lunedì 30 giugno 2008

Recensione di Buongiorno, notte - Un immaginifico resoconto della prigionia di Moro firmato Marco Bellocchio




A 25 anni dalla morte dello statista democristiano per mano delle BR, Bellocchio ci regala una versione dei fatti sui generis, tra fabula e documentario, che siam certi non scivolerà verso il dimenticatoio come è successo ai precedenti “Il caso Moro” e “Piazza delle Cinque Lune” . “Buongiorno, notte” è un film costruito in maniera basilare sulle facce, sugli sguardi, sui silenzi, sui ripetitivi automatismi che hanno caratterizzato quei giorni. Gli ultimi di Moro (uno splendido Roberto Herlitzka): un continuo ripetersi di ore interminabili, di teste nere incappucciate, di lettere scritte e riscritte centinaia di volte, di minestre, sempre le stesse.
Questa volta, infatti, il caso lo consideriamo dalla privilegiata posizione dell’epicentro dello stesso: è l’appartamento di Via Montalcini il palcoscenico principe dove si alternano drammi, psicosi, paure e compassioni che tingono la vicenda.
A coadiuvare partecipa anche il punto d’osservazione introspettivo della protagonista, la carceriera-impiegata brigatista (un’intensa Maya Sansa) dalle cui confessioni è liberamente tratta l’opera, che ci offre una visione inedita, più realistica e plausibile per la verità, dei brigatisti e di Moro stesso.
Di come l’istituzione terroristica sia stata retta da ideali irraggiungibili, da utopie inattuabili che l’hanno inevitabilmente depauperata della spinta vitale e trasformata in un fenomeno pazzoide, incontrollato, mal strutturato. Da contraltare una caratterizzazione di Moro che lo dipinge rassegnato al suo destino, più nonno che politico, più cristiano che democristiano.
E così, giorno per giorno, s’instaurano rapporti invisibili. Tra Moro e i suoi carcerieri. Tra i brigatisti e il Paese, attraverso l’occhio gelido degli innumerevoli Tg. Tra le mura e l’esterno, con la mediazione della protagonista che esce ogni mattina per recarsi al Ministero. Tra la protagonista e il suo collega. Proprio quel collega che diventerà poi grimaldello della mutazione stilistica e della sterzata narrativa su cui l’opera getta le basi della sua indiscussa forza quasi teatrale.
La rappresentazione surreale del segregato, come libero, spensierato, persino guascone, è un’esternazione tangibile del desiderio inconscio di tutti i personaggi, dal carismatico ‘capo’ (Luigi Lo Cascio), ai due brigatisti, culminando in lei.
I quattro carcerieri vivono infatti la segregazione del Presidente, come lo chiamano per tutto il film, come una missione irrinunciabile, imposta. Ciononostante non si ha mai la consapevolezza della giustizia del gesto. Il tutto viene accolto con rassegnata impotenza: da una parte le istituzioni oltranziste che non scendono a patti e nemmeno intavolano una trattativa, dall’altra un manipolo terroristico che vuole mostrare, come ultimo disperato gesto, un’intransigenza che non gli appartiene.
Formalmente è un film coerentemente asciutto, da ogni prospettiva lo si guardi, che gode di una commutazione onirica, quasi deus ex machina, che lo innalza. La ricostruzione dell’epoca viene totalmente affidata, a ragione diciamo noi, alle immagini di repertorio del Tg 1 che intervallano ogni corpo narrativo, tra un comizio della Sinistra massimalista e un discorso ufficiale del divo Giulio o di qualche altro guru D.C.
Di “Buongiorno, notte”, opera commovente e irrinunciabile, ci porteremo sempre l’immagine di un uomo anziano e perennemente contrito spiato attraverso il claudente osservatorio dello spioncino di una porta nascosta, da contrapporre a quella, ben più incoraggiante, di un Aldo Moro liberato, in pigiama, che respira, quasi ebbro di libertà, in una Roma ancora dormiente, che ormai non lo aspetta più.

VOTO 73/100

Tommaso Ranchino

martedì 24 giugno 2008

Recensione di Boogeyman 2 - Tornano gli horror da ombrellone




Torna l’estate, la stagione che tutti aspettano: il bel tempo, il mare, il dolce far nulla e la voglia di nuove esperienze. Per noi cinefili, ahimè, la musica è diversa. Proprio mentre la stagione si fa bella, le uscite in sala s’intristiscono e si sgonfiano esageratamente. Boogeyman 2 entra a pieno titolo in questo grigiume generale: le sale si riempiono di horror di serie b, ed eccone uno.
La storia è presto detta: due fratelli hanno assistito ancora piccoli al duplice omicidio dei genitori, per mano, a detta loro, dell’uomo nero (boogeyman in inglese per l’appunto). Da lì non si sono più ripresi, perseguitati dalla loro ossessione per il buio e per chi nel buio ci si nasconde. Compiuti i 18 anni la sorella minore si rinchiude, prendendo il posto del fratello ‘guarito’, in una sorta di casa di cura contro ogni ossessione o fobia per ragazzini spocchiosi e viziatelli. Proprio in questo scenario claustrofobizzante dovrà fare i conti con le proprie angosce in una notte di sangue e terrore.
L’animus dell’opera è quello di affrontare, in modo semplicistico ed infantile, le paure che ci opprimono. Studiarne la genesi. Trovare un modo per affrontarle, ed infine, forse, debellarle.
Il regista Jeff Betancourt, al suo primo lungometraggio dopo aver curato l’edizione di The grudge (1 e 2) e The exorcism of Emily Rose, ci regala un film prettamente di genere, che strizza l’occhio a capisaldi dell’industria thriller-horror di ieri e di oggi: Saw (vedi la presenza dell’enigmistico Tobin Bell e di registratori nascosti), Nightmare, Scream e, nell’intenzione, tutto quel filone giovanilistico che negli ultimi anni ha cavalcato quest’onda lunga.
Nonostante gli illustri riferimenti, la storia non avvince. La dipartita degli ‘internati’ è troppo rapida, e proprio per questo motivo l’intreccio sembra accasciarsi su sé stesso. I rapporti interpersonali tra i personaggi sono fragili impalcature su cui poggiare i tediosi intervalli tra un omicidio e l’altro. Detta in soldoni, la sceneggiatura di Brian Sieve, che sta già scrivendo Boogeyman 3, non regge la struttura narrativa, non crea quelle aspettative che dovrebbe.
La parziale non riuscita del film va anche ricercata in aspetti tecnici che non attengono allo script: la colonna sonora viene messa a scaldare la panchina, peccato capitale per i crismi del genere, a favore di un audio troppo realistico, invadente e fuori luogo, la regia e la fotografia sono di buona qualità, ma si mettono ben poco a servizio della pellicola. Difetto che sembra ricorrere nella produzione horror più recente. Pare che, da Saw in poi, i registi stiano progredendo verso una direzione sbagliata: la macchina da presa si limita a fotografare tramite il filtro della realtà gli efferati omicidi dei killer/mostri, lasciando in secondo piano l’effetto spettacolare degli stessi. Film come Il silenzio degli innocenti e Seven, pur non appartenendo al genere, sono il manifesto di una regia che sa sfruttare ed evidenziare l’efferatezza del gesto, caricandola di un significato ben più efficace e raccapricciante, facendo sì che la stessa resti fortemente impressa nell’immaginario comune di appassionati e non.
Dal canto suo comunque Betancourt è un diligente impiegato dell’horror attuale, timbra il suo cartellino e per questo Boogeyman 2 non deluderà chi vi si affaccerà con spirito vacanziero e compagnone. Ormai nella subcultura urbana questo genere di horror fa estate, non meno di quanto fa un buon gelato, un banale sceneggiato tedesco nei pomeriggi delle tv commerciali o una disinnescata ‘bomba’ di calciomercato.

VOTO 48/100
Tommaso Ranchino

Recensione breve di E venne il giorno - Il maestro Shyamalan ci (ri)propone un’opera perfetta e discutibile



Nessun dubbio: M. Night Shyamalan è un cineasta unico. The happening (E venne il giorno) è puro cinema, è quando una macchina da presa sovrasta la storia, è soprattutto immagine pregna di significati. Chi lo ama lo sa, l’indiano è uno di quelli che hanno un talento unico, che va aldilà dell’azzeccare o meno un film, di lanciare tormentoni (vedo la gente morta), di stilare copioni alquanto sgangherati o talvolta insopportabili.
La sua costruzione narrativa poggia interamente sulle scelte di una messa in scena esemplare, di un senso del mezzo tecnico ‘cinema’ ispirato, totale, totalizzante. E venne il giorno ha una storia scialba e deboluccia, da disaster movie di dubbia qualità, da ciclo ‘alta tensione’ per intenderci, gli attori non sono delle star e gli effetti speciali inesistenti, perciò chi si avvicina al film, causa titolo mal tradotto e locandina catastrofica, con velleità alla Emmerich gira a vuoto.
La pellicola dell’indiano è a tutti i livelli un film d’autore, l’assoluta eclissi di lustrini scenografici ed interpretazioni del cast liberano il campo all’espressione totale del talento registico, le inquadrature danno spessore, intenzione ed intensità a personaggi deboli sia per performance attoriali che per attenzioni di sceneggiatura.
Palese che non manchino i difetti, però E venne il giorno è l’esempio, quasi il manifesto, di come il cinema di qualità non si annida esclusivamente negli ambienti bohemienne o in copioni ermetici ai limiti dell’incomprensibile o ingiustificabile, anzi può anche nascere in terreni aridi ed impervi come i disaster movie o gli horror. E Shyamalan né è l’ottimo capostipite.

Tommaso Ranchino

lunedì 16 giugno 2008

Recensione de L'incredibile Hulk - Il Coso Verde non fa dormire sonni tranquilli al team Marvel



A sei anni di distanza dal progetto Hulk targato Ang Lee, la Marvel torna in sala accompagnata dall’uomo verde. Il nuovo film non è, come forse era lecito aspettarsi, il sequel del primo, anzi, visto lo scarsissimo successo di pubblico e critica, unico vero buco nell’acqua dei cinefumetti marchiati Marvel, sembra proprio volerne prendere le distanze sotto tutti i punti di vista. E questo ci pare essere un errore imperdonabile.
Ang Lee, dal canto suo, aveva confezionato un prodotto oggettivamente dallo scarso appeal, ma di assoluta qualità. Ad oggi la sua regia di Hulk (2002) sembra essere la più ricercata e senza dubbio la migliore tra tutte quelle che hanno diretto le trasposizioni filmiche dei fumetti di maggior successo: gli split screen continui riportano lo spettatore davanti ad una pagina del mitico fumetto e gli stacchi e le dissolvenze non sono mai banali. Però indubbiamente il film paga un soggetto non all’altezza, che inesorabilmente porta ad uno snodarsi farraginoso del plot. Bana non è un supereroe e l’azione non è sfruttata come avrebbe potuto (e dovuto).
Tornando ad oggi, si cambia registro su tutta la linea. Leterrier non regge alcuna sorta di paragone con Lee, la sua è una regia quasi inesistente, si limita a prostrarsi a servizio degli effetti speciali e delle scene d’azione: il Coso Verde deve distruggere tutto, e lo fa. Però questo è anche il fiore all’occhiello del film: d’altronde chi si appresta alla visione aspettandosi da una pellicola del genere esercizi di stile registici, bussa alla porta sbagliata. E, alla fine della fiera, i cazzotti che Hulk rifila a tutto ciò che gli si mostri davanti, tranne Betty, risultano la parte migliore dell’intero film.
Di certo la presenza di Ed Norton, uno dei più grandi talenti, per la verità non ancora totalmente espresso, di Hollywood, è un altro punto a favore del film: il suo Bruce Banner ci piace eccome, è intenso, senza essere pesante (come invece era Bana), è spaccone, senza essere irriverente (come è qualche volta Downey Jr.).
Però il solo Norton non riesce a sopperire a carenze troppo evidenti: la sceneggiatura è inconsistente, i dialoghi da b-movie sono al limite del grottesco. Non bastano i camei omaggio a fumetto (il solito Stan Lee) e telefilm (Lou Ferrigno) a riportare il sereno. Liv Tyler, pienotta ed inespressiva, è assolutamente inadatta al mondo dei comics. Il casting stecca anche nella scelta del colonnello Thunderbolt, ricaduta su William Hurt, che sembra essere frutto di un sorteggio, più che di una vera e propria costruzione di un personaggio intorno ad un attore. Lo stesso Tim Roth, magnifico interprete, sembra vestire panni non suoi.
Insomma questo Hulk è, esclusivamente dal punto di vista dell’appeal commerciale, sicuramente un passo avanti rispetto al precedente, però sembra essere ancora una volta uno dei peggiori prodotti di casa Marvel. Forse Bruce Banner e il suo alter ego energumeno sono più adatti al piccolo schermo, e qualcuno alla Marvel dovrà rendersene conto, sperando che nel 2014 non ci regalino un terzo episodio che, ancora una volta, contraddica e prenda le distanze dai due precedenti.

VOTO: 58/100
Tommaso Ranchino


mercoledì 11 giugno 2008

Corti and Cigarettes - La finale




La rivista di informazione ed approfondimento culturale

Meltin'Pot

www.meltinpotonweb.com

è lieta di presentare

la serata conclusiva del I Festival per Cortometraggi Meltin'Pot

“CORTI AND CIGARETTES”

Mercoledì 18 Giugno 2008, alle ore 21.30

a Roma presso il Caffé Fandango, Piazza di Pietra n. 32/33


Programma della serata:

- Proiezione dei 7 cortometraggi finalisti:

*Vietato Fermarsi (8’40) di Pierluigi Ferrandini
*Gion Braun (10’52) di Giuseppe Tumino
*Pattaya è il paradiso (4’00) di Paky Perna
*Full Circle (10’58) di Joseph LeFevre
*Condominio per uccelli (9’00) di Alberto Comandini
*Work (4’16) di Luigi Coppola
*Roma Calibro 7 (7’59) di Fabio Garreffa

- Proiezione del cortometraggio Fuori Concorso:

*Onde corte (11’43) di Simone Catania con Maria Grazia Cucinotta

- Interventi degli ospiti di spicco del panorama cinematografico italiano.

- La giuria proclamerà i vincitori.

Premi:

- Miglior Corto, il cui autore vincerà un'esperienza di due settimane su un set cinematografico
- Miglior Soggetto
- Miglior Interprete


Nella stessa serata verranno anche assegnati da una giuria speciale i seguenti premi:
- Premio Sandro Bevilacqua - Torri del Benaco. Al vincitore sarà offerto vitto e alloggio per ritirare durante la manifestazione dal 27 al 29 Giugno il premio sulla sponda veronese del lago di Garda.

- Premio Cinema Giovane. Al vincitore verrà offerta, entro il 2009, la produzione di un cortometraggio.

Crediti

Giuria Meltin'Pot:

Presidente di Giuria - Regia: Maurizio Ponzi, stimato regista cinematografico e televisivo che ha girato, tra gli altri, Io, Chiara e lo scuro, Il volpone, Volevo i pantaloni e Qualcosa di biondo con Sofia Loren, oltre che, per la televisione, Il bello delle donne.

Sceneggiatura: Luca Verdone, regista (Sette chili in sette giorni e La bocca) e sceneggiatore, si occupa anche di teatro, documentari e radio.

Recitazione: Giulietta Revel, ha recitato nelle fiction Rai Pompei, Orgoglio, Giovanni Paolo II e Incantesimo 7. Nel Giugno del 2008 presenterà Le Grolle d’Oro per lo Sport a Saint-Vincent.

Produzione: Giuseppe Francone, direttore di produzione de I cannibali di Liliana Cavani e Allónsanfan dei Fratelli Taviani e produttore de Il caso Raoul e I visionari di Maurizio Ponzi.

Edizione: Annamaria Liguori, nota script supervisor che ha lavorato in film memorabili come Bianco, rosso e Verdone, Borotalco, Una vita in gioco, Tre uomini e una gamba e nelle fiction di successo De Gasperi e Il capo dei capi. Recentemente ha finito di lavorare sul set di Albert Einstein di Liliana Cavani.

Musica: Maestro Giuliano Sorgini, compositore musicale cinematografico che ha lavorato in vari film negli anni ’70 e ’80, tra cui La bestia in calore e Diabolicamente…Letizia.

Giuria Speciale per i Premi Sandro Bevilacqua e Cinema Giovane:

Diego Biello, Presidente di Cinema Giovane e della sezione cinema del Premio Sandro Bevilacqua – Torri del Benaco e produttore.

Maria Russo, Vice Presidente di Cinema Giovane e sceneggiatrice.

Alessandro Zonin, direttore della fotografia (a.i.c.).

Giampiero Francesca, critico cinematografico della rivista culturale Close Up.

Matteo Ierimonte, giovane regista.

Ospiti che interverranno a seguito della proiezione dei cortometraggi:

Giancarlo Scarchilli, noto regista e sceneggiatore italiano di Scrivilo sui muri, I fobici e Mi fai un favore.

Carmine Amoroso, regista dell'acclamato Cover Boy – L’ultima rivoluzione. Nel 1992 ha scritto la sceneggiatura di Parenti serpenti di Mario Monicelli.

Luca Lionello, attore visto recentemente in Cover Boy e Nero Bifamiliare, che ha inoltre vestito i panni di Giuda in La passione di Cristo di Mel Gibson.

Giancarlo De Leonardis, hair designer di fama internazionale che ha lavorato in capolavori del calibro di C'era una volta in America, L’ultimo imperatore, L'uomo delle stelle, Non ci resta che piangere, Hannibal, Black Hawk Down e tantissimi altri..

Alfredo Covelli, sceneggiatore, vincitore del Premio Solinas nel 2005 per la Miglior Storia Drammatica con Pinoy. Ha sceneggiato ultimamente per la tv I liceali.

Antonello Emidi, direttore della fotografia di Last Minute Marocco.

Ada Pometti, attrice di cinema e teatro diplomata al Centro Sperimentale, che lavora presso il Teatro Stabile di Catania. Ha inoltre preso parte in svariati film diretti da Lina Wertmuller e Luigi Magni.

Enzo De Camillis, scenografo che ha lavorato con grandi registi italiani come Steno, Sergio Rubini, Giancarlo Giannini, Giuseppe Tornatore e Neri Parenti. E’ anche Vice Presidente della A.S.C. (Associazione Italiana Scenografi, Costumisti ed Arredatori).

Conduttore dell’evento: Nicola Liguori, direttore della rivista di informazione ed approfondimento culturale Meltin' Pot.

Organizzazione dell'evento:

Coordinator: Annamaria Liguori

Direttore Artistico: Tommaso Ranchino

Ufficio Stampa: Leonardo Rumori

Relazioni esterne: Beatrice Mosele, Eva Songini


Per tutte le informazioni: e-mail:cinemania.meltinpot@gmail.com telefono: 333/6619389

martedì 10 giugno 2008

Recensione di Corazones de mujer - Un delicato on the road movie italiano che ha stregato Berlino





Esistono uomini che hanno un’identità doppia, ma ben più raro è il caso in cui due soggetti confluiscono in un’unica identità: è il caso di Davide Sordella e Pablo Benedetti che hanno firmato il film Corazones de mujer con lo pseudonimo di Kiff Kosoof (eclissi in arabo). Il titolo è in spagnolo perchè, come affermano i due, avevano scritto il film per Pedro Almodòvar, poi però lo hanno girato loro, mantenendo il titolo che avevano pensato per il regista spagnolo. Effettivamente le tematiche trattate sono facilmente accostabili allo spagnolo: una donna marocchina che vive a Torino vuole farsi confezionare l’abito per il matrimonio da un suo connazionale travestito. C’è un problema: lei non è più vergine. A questo punto i due compieranno un viaggio da Torino al Marocco, via Spagna per l’appunto, per recuperare la verginità di lei attraverso un’operazione chirurgica a Casablanca.
Corazones de mujer è un’opera di largo respiro geografico, sociale e culturale, che tratta con delicatezza temi scabrosi e spesso impronunciabili nel mondo arabo: l’emancipazione e la sessualità della donna e l’omosessualità maschile. Come veicolo per fare tutto questo ci si serve anche del forte immaginario metaforico che il viaggio proietterà immediatamente nello spettatore. E’ infatti nel viaggio che i due si spoglieranno di ogni ipocrisia e paura che si portano addosso nelle rispettive quotidianità. La redenzione qui passa attraverso una sorta di bilancio delle proprie esistenze on the road.
Il film non si vuole porre come denuncia a questa o quella confessione, ma come un vero e proprio saggio universale sull’amore e sulla libertà, dove i confini vengono cancellati e i pregiudizi messi a tacere.
Gli attori non sono professionisti e i mezzi con cui è stato girato sono modesti, ma l’originalità del progetto è sembrata essere vincente: gran parte della critica a Berlino lo ha accolto a braccia aperte, e proprio questo successo potrebbe favorire l’interessamento da parte di qualche distributore che si prenda la briga di dare una buona visibilità al film.
Di certo una strada alternativa quella imboccata dai due registi e sceneggiatori, che può solo che completare e rendere più variopinto il panorama cinematografico nazionale, spesso troppo vincolato dal dualismo dei strapoteri produttivi e distributivi di Rai (01) e Mediaset (Medusa).
Ci auguriamo che tanti giovani e talentuosi cineasti italiani, vedendo film come questo, prendano spunto ed esempio, imbarcandosi in progetti rischiosi dal basso, bassissimo, budget, che abbiano una natura artisticamente ispirata e ispirante a loro volta. Corazones de mujer ne è un ottimo esempio, e a noi è piaciuto parecchio.

VOTO: 70/100

Tommaso Ranchino


lunedì 9 giugno 2008

Recensione di Lower City - Un ménage a trois tra le favelas brasiliane

Machado ci racconta la storia di un triangolo amoroso, questa volta ambientata nei vicoli sudici e negli strip-bar poco raccomandabili di Salvador do Bahia, città natale del regista. I tre amanti sono un piccolo criminale squattrinato, un pugile fallito e una prostituta. Tra i due c’è un’amicizia viscerale che li lega dall’infanzia, ma la sintonia si spezza inevitabilmente quando entrambi s’innamorano di lei. Lei intanto tiene il piede in due staffe, e la sua indecisione, o meglio la sua voglia di non scegliere, crea situazioni promiscue ed ambigue.
La Parigi di Jules e Jim e The dreamers è ben lontana, e di conseguenza il triangolo qui assume connotati completamente diversi. Per i due amici, quasi fratelli, la donna contesa diventa un pretesto per lasciare lo squallore in cui sono cresciuti, non un motivo di trasgressione o di protesta indirizzata ad una società troppo bacchettona. Un motivo di rivalsa ed emancipazione nei confronti di un ambiente insostenibile, in quale il futuro dei due sembra convergere inesorabilmente verso un vicolo cieco.Machado pecca nel proporci un’immagine del Brasile troppo stereotipata, fannulloni e puttane non vengono scavati a fondo, ma disegnati con superficialità. La femme fatale si spoglia un po’ per guadagnarsi da vivere, un po’ per scelta, ma non si sveste mai del suo ruolo per diventare donna, nemmeno quando scopre di essere incinta. Così facendo la storia risulta decisamente prevedibile ed anche un po’ tediosa. Lo stallo deriva anche dall’asciuttezza eccessiva di una sceneggiatura per di più debole.Il cineasta lavora, e bene, soprattutto sull’immagine e sulla forma, la pellicola è ben girata, i lunghi silenzi a tratti affascinano e coinvolgono, e l’immaginifico tipico del ménage à trois viene reso alla grande, però la mancanza di una storia forte su cui appoggiarsi si sente ancora troppo. La strada imboccata è quella giusta, ma la base su cui costruire un film troppo inconsistente. Molti elementi vengono solo sfiorati, risultando così superflui e non dando alcun contributo all’opera.Le interpretazioni del cast stesso, forse anche per la debolezza dei personaggi, stentano a decollare per tutta la durata. Il promettente astro brasiliano Wagner Moura, di cui sentiremo parlare, fa un passo indietro confronto all’ottima interpretazione in Tropa de elite, Orso d’Oro a Berlino 2008; anche Alice Braga, splendida in City of God, risulta intensa sì, ma anche troppo, dando una forma bidimensionale al suo personaggio davvero piatto.
In conclusione consigliamo la visione di Ciudade Baixa esclusivamente per l’ambientazione ben ricostruita del suburbano del Sud del Brasile e per alcune sensazioni particolarmente coinvolgenti che il film trasmette attraverso l’accostamento di immagini, per il resto la pellicola si ferma ben poco oltre la sufficienza.

VOTO 65/100
Tommaso Ranchino


domenica 8 giugno 2008

Recensione di Tropa de elite - L’action movie brasiliano che ha trionfato a Berlino arriva in sala





Obbligatorio fare una premessa: Tropa de elite è la più grande produzione che il cinema brasiliano abbia mai sostenuto, e segnerà (speriamo) l’inizio, o quasi ,vedi il sorprendente City of God di Meirelles (2001), di una stagione elettrizzante e stimolante per tutta l’industria della settima arte carioca. Da notare come i fratelli Bob e Harvey Weinstein, squali della produzione statunitense, abbiano co-prodotto e distribuito sia Tropa de Elite che City of God, che quell’anno, grazie soprattutto al loro lavoro, fu nominato a 4 statuette. Il battage pubblicitario non ha precedenti, vedi la diffusione illegale sul web (creata ad hoc?) che ha fatto sì che la pellicola fosse vista da 11 milioni di brasiliani ancor prima di approdare in sala. Si racconta addirittura, e noi facciamo finta di crederci, che il regista ne abbia trovato una copia pirata nel salotto del Ministro della Cultura brasiliano, Gilberto Gil. A coronare questo successo mediatico e di pubblico, sorprendente anche al botteghino, è arrivato poi L’Orso d’Oro alla Berlinale 2008, che ha sdoganato il film da semplice fenomeno comunicativo ad opera di qualità e rilevanza cinematografica.
In effetti Tropa de elite è un pugno nello stomaco. José Padilha, dopo aver girato con successo un documentario sulla polizia di Rio (Onibus 174), cambia registro e per il suo primo fiction movie sceglie un linguaggio aggressivo. Il film, ambientato nella Rio di una decina d’anni fa, narra le vicende di vari individui di tutte le classi sociali le quali, per motivi opposti, sono indissolubilmente legate al traffico della droga. Con una tecnica narrativa che, non solo per tematica, ricorda Traffic di Soderbergh, Padilha ci regala, attraverso gli occhi innocenti di due novellini della polizia e la cinica coscienza del Capitano Nascimento, unica interpretazione da segnalare per un intensissimo Wagner Moura, una brulicante Rio dove la Polizia si comporta come una cosca mafiosa, inquinata da ogni sorta di corruzione a tutti i suoi livelli gerarchici, che addirittura alimenta la criminalità delle favelas. All’interno di questo sconfortante scenario c’è ancora un reparto speciale, il BOPE, la Truppa d’elite per l’appunto, che continua, con metodi forse poco ortodossi ma più che efficaci, la lotta contro il crimine e in particolare contro i narcotrafficanti che tengono in pugno le sorti delle favelas.
Dal punto di vista stilistico la regia, per la verità ancora un po’ acerba, è frenetica e inquinata da uno stile parahollywoodiano che fa il verso ad un mostro sacro quale Michael Mann. La fotografia che attenua i colori caldi ad ogni livello si attesta come l’elemento tecnico meglio riuscito, caratterizzando fortemente la pellicola.
Il film ha dalla sua una trama abbastanza intricata, ma raccontata con una linearità invidiabile, che rende il tutto godibile e coinvolgente, nonostante la lunga durata. Tropa de elite è un film che non ha velleità documentaristiche, anzi spesso la realtà viene sostituita con la caratterizzazione quasi grottesca di molti personaggi, ma risulta comunque efficace dal punto di vista sociale, lanciando un messaggio chiaro e ben indirizzato, lancia un appello interclassista ad una città corrotta, dipendente dalla droga, regolata dalle leggi non scritte del ‘sistema’ e abbandonata al proprio destino dalle istituzioni locali e centrali. Per di più la sceneggiatura non è avara nel regalare siparietti quasi comici, che, in un contesto del genere, risultano quanto mai esilaranti e ben collocati.
Stringendo il cerchio questa discussa pellicola ha innumerevoli frecce al suo arco, è un ottimo action movie, è un’opera di denuncia sociale, ha un’efficacia cinematografica e soprattutto regala spunti di riflessione su ogni tipo di società civile, non ultima quella italiana.

VOTO: 78/100
Tommaso Ranchino