreso l’esigenza istintiva del figlio.
VOTO 76/100

Recensione film: We've never been to Venice (Torino 26)


La tendenza, quasi maniacale, con la quale la 26ma edizione di Torino sta sottoponendo all’occhio di pubblico e critica opere che ritrovano nella rielaborazione del lutto i loro leit motiv, trova, in questo breve (62’) film sloveno, il suo personalissimo momento più alto e significativo.
Ancora lutto e ricordo allora, ma inseriti in uno spirito di cinema encomiabile per coerenza ed asciuttezza. Personaggi muti che urlano con i gesti e con gli sguardi assenti, inquadrature fisse, colonna sonora timida e una cinetica della macchina da presa che non si mette mai in mostra, tutti tasselli di uno splendido mosaico per cinefili curiosi ed innamorati.
Quando il padre viene a trovare Grega e sua moglie Masha si respira subito l’aria pesante di un qualcosa di insostenibile accaduto da poco, a cui “We’ve never been to Venice” non fa mai esplicito riferimento. Proprio quest’epifania omessa, che lascia largo margine d’azione al non detto e al fuori campo, che viene anche utilizzato con senno in un paio di sequenze, contempla l’idea narrativa di un esordiente che proviene dal mondo del cortometraggio, risentendone positivamente l’influenza. Il lavoro di sottrazione, iniziato e portato a termine dall’autore, consente di sfruttare appieno la potenzialità del cinema, l’industria paroliera e logorroica è qua mortificata ed annichilita dall’affermazione dell’immagine-senso. Splendida messa in scena e composizione curata e mai ridondante sono l’ottimo surrogato di una sceneggiatura irrilevante, le relazioni dei personaggi prendono corpo in un altalenante susseguirsi di sensazioni contrastanti, lui e lei si attraggono e si respingono, non si parlano mai ma la sensazione è quella di averli sentiti discutere per ore, tanta e buona è la veemenza scenica che ne scaturisce.
La ricerca di una felicità possibile nella fuga dall’ambiente di riferimento, il viaggio in Sudamerica come cura di tutti i mali, elementi metaforici abusati e violentati dalla letteratura e dalla cinematografia internazionale, qui ritrovano una loro dignità, perché cercare altrove ciò che si può trovare accanto, se non dentro di noi? E allora la meta di una gita purificatoria sarà la vicina Venezia, dove anche l’ennesimo incontro metaforico con l’acqua, altro elemento con cui il regista gioca più volte, arricchirà il percorso dei personaggi.
Una nota lietissima, l’arte cinematografica sfruttata sino in fondo, che mostra le sue infinite potenzialità attraverso le quali la messa in scena può, di suo, scatenare riflessioni e trasmettere sensazioni. Un’immagine che produce senso, tra gesti abbozzati ed una trama che si spoglia pian piano, è una visione davvero riconciliante per chi ama il cinema e le sue varianti più minimaliste.
VOTO 78/100

martedì 25 novembre 2008

Recensione film: Prince of Broadway (Torino 26)


Lucky è un immigrato clandestino ghanese che si guadagna la pagnotta, ed anche qualcosa in più, vendendo merce firmata contraffatta a Broadway, New York. La sua vita sembra scorrere fluida, tra droghe, vestiti alla moda e una donna che, a modo suo, ama, fino a che una sua ex di origine portoricana gli recapita un pacco a dir poco oneroso: un bambino. Non avendo la sicurezza della paternità, vista anche la carnagione chiara, Lucky prende comunque con sé il bimbo, e quella che doveva essere una convivenza temporanea finirà per diventare qualcosa di più, che cambierà radicalmente l’intera esistenza del protagonista. Il regista e sceneggiatore Sean Baker, 37enne newyorkese, al suo terzo lungometraggio dopo “Four letter words” (2000) e “Take out” (2004), torna a porre l’accento su New York, e sull’intricato tessuto etnico-sociale che la compone. L’aggressività urbana tipica della Grande Mela non perde colpi dietro la macchina da presa, quasi perennemente a spalla, del cineasta, anzi. Sequenze caotiche e un montaggio frazionato, forse troppo nel complesso, filtrate dall’occhio di un’innocenza infantile, tutte sensazioni sgraffignate da una vivida realtà mediante la selezione di una cifra radicalmente naturalistica. Un’aderenza alla realtà che affibbia credibilità ad una pellicola che, altrimenti, avrebbe potuto banalmente inciampare nel macchiettistico, in un senso, o nel mockumentary, in un altro. Ed invece ci si trova di fronte ad una climax emotiva inattesa, retta soprattutto dall’ottimo personaggio, e l’ottimo interprete, di Lucky, il quale riconsegna la singolare conformazione di una virilità moderna. Il re del quartiere, che vive senza limiti o relazioni fisse, e che impara passo dopo passo ad amare un bambino lo si è visto innumerevoli volte sullo schermo, ma in una salsa priva di originalità, qui invece il finale non arriva come naturale conseguenza di una data e certa idea di cinema, ma come tappa, o meta, di un percorso marcatamente introspettivo del protagonista, dove viene anche lasciata aperta una porta sul retro e le certezze tangibili abitano solo i sentimenti di Lucky. Merito a Sean Baker, e a Prince Adu, di aver riportato fedelmente, e con mezzi modesti, uno spaccato della black life e del calderone sociale più in generale di New York City, attraverso una storia che strappa sorrisi alternati ad amare riflessioni, sfilacciandosi comunque un po’ nel finale, dove sembra voler annacquare troppo la minestra quando non ce ne sarebbe davvero bisogno.

VOTO 73/100

Recensione film: Gigantic (Fuori Concorso)


Un film che calza a pennello con l’animus festivaliero torinese, su questo non ci piove. “Gigantic” è ben scritto, ben fotografato, ben montato. È un’opera che vuole ammiccare ad un’assodata fetta di pubblico, ed infatti lo fa, ma sino ad un certo punto.
Un ragazzo poco spigliato, che coltiva sin dall’infanzia il sogno di adottare una bimba cinese, incontra, e si innamora, di una ragazza che invece sembra non aver inibizioni.
Già la trama lascia presagire la marcata voglia di forzare, un po’ generica e generalizzata. Passi che il protagonista sia un improbabile venditore di materassi che dimostra 10 anni in meno di quelli che realmente ha, passi che il padre della sua bella, un buon John Goodman, trascorra l’intera giornata sdraiato a terra causa un mal di schiena psico-somatico, passi anche che i suoi genitori hanno 80 anni, ma l’idea che l’unico desiderio di un 28enne un po’ sfigato sia adottare una bambina, e che questa debba essere per forza cinese, suona davvero ridicolo.
È qui che l’opera dell’esordiente Matt Aselton getta alle ortiche il suo potenziale. Tutte le situazioni, sempre più assurde, vengono poco giustificate, buttate lì con animo furbesco, a voler stupire il fruitore con mezzucci di un cinema sinceramente sorpassato. Passano inevitabilmente in secondo piano le angosce e le insoddisfazioni dei complicati rapporti interfamigliari, che avrebbero meritato un rispetto maggiore sia in fase di scrittura che durante le riprese, ma con le quali il regista non si è dimostrato in grado di cofrontarsi. Indubbia la vena di Goodman, all’ennesima meritevole menzione da caratterista, che si addossa il carico di distribuire cinismo e comicità noir, al servizio di uno script che si appanna inesorabilmente nella fase centrale. Zooey Deschanel e Paul Dano hanno, dono di natura, faccia e corpo incredibilmente calzanti per un qualsiasi prodotto made in Usa che non punti a sbancare i box office.
“Gigantic”, per l’appunto, abbraccia pregi e limiti sempre più spesso ascrivibili alle produzioni indipendenti statunitensi. L’attenzione d’oltreoceano nel confezionare pellicole del genere, dalla scelta del cast ad una resa formale degna di un notevole impegno di risorse, ormai vanno di pari passo con il forzato tentativo di risultare straordinari, ostentatamente autoinnalzandosi dalla bassezza contenutistica di cui viene additata l’industria americana, vedi i progetti meglio riusciti “Juno” e “Little Miss Sunshine”. Si attestano perciò come disfunzioni di uno stesso sistema, culmini iperbolici di una stessa concezione dello strumento cinema, con target di riferimento opposti ma prodotti di uno stesso background socio-culturale. Così spesso si (ri)percorrono strade cieche, che tentano, pur con sguardo malinconico, di riciclare il sogno hollywoodiano della circolarità della vita, del cambiamento auspicabile e sempre possibile. Null’altro che una versione ‘per strani’ dei soliti noti buoni sentimenti.
Un film astuto ed oltremodo costruito che, tra un sorrisino accennato ed un’amara risata, finisce involontariamente per prendersi gioco del pubblico a cui si rivolge.
VOTO 58/100

domenica 16 novembre 2008

Intervista a J.J. Abrams che ha presentato a Roma alcune sequenze in anteprima mondiale dell'atteso Star Trek


Quel geniaccio di J.J. Abrams, dalla cui mente sono scaturite le serie tv Alias, Lost e l’ultimo Fringe che già appassiona fan in tutto il mondo, è arrivato a Roma per presentare in anteprima mondiale il trailer e alcune sequenze del nuovo Star Trek, diretto e prodotto da lui. Torna perciò dietro la macchina da presa dopo il buon risultato di Mission Impossibile III. Un impegno gravoso quello di realizzare un prequel di una serie come Star Trek, che porta in dote uno stuolo di fan davvero impressionante ed intorno al quale si accalca un’attesa davvero incredibile da parte di molti.
E Abrams non era proprio uno di quelli: “Non sono mai stato un fan di Star Trek. Quando lo guardavo non riuscivo a sentirmi coinvolto dalle vicende, non riuscivo a trovare un punto di contatto ed una connessione con i personaggi.

Anche per questo avevo scelto di impegnarmi come produttore e non regista inizialmente. Però man mano che lo script prendeva corpo ed identità ho cominciato ad essere geloso di quello che lo avrebbe diretto, ed allora mi sono proposto per la regia. Oggi come oggi sono un grandissimo fan di Star Trek, forse il più grande, e ho fatto questo film soprattutto per chi, come io prima, ancora non lo è. L’ho fatto per dare vita ad una nuova generazione di appassionati”.
Nel cast sono presenti Chris Pine (Kirk), Zachary Quinto (Spock), Zoe Saldana (Uhura), Eric Bana (Nero) e Wynona Rider (Amanda Greyson).
Le scene che ha presentato alla stampa romana evidenziano un ottimo lavoro fatto intorno ai personaggi e l’utilizzo di falshback e flashforward, marchi di fabbrica anche di Lost e del suo lavoro più in generale. Risate ed azione poi non mancheranno di certo, ed allora il progetto sembra voler portare elementi innovativi in un genere che troppo spesso predilige impegnarsi negli effetti visivi e nella dinamicità dell’azione trascurando i caratteri dei personaggi e la direzione del cast.


Il regista descrive così il lavoro svolto da lui: “I personaggi della storia sono fantastici, davvero, ed il cast con cui ho lavorato è sinceramente eccezionale. L’obiettivo che mi son posto sin da subito è stato quello di dare il giusto peso e controbilanciare la storia ed i personaggi con l’aspetto tecnologico della pellicola. L’elemento che poteva differenziare il mio Star Trek dagli altri progetti del genere era il fatto che portasse lo spettatore ad amare e ad appassionarsi più che alle astronavi a chi c’è dentro”.
Questa mattinata romana insomma ha incuriosito ed ingolosito appassionati e non, non resta che aspettare che l’Enterprise, ed il suo equipaggio soprattutto (Abrams docet), atterrino a maggio 2009 nelle nostre sale cinematografiche.

Tommaso Ranchino

Recensione di The orphanage


Laura, cresciuta in un orfanotrofio sul mare, decide di tornarci a vivere con il marito e con il figlio adottivo Simòn, per metter su una casa famiglia. Da quando si trasferiranno nell’ex orfanotrofio la loro vita non sarà più la stessa, presenze inquietanti che infestano la casa causeranno la scomparsa di Simòn, e di lì Laura inizierà un percorso, tra il flashback e l’onirico, che riporterà a galla avvenimenti terrificanti accaduti trent’anni prima.
Vera rivelazione del cinema iberico, acclamato in patria e all’estero, il primo lungometraggio di Bayona rivisita il genere horror in chiave fantastica, quasi fiabesca, con un risultato che, anche se a tratti risulta troppo edulcorato, non può che compiacere chi lo guarda. Difficilmente si cerca il salto sulla poltrona dello spettatore, al quale viene fornita una trama lineare e ben indagata, l’attenta ricerca, fatta in sede di scrittura del plot, nel costruire i personaggi trova riscontro e conseguente giovamento nel risultato complessivo, più che nelle singole sequenze.
L’enorme villa semibuia, porte che scricchiolano e stanze segrete sono tutti elementi di genere che però qui, vista la differente intenzione ultima del regista, assumono colorazioni diverse, apparendo reali e non artefatti, perciò più terrificanti e disturbanti.


“The Orphanage” poi si muove su due differenti piani d’azione, ed accanto al classico immaginario dell’horror consegna sullo schermo interessanti dualismi: tra il mondo adulto e quello infantile, tra il nucleo familiare ed una comunità di orfani, tra il reale ed il paranormale. Un’indagine quella nel paranormale che non inciampa nel surreale o nel banale, come succede sempre oltreoceano, e che culmina in una riuscitissima scena con Geraldine Chaplin, figlia di Charlie, forse una delle sequenze più coinvolgenti del genere degli ultimi anni.
L’esordiente cineasta si affida ad una regia classica e coerentemente funzionale agli stilemi di genere, rivelandosi sorprendentemente bravo nel creare tensione ed angoscia, servendosi di un ottimo uso delle luci e della fotografia, e non peccando di egocentrismo artistico, difetto comune a molti filmaker contemporanei; l’uso delle accelerazioni e della telecamera a spalla è sempre giustificato da un’impellente esigenza scenico-narrativa e non risulta mai pleonastico. A militare fedelmente dalla parte della storia anche una colonna sonora che non invade mai, a tratti troppo patinata forse, che però nelle scene cardine non tradisce.


A coadiuvare con credibilità lo scenario fatto di bambini deformi, di maschere inquietanti e d’infanzie interrotte che il film crea, c’è un’ottima Belèn Rueda, già vista accanto a Javier Bardem ne “Il mare dentro” di Alejàndro Amenàbar, che con intensità e carica scenica si sobbarca l’intero impianto emotivo della sceneggiatura, non risultando mai sovraccarica o sopra le righe.
“The Orphanage” è quindi un bell’esperimento (riuscito) che non verrà ricordato come capolavoro, ma potrà certamente attestarsi come modello di un genere rivisitato, portando alla ribalta l’esordiente Bayona, meritevole di aver ben gratificato l’intenzione di veicolare sentimenti positivi, quali l’amore materno, attraverso la commistione di generi disomogenei come l’horror ed il fantasy.

VOTO 77/100
Tommaso Ranchino

Intervista a Juan Antonio Bayona, sorprendente regista esordiente di The orphanage


È arrivato, anche se in ritardo rispetto al resto d’Europa, anche da noi il fenomeno del cinema europeo del momento, “The orphanage”. Vincitore di 7 Premi Goya in Spagna è rientrato anche nella corsa agli Oscar come Miglior Film Straniero, non finendo in cinquina però, ed è tra i favoriti alla vittoria dell’EFA 2008.
Impossibile non notare l’influenza sia di Guillermo Del Toro, che ha presentato il film in giro per il pianeta, che di Alejàndro Amenàbar nell’opera, il regista, alla prima esperienza al cinema, Juan Antonio Bayona ce la racconta così: “Mi sono ispirato molto al lavoro di Narciso Ibáñez Serrador, che ha girato due film: “Ma come si può uccidere un bambino?”e “La residencia”. Soprattutto quest’ultimo mi è stato di grande ispirazione, una pellicola del 1969 che ha incredibilmente precorso i tempi, sia per la sceneggiatura che per l’ambientazione. Altri film a cui mi sono ispirato sono ovviamente “The Others” di Alejandro Amenabar ed anche a “Lo spirito dell’alveare” di Victor Erice”.


Una cosa che salta subito all’occhio vedendo il film è la diversità ed il distacco che prende dalla produzione statunitense di genere: “Ritengo che il miglior cinema horror e fantasy si faccia in Europa oggi come oggi. In America ci sono grandi produzioni ma la qualità non sempre è di buon livello, invece in Europa si ha più coraggio di sperimentare e, sia in Spagna che in Francia, si fanno perciò film più trasgressivi che non si limitano a rientrare nei dettami di genere”.
Magistrale l’interpretazione di Belèn Rueda, a cui molti attribuiscono gran parte dei meriti della riuscita dell’opera, il regista ci racconta la sua scelta: “Lei aveva lavorato nel cortometraggio di un mio amico e l’avevo ovviamente apprezzata in “Mare dentro” di Amenabar, a cui come ho già detto mi sono molto riferito, quindi scegliere lei per me è stato un po’ come chiudere un cerchio. Sono stato assolutamente ripagato della scelta, ha dato anche più di quello che potevo aspettarmi, è stata fantastica”.
Dopo il successo internazionale che “The orphanage” ha riscosso la carriera dell’esordiente Bayona sembra poter prendere un velocissimo decollo, ci illustra i progetti per il futuro: “Sto sviluppando un paio di progetti attualmente: uno, ancora una volta in collaborazione con Guillermo Del Toro, prodotto dalla Univesal, che tratterà di un’isteria di massa negli Stati Uniti scaturita per volontà del governo e l’altro in Spagna visto che voglio lavorare sia all’estero che in patria, dato il forte legame che mi lega alla mia terra”.

Tommaso Ranchino

Recensione de La fidanzata di papà


Anche quest’anno il Natale arriva prima, e si salvi chi può. Ancora una volta Cortina d’Ampezzo. Ancora una volta Miami. Non è di certo l’originalità l’ingrediente principe del cinepanettone, negli anni lo abbiamo imparato.
Dopo il successo (limitatamente al botteghino) di “Matrimonio alle Bahamas” della scorsa stagione, torna quella spina dorsale che ormai da qualche anno fronteggia la banda De Sica nella sfida, tutta all’italiana, per il primato d’incassi di Natale. Spina dorsale formata dallo scissionista Massimo Boldi, da Enzo Salvi, Biagio Izzo e I Fichi d’India. Ad aggregarsi al gruppone, come tradizione richiede, anche qualche comico apparso alla ribalta da poco, preferibilmente del vivaio Zelig, quest’anno tocca alla brava e siciliana Teresa Mannino. Le bonone di turno sono la Canalis e la Bush. Ma quest’anno la pellicola ha un asso nella manica, perlomeno dal punto di vista dell’appeal commerciale, ossia la presenza di Simona Ventura, first lady dei reality targati Rai e della tv nazionale spazzatura, nei panni della co-protagonista femminile.


Le premesse per un altro botto ci sono tutte. Inutile rodersi il fegato e sforzarsi troppo per annichilire un’opera che col cinema vero e proprio non ha nulla a che fare, e non ha neanche ambizioni in merito. L’italiano ha dimostrato in più occasioni, una volta l’anno da 25 anni per l’esattezza, di aver bisogno di pellicole del genere, di cibarsene avidamente quando gli viene richiesto.
La trama è la solita, trita e ritrita da anni, che sembrano secoli ormai, due famiglie che s’incrociano vista l’unione dei figliocci, e di lì equivoci a non finire.


Una comicità sempliciona e un po’ datata quella che ci propone il regista e sceneggiatore Enrico Oldoini, militante di vecchio corso della commedia nostrana (“Anni ’90”, “Vacanze di Natale” ’90 e ’91, “Yuppies 2”). Una comicità ormai sorpassata, che non diverte più neanche la vecchia guardia di afficionados, fatta di gag stucchevoli in cui Boldi gira nudo, in cui gli irritanti Fichi d’India si rendono ridicoli ed insopportabili scena su scena, in cui ci sono i bacarozzi nelle zuppe e dove ormai Er Cipolla non raccoglie più il successo di un tempo.
A contrapporsi, leggermente, a questo trend che guida nel baratro intellettuale ed artistico più becero, ci sono le buone vene comiche di Nino Frassica, esilarante, di Biagio Izzo, bravo nel vestire i panni di una donna, e della sorprendente Teresa Mannino, lieta scoperta.


Altro elemento, tanto indispensabile e presente da anni ormai quanto di un gusto a dir poco discutibile, è la scelta progettata e ragionata di cavalcare furbescamente l’onda dell’attualità. E questa volta si è andati forse troppo oltre: in “La fidanzata di papà” la Ventura racconta che ha avuto una storia extra coniugale con un famosissimo, soprattutto in questo periodo afferma, uomo di colore. Forti dell’uscita prevista già da tempo a ridosso dell’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, gli sceneggiatori hanno scommesso sulla vittoria del senatore dell’Illinois. Il cattivo gusto, grazie al cielo, si è limitato all’insinuazione, tra l’altro più che palese, grazie alla scelta in post produzione di tagliare alcune scene, su tutte quella in cui Boldi rincorre la Ventura dicendogli: “Ma gli schiaffi così li davi anche ad Obama?”, oppure quella in cui la Ventura al cellulare accenna un Happy birthday alla Marylin al Presidente dicendogli: “Ma sei già alla Casa Bianca? Ah no, è vero ci vai a Gennaio”.


Insomma questo è un film di bassa qualità, come era già facile ipotizzare, che fa ridere poco e male, ma questo oggettivo giudizio non fermerà di certo la massa dall’affollarne le sale (ben 600) che lo ospiteranno. Non ci resta che scrutare impassibili, ed aspettare tempi migliori.
E se il Natale invece di arrivare prima non arrivasse mai? L’Italia potrebbe sopravvivere? Siam certi di sì.

VOTO 35/100
Tommaso Ranchino

Intervista al cast de La fidanzata di papà


Si riaffacciano al cinema Massimo Boldi e la sua cricca con “La fidanzata di papà” che uscirà in 600 copie, andando a dar fastidio a James Bond. Abbiamo incontrato l’intero cast del film.
Nel film si fa riferimento, neanche troppo velato, a Barack Obama. Boldi ce lo spiega: “Sicuramente siamo in tema con i nostri giorni, ed il nome che poi Simona mi rivela alla fine si dovrebbe capire tra le righe che è lui. Non l’abbiamo detto perché mi sembrava fosse una cosa esagerata, l’importante era farlo capire”. Enrico Oldoini, regista e sceneggiatore, aggiunge: “Quando abbiamo scritto a Febbraio la sceneggiatura abbiamo scommesso sulla vittoria di Obama. Sia nella sceneggiatura che nelle riprese ci sono delle scene che fanno espresso riferimento a Obama, noi le abbiamo tagliate perché ci sembrava troppo sfrontato. Abbiamo preferito poi alludere, senza dire il nome e senza precisare”.
Immancabile il riferimento alla battuta sull’abbronzatura, che assomiglia molto ad alcune gag del film, del neo Presidente degli Stati Uniti fatta dal premier Berlusconi, anche produttore di fatto visto che il film è targato Medusa, Boldi ridendo ci dice: “Non ci mettiamo d’accordo prima, forse lui ha preso da noi probabilmente. È così veloce che è riuscito a leggere nel nostro pensiero come E.T., un extraterrestre”.
La coppia che funziona di più sullo schermo è quella formata da Teresa Mannino e Nino Frassica, che ci raccontano l’esperienza: “Il mio lavoro sul personaggio – dice la Mannino - è stato inesistente, essendo io una siciliana pettegola e gelosa mi veniva molto naturale. Non ho lavorato né sul carattere, né sui movimenti.
Con Nino ci siamo subito, da buoni siciliani, squadrati da lontano, poi però devo dire che io ho seguito tutte le indicazioni di Nino, che mi ha fatto ridere quando ero una ragazzina. Lui e Massimo sono stati dei maestri sul set”.
Frassica, al solito pungente, ci confida: “Ho inserito di mia invenzione il fatto che il mio personaggio parlasse in terza persona. Devo ringraziare un tronista di Uomini e Donne, che diceva: ‘Giovanni non fa così, Giovanni è un’altra persona’ ed io mi chiedevo: ‘Ma chi è sto Giovanni?’. Poi ho scoperto che Giovanni era lui. Subito dopo aver visto la trasmissione ho chiamato Enrico e glielo ho detto, lui è stato subito d’accordo”.
Per la prima volta la Canalis veste i panni della cattiva: “E’ la prima volta che mi trovo a far questa parte negativa, prima nei pochi ruoli che ho avuto in fiction e in qualche film ho sempre fatto la bambolina. Felicity è la cattiva della storia che cerca di mettere i bastoni tra le ruote ai piccioncini, poi però alla fine c’è un cambiamento in positivo”.
Simona Ventura, arrivata in ritardo a causa dei suoi innumerevoli impegni televisivi, racconta l’esperienza sul grande schermo: “Ero molto preoccupata, non essendo il cinema il mio mondo. Enrico, siccome ero terrorizzata da questa idea, è venuto a Milano ed abbiamo preparato le parti prima. Mi ha fatto capire cosa voleva da me: un personaggio molto diverso da quella che sono in tv. Mi ha detto di sottrarre tutto quello che avevo addosso. Il film è stato girato molto in presa diretta, massimo 2 o 3 ciak. Spero che questa sia la ciliegiona sulla tortona di un’annata davvero piena”.
Nonostante tutti gli impegni che la Rai le sottopone la Ventura, in chiusura, non nasconde di voler continuare ed intraprendere una carriera come attrice: “I tempi del cinema sono diversi da quelli televisivi, per me è stata una vacanza quella di Miami. Mi sono trovata benissimo con il resto del cast, d’altronde il successo nasce dallo spogliatoio in ogni cosa che uno fa. Mi piacerebbe fosse questa una seconda parte della mia vita, anche perché dico sempre che forse è arrivato il momento di dosare un attimo le forze. Mi piace cambiare, amo molto il cinema, appena posso ci vado. Un domani potrebbe essere il mio futuro”.

Tommaso Ranchino