giovedì 20 dicembre 2007

La bambola dell'amore vale più di quel che costa - Recensione di Lars e una ragazza tutta sua



Lars, introverso ai limiti del caso clinico, vive in un garage nella brulla e assonnata provincia del Midwest, un luogo dove le manie e le angosce tendono ad amplificarsi a dismisura. Gli unici contatti, seppur molto deboli, col mondo esterno sono suo fratello Gus e la moglie. Lars aspira alla trasparenza. Casa – lavoro, lavoro – casa, questo il suo iter quotidiano. Sembra però aver trovato una persona speciale, Bianca, da presentare a Gus e consorte. Il benvenuto che i due daranno alla ragazza sarà decisamente titubante, forse perché in realtà si tratta di una Real Doll, una specie di bambola gonfiabile molto costosa, piena di silicone ed acquistabile solo via internet, molto appetita dai fruitori del genere. Lars se ne prenderà cura e la rispetterà in modo maniacale. La amerà come nessun uomo sa fare, costringendo chi gli sta intorno ad accettarla come una di loro.
La commedia viene usata dal regista Craig Gillespie come semplice pretesto per delineare il dramma di un uomo completamente avulso dalla percezione della realtà in cui vive. Di uno al quale il contatto con gli altri provoca un dolore persino fisico.
La scelta di girare in inverno, ritardando anche la lavorazione, si è rivelata azzeccata. Gli alberi spogli e le pianure nebbiose, stile pianura Padana, evidenziati da una fotografia molto fredda, vanno a braccetto con la solitudine dell’esistenza di Lars.
La sceneggiatura è asciutta, quasi ridotta all’osso. Così il regista può sfruttare al massimo l’immenso talento di un ispirato Gosling, sul quale torneremo, per trasmettere la non attitudine del protagonista ad una vita normale. Un personaggio chiuso in una bolla di sapone infrangibile. I tic e la gestualità impacciata dell’attore preparano un ottimo cocktail di dolcezza, imbarazzo e paura.
Il fatto che l’unica persona con cui Lars parli sia proprio Bianca suona come un’assordante richiesta d’aiuto rivolta a chi non aveva forse saputo stargli vicino fino a quel momento.
Un film di una sensibilità davvero superiore alla media, che parla dei sentimenti più puri della vita usando i toni sommessi di un’educata commedia. Che tratta l’amore in un modo spesso infantile, risalendo diretto alla genesi di un istinto puro e senza montature.
Lo stile di Gillespie porta tutto all’essenza. Lars e una ragazza tutta sua è un film che fotografa un soggetto assurdo attraverso il filtro della realtà. Niente è artefatto o arzigogolato, e nemmeno la metamorfosi graduale del protagonista segna un’eccezione dal trend essenzialista di tutta la pellicola. I prolungati silenzi e la quasi assenza di colonna sonora fan sì che a tratti il film scorra un po’ lento, questa sembra però essere una scelta plausibile fatta dal regista nell’ottica di un insieme scarno ma comunicativo.
L’intera cittadina gioverà della presenza di Bianca, come se un oggetto nato per soddisfare le perversioni di qualcuno si trovi invece a colmare un vuoto affettivo nell’immaginario di un’intera comunità annoiata.
Il film va avanti tra scene esilaranti e momenti d’incerta ripetitività di alcuni leit motiv già ben snocciolati in precedenza. La più grande sorpresa è che questo è un pezzo di cinema che sa davvero emozionare. E allora, quando uscirà il 4 Gennaio 2008 nelle sale, non sarà difficile sorprendere qualche vicino asciugarsi le lacrime causate dalla morte di una persona che non è mai stata viva, almeno dal punto di vista biologico.
Un altro motivo per cui appoggiare il progetto Lars è la presenza dell’attore forse più promettente del momento che, subito dopo una nomination agli Oscar, si lancia anima e corpo in un'avventura dal modesto budget, ma dalle ottime potenzialità. Strepitoso in The Believer, Half Nelson e il recente Il caso Thomas Crawford, Gosling questa volta supera ogni pur ottimistica aspettativa, dando al personaggio una solida fragilità che forse nemmeno la sceneggiatrice Nancy Oliver aveva ipotizzato scrivendo il plot. Di tutto rispetto anche le performance, per niente facili, del resto del cast: da Emily Mortimer, che aveva già ben figurato in Matchpoint di Woody Allen, a Paul Schneider, qui nel ruolo di Gus.
Si può dire che il 2008 del cinema indipendente nascerà sotto una buona stella se questa commedia drammatica avrà la visibilità che merita. Una pellicola che sa scuotere anche gli animi meno recettivi con il suo linguaggio estremamente semplice e il suo tenero sguardo alla vita e all’amore. Un trend di fare cinema interessante, che mira a commuovere il pubblico senza shockarlo con le solite immagini poco digeribili di malattia e violenza.

VOTO: 71/100

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mercoledì 19 dicembre 2007

Rob Zombie a corrente alternata - Recensione di Halloween - The beginning

Uscirà nelle nostre sale il 4 Gennaio 2008 il prequel di Halloween, horror di culto datato 1978.
Michael Myers, uno dei più noti assassini seriali degli States, viene qui raccontato ripercorrendo le tre fasi della sua vita di mostro. Dall’infanzia solitaria alla reclusione in riformatorio, per arrivare poi all’evasione. Le origini di una leggenda del male scandite dalle notti di Halloween, particolarmente gradite a Myers per compiere efferati omicidi di massa stile Manson.
Sono passati quasi 30 anni da quando Carpenter terrorizzava l’America con uno dei pochi horror universalmente apprezzati. Oggi lo scomodo compito di rievocarne gli incubi è stato affidato al regista/sceneggiatore più sorprendente e d’avanguardia dell’industria del terrore degli ultimi anni, Rob Zombie. Una rockstar e un director di culto per gli appassionati del genere. Uno che ha fatto il botto gettando nelle sale La casa dei 1.000 corpi, un film tanto assurdo quanto efficace, a cui ha fatto seguito il sequel La casa del diavolo, baciato dal medesimo successo.
Anche stavolta Zombie si è portato dietro quel manipolo di pazzoidi che hanno collaborato con lui nei precedenti lavori: dal direttore della fotografia Phil Pharmet al suo manager-produttore Andy Gould, fino ad arrivare alla moglie del regista, Sheri Moon Zombie. Questa volta però la sontuosa produzione gli ha anche permesso di levarsi uno sfizio: quello di ingaggiare il protagonista di Arancia Meccanica, suo film preferito, Malcom McDowell, per vestire i panni del leggendario Dr. Loomis.
La prima parte del film, quella di Myers baby killer per intendersi, sembra promettere uno dei più grandi horror della stagione. La mano calcata del regista si vede eccome. La desolazione della provincia americana e dei personaggi caricati all’estremo nella loro grettezza tipici di Zombie, si fondono alla perfezione col mito del killer più temuto di tutti i tempi. La colonna sonora hard rock diventa adrenalina pura se associata agli occhi schizzati dello psicopatico. Le inquadrature mosse usate con esagerazione creano un’inquietudine continua.
Poi però Myers cresce. Da bambino squilibrato si trasforma in gigante dalla forza disumana che si nasconde sempre dietro una delle centinaia di maschere preparate da lui stesso all’interno della cella. E mentre il mostro è cresciuto il film di colpo si sgonfia. Le inquadrature si standardizzano, il rock sparisce e i nuovi personaggi sono sciapi e di basso profilo. Come se Zombie si fosse assentato di colpo, per tornare poi a girare solo qualche sporadica scena. La sceneggiatura perde tutto ciò che di buono aveva avuto fino a quel momento.
Ne La casa dei 1.000 corpi e La casa del diavolo, e anche nella prima parte del film, si trattava di raccontare la ‘realtà’ di intere famiglie baciate dal male, di personaggi assolutamente surreali che imprecano in ogni scena, così cattivi da far sorridere, e in questo Zombie è maestro. In Halloween – The beginning il compito era quello di rinverdire gli antichi fasti di un singolo personaggio muovendosi all’interno di certi ‘paletti’ che il prequel aveva lasciato in eredità. Bisognava creare la classica figura horror del mostro che prima terrorizza e poi uccide tutti, senza dire una parola. E allora è qui che il 42enne talento del Massachusetts diventa la brutta copia di Wes Craven, accantonando tutto ciò che lo ha reso unico.
In conclusione questo resta comunque un discreto horror, appena sopra la media di quelli recenti. Certo che da Rob Zombie, qui davvero intermittente, era più che lecito aspettarsi di meglio. C’è da sperare che Rob la prossima volta torni a fare lo Zombie, lasciando i remake a qualcuno di meno talentuoso.

VOTO: 53/100


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domenica 16 dicembre 2007

La matrioska sanguinaria di Cronenberg - Recensione de La promessa dell'assassino

Due anni dopo il sorprendente A history of violence torna al cinema l’accoppiata Cronenberg – Mortensen con La promessa dell’assassino, uscito il 14 Dicembre nelle sale italiane.
Una minorenne russa arriva in fin di vita in un ospedale londinese e, dopo aver dato alla luce una bambina, muore. La levatrice che ha assistito al parto, Anna (Naomi Watts), di origini russe, trova il suo diario. È un diario testimone di violenze e soprusi subiti in uno squallido bordello gestito dalla mafia. Una lente d’ingrandimento puntata sulla comunità russa ne mostra il marcio che le lievita intestino. Da una parte la famiglia di Anna, perfettamente integrata, che dirige un vita comune, dall’altra una Famiglia nell’accezione più antica e barbara del termine, dove spiccano figure classiche come quella del Padrino padrone e del figlio inetto (Vincent Cassel) che abusa della sua posizione di protetto. Tra questi si insinua spietata l’immagine di un ‘autista’(Viggo Mortensen) che in realtà ha il compito di lavare i panni sporchi del figlio e che si rivelerà sin dalla sua prima apparizione il personaggio cardine dell’intreccio.
David Cronenberg si prende la briga di raccontare con occhio spietato la realtà della mafia russa, retta da un mix di tradizione, ritualità anacronistica ed ipocrisia. Un modo in cui i tatuaggi che un uomo ha sul corpo ne raccontano la storia, e chi non è tatuato non è nessuno. Il regista fa tutto questo con l’efficace uso della doppia lingua per tutto il film. Da Ivan Drago in poi non si può certo dire che il russo evochi nello spettatore occidentale immagini d’amore e fratellanza. Trascurabile strascico della Guerra Fredda che Hollywood non perde occasione per riproporre con ironia. La storia disegna personaggi meschini, ne tesse le motivazioni giustificandole con una ricerca della virilità a tutti i costi: “ l’importante è non apparire checche”, come viene spesso ripetuto nel film.
Confeziona alcune scene davvero crude (il film è stato anche vietato ai minori di 14 anni), girate però in modo garbato. E proprio questo garbo, questa aplombe danno al film una velata ironia che lo mantiene sempre gradevole. L’eleganza nel vestire, la ricercatezza dei vini con cui si festeggiano i crimini e la cura maniacale di ogni particolare rendono alcuni personaggi così surreali da affascinare.
Mortensen sfoggia un’interpretazione davvero eccezionale, annichilendo le co-star. Cassel è troppo legato a quel ruolo di cattivo senza cuore, e spesso anche senza cervello, che ormai sembra non poter fare altro. Invece il ruolo affidato alla pur sempre efficace Watts sembra avere davvero poco spessore, troppo poco per un film del genere. E poi l’ottima sceneggiatura, uno dei punti di forza del film, pare cucita addosso all’ ex Aragorn. Memorabile la scena, già culto per alcuni, di un Viggo Mortensen nudo che si azzuffa nel bel mezzo di un bagno turco pubblico con due scagnozzi ceceni. Davvero poco british come comportamento.
Una curiosità: nella scena suddetta tra le decine di tatuaggi falsi da galeotto russo che si trovano sul corpo di Mortensen si può chiaramente vedere sulla spalla sinistra quello (reale) che si è fatto alla fine delle riprese del Signore degli Anelli, uguale anche per gli altri otto attori che formavano la Compagnia dell’Anello nel film d’esordio della trilogia.
Agrodolce il finale, nel quale tutti gli altarini verranno svelati, sarebbe stato meglio lasciare incompiuto qualcosa.
Tirando le somme si può dire che Cronenberg, dopo l’esperienza di A History of violence, ha affilato gli artigli ed è riuscito a fare ancora meglio. Un film crudo, che però non regala violenza, ma la dà a chi se l’è meritata. L’ambientazione e la sceneggiatura poi sono senza sbavature, dialoghi ed immagini si fondono perfettamente per tutta la durata della pellicola. Insomma tutto sembra stare al posto giusto in un’opera di sorprendente efficacia visiva. Dasvidanya!

VOTO: 83/100

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sabato 15 dicembre 2007

Ecco le nominations per i Golden Globe Awards 2008

MIGLIOR FILM DRAMMATICO
“American Gangster”
“Espiazione”
“La promessa dell’assassino”
“The Great Debaters”
“Michael Clayton”
“No Country for Old Men”
“There Will Be Blood”

MIGLIOR FILM MUSICALE/COMMEDIA
“Across the Universe”
“La guerra di Charlie Wilson”
“Hairspray - Grasso è bello!”
“Juno”
“Sweeney Todd”

MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE
“Bee Movie”
“Ratatouille”
“I Simpson - Il film”

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA - FILM DRAMMATICO
George Clooney in “Michael Clayton”
Daniel Day-Lewis in “There Will Be Blood”
James McAvoy in “Espiazione”
Viggo Mortensen in “La promessa dell’assassino”
Denzel Washington in “American Gangster”

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA - FILM MUSICALE/COMMEDIA
Johnny Depp in “Sweeney Todd”
Ryan Gosling in “Lars e una ragazza tutta sua”
Tom Hanks in “La guerra di Charlie Wilson”
Philip Seymour Hoffman in “The Savages”
John C. Reilly in “Walk Hard: The Dewey Cox Story”

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA - FILM DRAMMATICO
Cate Blanchett in “Elizabeth: The Golden Age”
Julie Christie in “Away from Her”
Jodie Foster in “Il buio nell’anima”
Angelina Jolie in “A Mighty Heart - Un cuore grande”
Keira Knightley in “Espiazione”

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA - FILM MUSICALE/COMMEDIA
Amy Adams in “Come d’incanto”
Nikki Blonksy in “Hairspray - Grasso è bello!”
Helena Bonham Carter in “Sweeney Todd”
Marion Cotillard in “La vie en rose”
Ellen Page in “Juno”

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
Casey Affleck in “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford”
Javier Bardem in “No Country for Old Men”
Philip Seymour Hoffman in “La guerra di Charlie Wilson”
John Travolta in “Hairspray - Grasso è bello!”
Tom Wilkinson in “Michael Clayton”

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
Cate Blanchett in “Io non sono qui”
Julia Roberts in “La guerra di Charlie Wilson”
Saorise Ronan in “Espiazione”
Amy Ryan in “Gone Baby Gone”
Tilda Swinton in “Michael Clayton”

MIGLIOR REGISTA
Tim Burton — “Sweeney Todd”
Joel Coen e Ethan Coen — “No Country for Old Men”
Julian Schnabel — “The Diving Bell and the Butterfly”
Ridley Scott — “American Gangster”
Joe Wright — “Espiazione”

MIGLIOR SCENEGGIATURA
Diablo Cody — “Juno”
Joel Coen e Ethan Coen — “No Country for Old Men”
Christopher Hampton — “Espiazione”
Ronald Harwood — “Lo scafandro e la farfalla”
Aaron Sorkin — “La guerra di Charlie Wilson”

MIGLIOR COLONNA SONORA ORIGINALE
Michael Brook — “Into the Wild”
Clint Eastwood — “Grace Is Gone”
Alberto Iglesias — “Il cacciatore di aquiloni”
Dario Marianelli — “Espiazione”
Howard Shore — “La promessa dell’assassino”

MIGLIOR CANZONE ORIGINALE
“Despedida”, da “L’amore ai tempi del colera” [Musica di Shakira e Antonio Pinto, parole di Shakira]
“Grace Is Gone”, da “Grace Is Gone” [Musica di Clint Eastwood, parole di Carole Bayer Sager]
“Guaranteed”, da “Into the Wild” [Musica e parole di Eddie Vedder]
“That’s How You Know”, da “Come d’incanto” [Musica e parole di Alan Menken]
“Walk Hard”, da “Walk Hard: The Dewey Cox Story” [Musica e parole di Marshall Crenshaw, John C. Reilly, Judd Apatow, Kasdan]

MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA
“4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” (Romania)
“The Diving Bell and the Butterfly” (Francia / USA)
“Il cacciatore di aquiloni” (USA)
“Lussuria” (Taiwan)
“Persepolis” (Francia)

sabato 3 novembre 2007

Hopkins vs Gosling - Recensione de Il caso Thomas Crawford



Signore e signori Hannibal è tornato. Lasciatemelo dire, se Il caso Thomas Crawford fosse stato un filmaccio sarebbe comunque valsa la pena di vederlo per (ri)gustarsi l’immagine di un mefistofelico Hopkins che, vestito da detenuto, ghigna dietro le sbarre.
A parte le evocazioni anni ’90, questo è un film che si ritaglia di diritto un comodo spazio tra i migliori legal thriller del 2007. D’altronde il regista texano Gregory Hoblit ci aveva già deliziato con un classico del genere 10 anni fa, Schegge di paura, film che lanciò Ed Norton nell’olimpo hollywoodiano.
L’idea è piuttosto banale. Un uomo ricchissimo (Anthony Hopkins) tenta di uccidere la moglie dopo averne scoperto il tradimento. Architetta il tutto in modo da rendersi però inattaccabile, benché colto quasi in flagrante. A questo punto ingaggia uno scontro psicologico, e non solo, con il rappresentante della pubblica accusa, un giovane avvocato in ascesa (Ryan Gosling) che sta per lasciare l’ufficio del procuratore distrettuale per andare ad occupare un posto in un prestigioso studio di ‘squali’. In pratica la sua ultima ‘buona azione’.
Ciò che rende assolutamente avvincente il film è la presenza di ben due personaggi solidi, entrambi dotati di un’intensità che un solo protagonista può avere nella maggior parte dei film. Il 70enne gallese Hopkins si conferma come l’icona cattiva del cinema thriller d’oltreoceano. È un piacere vederlo farsi beffa della giustizia e del ‘benpensare’ con quell’immancabile vena di gelida irrazionalità che i suoi occhi cerulei irradiano. Dall’altra parte il 27enne Gosling si conferma ad altissimi livelli interpretativi, dopo la nomination agli Oscar 2007 per Half Nelson (inedito da noi). Questo ragazzo canadese si sta facendo largo ad Hollywood con una velocità impressionante, il suo è un talento cristallino e se ne stanno accorgendo un po’ tutti ormai.
Lo scontro tra i due dà significato a tutto il film, che altrimenti sarebbe stato uno dei tanti. Avvincente perché ben girato, con pochi tempi morti e una modesta dose di imprevedibilità. Le musiche, soprattutto nelle prime scene, ti inscatolano in un’ interminabile attesa di un qualche delittuoso evento. Il contorno del film, vedi resto del cast e le cosiddette scene secondarie, non è un granchè.
La sceneggiatura è azzeccata. Ti spiattella subito lì il delitto, troppo facile. Scena dopo scena però ti accorgi che non tutto è come poteva sembrare. Che il miliardario spietato e sadico si difende da solo, senza l’ausilio di legali. Che il baby procuratore invincibile pecca di presunzione nel suo ultimo caso dalla parte ‘buona’ della barricata.
A margine della storia un accenno all’eutanasia, legale in California dove il tutto si svolge.
Tirando le somme direi che questo è un film non eccelso, però interessante. Sicuramente una perla in questo mare di qualunquismo e omologazione in cui sta affogando il thriller made in Hollywood.


VOTO: 75/100

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lunedì 29 ottobre 2007

Marco Aurelio e Giunone - Recensione di Juno



A vincere quest’anno la Festa del Cinema di Roma è stato un film insolito, certamente partito come outsider, che però il Marco Aurelio come Miglior Film se l’è meritato tutto. Si tratta di Juno, una commedia indipendente che ha sorpreso, divertito ed emozionato critica e giurati, mettendo tutti d’accordo.
Narra di una sedicenne alquanto particolare dotata di una personalità strabordante che resta incinta dopo un rapporto occasionale avuto con un coetaneo altrettanto stravagante e decisamente impacciato. Da qui comincia l’avventura di Juno, la traduzione inglese di Giunone. Dovrà decidere cosa fare del bambino, e non sarà una scelta semplice. Il tutto si svolge in una piccolissima cittadina della provincia canadese, e non nelle solite metropoli statunitensi, set della maggior parte dei blockbuster che gli yankee ci propinano.
Il regista canadese Jason Reitman ha voluto fortemente la giovane e talentuosissima Ellen Page come protagonista. Una ragazza fuori dagli schemi, originale e forse già troppo cresciuta per la sua età. Il film colpisce soprattutto per il modo in cui Juno affronta la gravidanza, e la vita più in generale. Sarà un’antieroina hollywoodiana che saprà portare il pubblico dalla sua parte con la sua dolce irrequietezza sin dalle primissime battute.
E proprio sull’originalità e la forte caratterizzazione dei personaggi verte l’intera sceneggiatura scritta dalla 29enne di Chicago Diablo Cody. Un nome che non sparirà facilmente dai titoli di coda dei prossimi anni, visto che in questo suo primo lavoro se l’è cavata alla grande. Ognuno è la caricatura di sé stesso in Juno, ognuno eccede con stile. Il padre di lei devoto com’è agli impianti di riscaldamento e di aria condizionata, la ‘matrigna’ fissata in modo ossessivo dai cani, la migliore amica a volte forse un po’ troppo schietta e il ‘padre’ del bambino, le virgolette sono d’obbligo per un personaggio così geniale nella sua estraneità da ciò che gli accade intorno, sono gli eccezionali interpreti di questa colorata commedia. Tutto questo fa di Juno un ottimo film. Una commedia che fa ridere, e anche tanto. Che affronta temi importanti come una gravidanza inattesa, aborto e adozione con una disincantata vena di comicità noir, molto simile a quella dell’apprezzatissimo Little Miss Sunshine dei coniugi Dayton, sorpresa della passata stagione. Questa si conferma come una vera e propria caratteristica di Reitman che aveva già saputo affrontare in modo alternativo il problema delle industrie di tabacco in Thank You For Smoking.
La riuscita del film è dovuta anche ai divertentissimi dialoghi scanditi con un ottimo tempismo, l’unica speranza è che il doppiaggio non ne rovini l’efficacia scenica e non ne mutili l’irriverenza. In alcune scene il ritmo comico incalza lo spettatore con un crescendo di battute ed allusioni davvero esilarante.
Un ottimo esempio di cinema questo, dove la diva Jennifer Garner viene relegata in un ruolo dal basso minutaggio e un caratterista di vecchio corso come J.K. Simmons, il direttore del marveliano Daily Bugle in Spiderman, diventa un ottimo coprotagonista e un comico inatteso.
Questa volta il colore, la creatività e l’originalità del soggetto hanno avuto la meglio su progetti ben più costosi e pubblicizzati, vedi Le Deuxième Souffle con la Bellucci e l’americano Reservation Road con Joaquin Phoenix, Jennifer Connelly e Mark Ruffalo. Davvero una piacevole sorpresa. Non dimenticatevene quando finalmente uscirà a febbraio nelle nostre sale.

VOTO: 72/100

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lunedì 15 ottobre 2007

New York da paura - Recensione di Buio nell'anima



New York, giorni nostri.
Erica Bain ama la città. Non potrebbe vivere altrove. Conduce un programma radio in cui la racconta attraverso i rumori di ogni sua via, di ogni suo angolo.
Poi la tragedia. Lei e il suo ragazzo vengono massacrati a Central Park, in un tunnel già teatro di una scena cruda ne La 25ma ora di Spike Lee. Lui muore, lei resta in coma per tre settimane.
Di lì a poco diventa una specie di giustiziere della notte al femminile.
Anche se ad una prima letta la trama può sembrare ritrita, in realtà lo spettacolo confezionato dall’ottimo irlandese Neil Jordan (Michael Collins, Breakfast on Pluto) risulta una sorpresa.
Il ruolo di Erica viene affidato a Jodie Foster, forse ancora la migliore ‘action girl’ in circolazione nonostante l’anagrafe, che sa darle quella giusta freddezza e quel disincanto di cui il suo personaggio ha assoluto bisogno per la riuscita del film. Certo nelle battute iniziali sembrava alquanto insolito vedere la Foster interpretare la parte di fidanzatina innamorata, ma dopo saprà come rifarsi. Il suo ragazzo è interpretato dal londinese di origini indiane Naveen Andrews, che dal nome non dirà nulla ai più, è infatti meglio conosciuto come Sayid, l’irakeno disperso di Lost. Ma la figura maschile predominante di The Brave One, questo il titolo originale, è il detective Mercer. Nota di merito assoluta per l’attore che lo interpreta, l’afroamericano Terrence Howard, già apprezzabilissimo in Crash e, a mio parere, degno successore dell’immenso Denzel Washington. Sicuramente meno fisico nell’approcciare le parti rispetto al collega, non ha ancora il carisma da protagonista, ma forse risulta ancora più intenso in alcuni ruoli drammatici.
Ma, a parte l’ottimo cast, il dettaglio che fa del film un prodotto da segnalare, è l’atmosfera che l’irlandese Jordan ha voluto assegnare a New York e della quale forse non sarà stato contento il sindaco newyorkese Bloomberg, anche lui di origine irish. L’eccessiva criminalità rappresentata fa assomigliarla sempre di più a Gotham City piuttosto che ad una metropoli sicura come la protagonista per anni l’aveva descritta in FM (a NY i programmi in AM sono scadenti e popolari come si fa notare in una scena). La Mela che al di fuori sembrava quasi accecante nella sua lucentezza, in realtà al suo interno è marcia. E proprio questi pericoli che si nascondono ovunque portano Erica ad aver paura di ogni passo che muove fuori dalle quattro mura.
È la paura il sentimento dominante del film, ancor più dell’odio e del rancore esplosole dentro dopo l’uccisione del suo compagno. La paura di ogni voce, di ogni volto, di ogni rumore sinistro, di ogni accento ispanico in lontananza.
Significativo che si passi dall’ambientazione luminosa delle prime scene a quella tetra e buia di tutto il resto della pellicola. Infatti Erica inizierà a muoversi solo di notte. E proprio di notte, come Batman, farà giustizia a modo suo.
Un film sicuramente da vedere perché sa di fumetto iperrealistico, non annoia mai e non appare scontato. Rimandato però il finale.
Certo che usciti dalla sala non si ha certo voglia di trovarsi in un vagone della metropolitana che porta da Harlem a Soho, ma non fatevi ingannare dall’apparenza, quella del film è Gotham City, non New York, lo dice anche Bloomberg...

VOTO: 70/100


mercoledì 10 ottobre 2007

Roma caput filmi- Ecco la 2° Festa del Cinema di Roma


L’Auditorium anche quest’anno accantona per una decina di giorni la sua passione principale, la musica, per ospitare la 2° edizione della Festa del Cinema di Roma.
Dopo le polemiche a distanza con la Mostra di Venezia la kermesse veltroniana si ripresenta in gran forma.
La manifestazione, che comincerà il 18 ottobre, si prolungherà fino al 27. E in questi nove giorni Roma sarà attraversata da una miriade di operatori del settore, di giornalisti o presunti tali, di gossipari e di paparazzi. Ma i veri protagonisti saranno quei grandi nomi, tanto attesi quanto sfuggenti, che calcheranno il red carpet del Parco del Cinema, nome temporaneo affibiato al Parco della Musica progettato da Renzo Piano.
Le categorie in cui sono divise le proiezioni saranno più o meno le stesse della precedente, ed unica, edizione.
Ovviamente la categoria Cinema 2007, che comprende tutti quei film fuori e in concorso ultimati in quest’anno solare. Questa la vera selezione del Festival, fatta in modo casuale come spesso succede. Spiccano tra quelli in concorso El Pasado dell’argentino Hector Babenco con il divetto messicano Gael Garcia Bernàl, Hafez, un’insolita coproduzione tra Iran e Giappone, i nostrani La giusta distanza di Carlo Mazzacurati e L’uomo privato di Emidio Greco e un film francese, La deuxième souffle, conosciuto nel Belpaese soprattutto per la presenza di una biondissima Bellucci, regina assoluta del divismo da esportazione. Tra quelli fuori concorso ci sono titoli sicuramente più interessanti come il nuovo film di Sidney Lumet Before the devil knows you’re dead con Albert Finney, Ethan Hawke e lo straordinario Philip Seymour Hoffman, e l’atteso Lions for lambs diretto ed interpretato dall’inossidabile Robert Redford con Meryl Streep e Tom Cruise.
La sezione però più attesa, quella che da prestigio alla festa, è quella delle Première, ossia delle anteprime mondiali dei film. Proiettata verso la spettacolarità e l‘importanza del tappeto rosso porterà alla ribalta film come Elizabeth- The Golden Age dell’indiano Shekhar Kapur con Cate Blanchett, Geoffrey Rush e Clive Owen, Youth without youth, il ritorno dopo diec’anni alla regia dell’immenso Francis Ford Coppola con una pellicola di nicchia e low cost girata interamente in Romania, l’utima fatica registica di Sean Penn Into the wild, l’americano Rendition con il premio Oscar Reese Witherspoon e Jake Gyllenghaal, l’ambientalista Noise con Tim Robbins girato in una New York troppo rumorosa, l’italiano Giorni e nuvole con la Buy ed Albanese e tanti altri che porteranno a Roma personaggi illustri quali Halle Berry, Benicio Del Toro, Robin Williams e Gavin Hood.
L’attesa per un evento del genere è stata portata quest’anno all’esasperazione, tanto da affollare le biglietterie e i siti di internet ticketing e rendere introvabili i tagliandi per assistere alle proiezioni delle opere più attese che ho prima nominato. Però non bisogna dimenticarsi che la Festa del Cinema è fatta anche di tantissimi progetti di autori minori, che spesso però rendono meglio e si accostano maggiormente allo spirito di ricerca artistica ed originalità alla quale una manifestazione cinematografica dovrebbe puntare. Quindi visto che queste sale saranno probabilmente semivuote, andate a visitare il sito della Mostra e sceglietevi qualcosa di ‘sconosciuto’ per voi, potrebbe essere un’occasione per scoprire qualche passione latente, o semplicemente per vedere qualcosa che solo una rassegna tale e così ben concentrata può offrirvi.
Buona ricerca a tutti!

venerdì 28 settembre 2007

Recensione: I'm Not There

Il genio di Bob Dylan nell'interessante e complesso film di Todd Haynes

I'm Not There è un lavoro geniale e impressionistico "ispirato alla vita e alla musica di Bob Dylan".
Più che un biopic convenzionale, il film consiste in una serie di storie intrecciate fra loro, ognuna delle quali esprime un aspetto della personalità volubile di Dylan. I produttori hanno definito così, i protagonisti di queste storie: "il menestrello delle pianure del sud, il profeta del folk, il poeta visionario, il Giuda elettrico, il divo inossidabile, il predicatore evangelico, il cowboy solitario" - e
questo è solo l'inizio.
Cinque diversi attori interpretano sei diversi personaggi "dylaniani". Gli attori sono donne e uomini, bianchi e neri, e vanno dagli 11 anni di un bambino, ai 50 di un uomo maturo.
I "Dylan" si chiamano Woody (un bambino nero di 11 anni, sempre in fuga), Robbie (un attore donnaiolo, sempre on the road), Jude (un giovane artista tormentato), John/Jack (l'idolo folk che diventa predicatore), e Billy (il famoso fuorilegge, miracolosamente ancora vivo, ma sta invecchiando). Arthur il poeta punteggia le scene parlando rivolto direttamente in camera.
Le storie sono dense e ingegnose incursioni in alcune fasi della vita di Dylan, che si intrecciano pur restando separate fra loro - ognuna filmata in un modo diverso e in uno stile adeguato al suo tema. Si svolgono in mondi sia reali che immaginari, e sono illustrate e inframmezzate da immagini vere e false di notiziari, filmati di repertorio, voci fuori campo, narrazioni rivolte alla macchina da presa, allucinazioni, sequenze oniriche e, in una scena memorabile, un
montaggio subacqueo...
Gran parte dell'azione si svolge in America negli anni '60 e '70, quando notizie drammatiche e personalità della politica inernazionale irrompevano nelle case per la primissima volta. Quelle immagini familiari - il movimento per i diritti civili, la guerra del Vietnam, le figure incombenti di Lyndon Johnson e Richard Nixon - fanno da sfondo alle storie che via via prendono forma.
Gli autori danno continuità a storie e stili diversi con una colonna sonora corposa e coerente. Il film si apre con l'inno dylaniano all'irrequietezza, Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again, prosegue con le altre canzoni di Dylan (originali o cover) in ordine più o meno cronologico, e si chiude opportunamente col suo successo più rappresentativo e internazionale, Like a Rolling Stone.
Il regista e sceneggiatore Todd Haynes ha cercato di rendere tutta la complessità e i salti logici che hanno reso famosi in tutto il mondo i testi di Dylan. Data l'immensa copertura mediatica di ogni aspetto della "storia di Bob Dylan", una biografia tradizionale sarebbe stata superflua, e probabilmente non sarebbe stata accolta con favore dal diretto interessato.
Il casting è piuttosto stravagante, e potrebbe lasciare qualcuno perplesso. L’esuberanza degli anni infantili e giovanili di Dylan (compreso il mitico viaggio attraverso l’America, per fare visita al suo idolo, Woodie Guthrie, in ospedale) è rappresentata da un bambino nero di 11 anni.
La popolare attrice Cate Blanchett interpreta il Dylan giovane e lanciatissimo di “Don’t Look Back”; Heath Ledger è il marito e superstar dell’epoca di “Blood on the Tracks” . Christian Bale è l’austero ex-profeta del folk convertito alla religione. In quella che è decisamente una digressione fantastica, spunta fuori un Billy the Kid in carne e ossa, interpretato da Richard Gere, con tanto di look western e atmosfera da baraccone.
Rispetto a questi uomini di fantasia, le donne della vita di Dylan sono raffigurate in modo mirabilmente realistico e onesto: l’intensa Charlotte Gainsbourg è la moglie; l’indipentente e risoluta Julianne Moore è la sua successiva compagna. Il cast è un miscuglio intrigante di personalità artistiche diverse. Il formato è decisamente originale, ma il risultato complessivo è stimolante e dotato di una sua coerenza emotiva.
Le storie si sviluppano intrecciandosi in modo efficace verso il crescendo drammatico degli ultimi dieci minuti, in cui la moglie di Robbie, dopo anni di sofferenza e solitudine, lo lascia portandosi via le figlie. Il copione stempera l’emozione, qui, usando solo una canzone da Blood on the Tracks album, e troncata a metà. Ma questo film così giocoso e spregiudicato funziona? La risposta è sì. I
produttori sono professionisti di grande competenza, che lavorano con Haynes fin dai suoi esordi. Gli interpreti sono attori consumati e affascinanti, e le parti più surreali e sopra le righe della sceneggiatura (Billy e il Wild West) sono affidate alla grande esperienza di Richard Gere.
Ma soprattutto, Haynes è molto cresciuto dai tempi di Velvet Goldmine. Oggi è un regista maturo, che con il suo Lontano dal paradiso ha conquistato il grande pubblico, senza rinunciare né alla complessità né all’integrità della sua visione.

martedì 19 giugno 2007

Sylvain Chomet, il disegnatore sovversivo della tecnica narrativa moderna

Sylvain Chomet è un fumettista e un regista d’animazione dal talento smisurato, e la sua opera omnia, ad oggi, è senza dubbio Les Triplettes de Belleville, malamente storpiato in Appuntamento a Belleville qui da noi. Il disegnatore francese ha fortemente creduto nella sua idea, mettendoci ben 5 anni di lavoro nella realizzazione del lungometraggio e regalandoci una fetta d’animazione d’autore davvero indimenticabile. Champion è un orfano che, ispirato da una vecchia fotografia dei suoi scomparsi genitori che pedalano spensierati, dedica la propria vita alla bicicletta, fino ad arrivare a partecipare al Tour De France.
Ed è proprio durante la sua scalata più faticosa che sarà rapito da un gruppo di scagnozzi che lo porterà oltreoceano per sfruttarlo come ‘pedalatore da soma’ in un perverso passatempo dei mafiosi di Belleville. Madame Souza, nonna ed unico affetto di Champion, seguita dal fidato Bruno, il suo cane squinternato, partirà sulle tracce dell’amato, incontrando casualmente un trio di vecchiette, impolverate glorie musicali da cabaret (una sorta di Trio Kessler per intenderci), che potranno aiutarla, tra mille peripezie, a trovare lo scomparso. Quello di Chomet è un film d’animazione per adulti che incanta per l’accuratezza dei dettagli e la spiccata originalità che trova il suo culmine in una satira splendidamente sottile, che lo attraversa da capo a piedi, senza mai inquinarlo. L’utilizzo della tecnica del cinema muto, zero dialoghi ma tanta musica e rumori, imbriglia lo spettatore in una rete di surrealtà che trova riscontro in alcune scene davvero ben riuscite, come quella di una singolare pesca alle rane per mezzo di bombe a mano da parte delle tre vecchiette. Il disegno di Chomet è spigoloso e carico di particolari, portando ogni personaggio verso la forma caricaturale del proprio carattere; in questo modo ogni maschera di Appuntamento a Belleville, anche se filmicamente muta, ha tanto da dire attraverso la fisionomia del proprio viso, la lunghezza del naso, la propria statura o le proporzioni del proprio fisico. L’opera riporta, nella traduzione psicologica delle vicende, all’imprinting infantile di chi lo sta guardando, che riesce a dare una connotazione caratteriale ai protagonisti esclusivamente dal loro aspetto. L’introspezione tipica del cinema europeo d’autore in mezzo al quale Chomet è cresciuto trova qui il suo rovesciamento diametrale dal punto di vista sia teorico che formale. Le ambientazioni sono a dir poco splendide, si passa da una brulicante Parigi, vittima di un allargamento urbano estenuante, ad una Belleville che si mostra come un’idealizzata New York, retta dal paradosso, quasi cromatico, che la divide tra vicoli sudici e ristoranti pieni di lustrini e luccicori. Tra tutti i personaggi abbozzati negli 80 minuti di pellicola il vero protagonista sembra proprio risultare essere Bruno, cane in preda alle manie di persecuzione, alla solitudine e agli incubi che non lo lasciano un attimo. Questa analisi dell’onirico del cane sembra un ulteriore rovesciamento che il film propone: qui la caratterizzazione tipica del mondo animale infesta gli uomini, ed ecco che i francesi vengono ridotti a spocchiosi mangiarane e gli americani a degli obesi mangiahamburger che non staccano il loro didietro dalle immense auto! I riferimenti attraversano ogni scena, e culminano proprio nella fisionomia di Champion, che sembra essere un vero e proprio omaggio al nostro Fausto Coppi. A conti fatti Appuntamento a Belleville riesce in ogni suo intento, dando una spinta nuova al film d’animazione internazionale, che deve assolutamente rinunciare ad ogni fallimentare tentativo di scimmiottamento dei troppi e inflazionatissimi Shrek o Ratatouille di cui già da soli gli States ci inondano con asfissiante ripetitività, trovando una propria strada fatta di autorialità e qualità superiore.

domenica 13 maggio 2007

Recensione: XXY

Il maschio e la femmina, il frocio e il macho, l’odio e l’amore, il normale e il diverso


L’argentina Lucia Pienzo ha scelto, per la sua opera prima, una tematica decisamente inconsueta, raccontandola come forse mai nessuno prima aveva fatto sul grande schermo. Alex è un’ermafrodita, ha 15 anni e si trova di fronte, per volontà altrui, ad una sorta di bivio esistenziale, dovendo fare i conti con le pulsioni sessuali che gli arrivano da entrambe le peculiarità della sua natura.
La cineasta argentina ha avuto un gran coraggio, ed ha affrontato la delicata questione con una sensibilità artistica ed un realismo sociale davvero fuori dal comune, evitando il più che ha potuto ogni semplicistica discesa verso lo scabroso o il melodrammatico.
Tralasciando le (in questo caso) futili esplicazioni sinottiche, bisogna focalizzare l’attenzione sulla semplicità e la linearità del registro narrativo qui utilizzato. L’intento principale dell’opera, aldilà di quello didattico comunque ben riuscito, è quello di raccontare una storia di diversità, mostrandone la conseguente inquietudine derivata questa volta da un’insofferenza collettiva della comunità sociale non ancora pronta, piuttosto che da una vera e propria questione esistenziale interna al ‘diverso’. Il protagonista del film vede la sua natura d’intersessuale attraverso il filtro dell’opinione altrui, di genitori e coetanei, filtro che gliela distorce, rendendolo imbavagliato in un’emarginazione obbligata. Freddezza, raccapriccio e paure comuni non sono comunque gli unici elementi rivelatori dell’animus dell’opera.Il personaggio di Alex manifesta nella sua quotidianità e nella sua idealizzazione interpretativa un amore disinteressato e totalizzante nei confronti della vita, una spensieratezza inaspettata persino in qualunque altro suo coetaneo alle prese con l’adolescenza.
La questione dell’ermafroditismo fa poi da sponda ad una serie di tematiche adiacenti che diventano anch’esse vertebre di una stessa armoniosa spina dorsale. Tematiche quali la promiscuità adolescenziale, l’omosessualità latente, la conflittualità generazionale vengono tutte affrontate in modo collaterale o indiretto, mai superficialmente.
La cifra stilistica asciutta e mai ridondante dona crudezza ed intensità alle sensazioni contrastanti che si susseguono. La fotografia fredda e l’onnipresenza del brusio del mare collocano le vicende in uno scenario poco definito e dalle dimensioni spazio-temporali continuamente dilatate. Il lavoro della regista con la macchina da presa è sempre ragionato e non distoglie mai l’attenzione dalla problematica principale del film.
XXY mostra però il fianco quando la direzione del film strumentalizza, ai limiti del banale e dello schematizzante, alcune sequenze poco digeribili per raccontare con maggior impatto un disagio già ben delineato dalla sceneggiatura stessa, rischiando di cadere in trappole che la natura propria del film sembra voler esorcizzare sin dall’inizio.

In conclusione questo piccolo low cost movie argentino, che ha vinto nel 2007 la Semaine di Cannes, ha nelle sue corde una forza devastante, non totalmente espressa per la verità, che avrebbe potuto avere un impatto sempre silenzioso ma ben più distruttivo sul pubblico di tutto il mondo. XXY non risulta catalogabile sotto una qualche voce degli archivi della cinematografia che meglio conosciamo: è a modo suo un’opera singolare e plurale, drammatica, ma piena di vita, un po’ come d’altronde lo è Alex, un po’ maschio, un po’ femmina, un po’ vivo, un po’ morto, anzi ucciso.

giovedì 29 marzo 2007

Recensione: la Ricerca della Felicità

Gabriele, sei felice?

Muccino la felicità l’ha cercata ad Hollywood. Dopo i successi all’italiana de L’ultimo bacio, il cui remake è in uscita negli states, e di Ricordati di me, ecco il debutto a stelle e strisce del 39enne romano. E a battezzarlo sono l’inedita accoppiata formata da Will Smith e da suo figlio Jaden di otto anni. Questi gli ingredienti che hanno portato al successo nei botteghini statunitensi questo minestrone americano cucinato da un italiano.

La trama, basata sulla storia vera di Christopher Gardner, è un promo, come la fuga Mucciniana, della tangibilità dell’american dream. San Francisco, California. Anni ’80. Un nero rimane senza soldi, senza casa, senza moglie. Le uniche cose che riempiono la sua vita sono il figlio e il sogno di diventare broker. E una società di investimenti lo assume per uno stage di sei mesi…

Ottimo Will Smith, addirittura nominato agli Academy Awards (noti ai più come Oscar), ottimi gli incassi, ottimo il debutto di Smith jr. Ma il film non stupisce mai. Troppe le sequenze che cercano di portare lo spettatore alla lacrima. Indubbiamente ben girato, l’occhio di Muccino è comunque quello di un talentuoso, ma troppo yankee per essere esportato con successo in un’Europa poco incline al film-cipolla. Gli americani che in massa sono andati a vederlo nella sua versione originale The Pursuit of Happiness, oltre ad essersi risparmiati il pessimo doppiaggio della sig.ra Gardner (Thandie Newton), non avranno minimamente notato l’impronta di un europeo in questo prodotto quasi disneyano, vedi l’happy ending…

Perciò Muccino, con i 130 milioni di dollari che ha incassato solo negli USA il suo primo film, deve stare attento a non cadere nell’inganno del sogno americano e a non essere subito etichettato come regista di ‘filmetti’ dalle uova d’oro. E deve trovarsi un buon broker…

lunedì 19 marzo 2007

Recensione: Down in the Valley, nelle valli dell'anima

Nella San Fernando Valley la storia di un cowboy e una diciassettenne. Due personaggi fuori dal tempo in cui vivono, dividono un amore improvviso, apparentemente eterno.
Lui (Edward Norton) è un uomo dai valori di un tempo. Ai giorni nostri è anacronistico, socialmente un disadattato, vagabondo, disoccupato sognatore. E intanto rimpiange i ranch dov’è cresciuto. Lei (Evan Rachel Wood) ragazza dal carattere forte, più matura di quello che la sua età può suggerire, lo seduce con la sua voglia di vivere e lo rende dipendente dal suo amore, nonostante il diniego dell’autoritario padre poliziotto (David Morse).
Questo il pretesto per raccontare la storia di una follia. La follia del cowboy. La città non lo accetta, è un trapianto rigettato. La solitudine ha trasformato Harlan in uno squilibrato. Non ha nessun legame con l’esterno all’infuori del rapporto con Toba e il fratellino di lei (Rory Culkin), un tredicenne più che mai invischiato in una crisi di identità adolescenziale.

Il suo mondo vive negli angoli oscuri della sua mente. Nessuno lo conosce a fondo. Oscilla tra il buono e il cattivo per tutta la durata del film, non ha etichette.
Vedendolo si possono riconoscere nel cowboy squilibrato tutte le sfaccettature del proprio carattere. Tutti abbiamo una zona d’ombra, una zona violenta, una zona infantile. C’è chi le tiene a bada, Harlan no. E’ schietto in ogni manifestazione della sua anima tormentata. Ci si affeziona al suo personaggio, anche se la sua morte sembra l’unica soluzione possibile.


La pellicola esula dallo stereotipo etico e morale della nostra società. I buoni e i cattivi non esistono. Esistono le persone, microcosmi complicati, retti da un equilibrio di facciata, marci dentro. A volte invece completamente squilibrati, ma così dannatamente vivi e puliti, come Harlan.
Il paragone con Taxi Driver è quasi automatico. Il taxi diventa un cavallo. La scena allo specchio non manca. Norton è un fenomeno, come lo era De Niro nel ’76. Certo David Jacobson non è Scorsese, e scommetto che non lo sarà mai. Però l’opera è intensa. Non esagera mai, resta godibile anche nelle scene più forti.
Il suo flop nelle sale potrebbe essere un buon segno.
Uno di quei film da vedere di notte, da soli. Un’esperienza che consiglio.

lunedì 12 marzo 2007

Recensione: Sin City, in giro per la città del peccato

Robert Rodriguez aveva un sogno. Portare sullo schermo il fumetto capolavoro di Frank Miller, un guru alla Marvel e alla DC Comics. Sin City. Una graphic novel diventata culto negli anni '90.
Miller però era inizialmente scettico, restio. Dopo aver sceneggiato Robocop, I e II, si era ripromesso di non permettere mai più a nessun hollywoodiano di mettere le mani su una sua creazione. Quando poi Rodriguez gli mostrò qualche scena prova, fu lui ad avere la sensazione di aver messo le mani su qualcosa di grosso. Tanto da voler addirittura apparire in un cameo nelle vesti di un prete confessore morto ammazzato.

Di lì a poco si era ritrovato su un set fatto di soli green screens, infatti l'intera scenografia è stata ricreata digitalmente in un secondo momento della produzione. Un set che assomigliava ad un gala premiazione. Costellato da Quentin Tarantino (special guest director), Bruce Willis, Mickey Rourke, Clive Owen, Rutger Hauer, Michael Madsen(amicone di Quentin), Josh Hartnett, Michael Clarke Duncan, Elijah Wood, aka Frodo; e poi ancora, per i maschietti, Rosario Dawson, Jessica Alba, Brittany Murphy e la figlia di 'Una mamma per amica', Alexis Bledel.

Ma la stella che ha rubato la scena a tutti Ë stato il director Rodriguez. Regista dalle origini chiaramente messicane, nato in Texas. Pupillo - allievo di Tarantino. Erede naturale del suo stile pulp, vedi 'Desperado' e 'Dal tramonto all'alba'. Nulla di più facile e stimolante per lui che ricreare le torbide atmosfere noir di Basin City, Sin City er chi ha avuto la sfortuna di conoscerla, nate nelle pagine díautore di Miller. Pagine che prendono vita, passano dalla carta alla celluloide senza sbiadire minimamente di tonalità. Un vero e proprio film fumetto, di gran lunga superiore come fedeltà allíopera di origine dei più blasonati 'Spiderman' e 'X- Men'.

Questa è una città marcia, corrotta. Attraversata da vicoli squallidi e sudici, brulicanti di bar di terzíordine. La metropoli delle gang, della mala, delle puttane armate fino a denti, dei killer mercenari. Dove gli sbirri sono corrotti, i vescovi padrini, i senatori infami e i violentatori impuniti. Nelle vene di Sin City scorrono odio e violenza.
La trama si snoda in tre episodi. I tre rispettivi protagonisti, il detective cardiopatico Hartigan, il torturatore sfigurato Marv e il killer fotografo Dwight, narrano con voce fuori campo ogni scena imbevuta di sangue. Con commenti volgari e graffianti, con vere e proprie perle di saggezza sanguinaria. Gettano lo spettatore nella mischia come fosse uno di loro.

Le pupe non mancano, e non sono certamente meno assetate di violenza dei colleghi uomini.
Insomma Sin City è una vera e propria esperienza nel mondo di Miller, dopo averlo visto si ha la sensazione di essere tornati alla realtà dopo una gita nei bassifondi della nostra immaginazione.
Mi ero imposto di non elogiare il solito Quentin, di metterlo da parte, di concentrare líattenzione su Rodriguez. Non ce lího fatta. Non ho saputo resistere. La scena da lui scritta e diretta nella quale Dwight (Clive Owen) scambia quattro chiacchiere col cadavere parlante di Jackie Boy (Benicio Del Toro), Ë pura poesia per gli occhi e le orecchie degli amanti del pulp, tra i quali mi annovero umilmente.

Come se nella miglior opera di Rodriguez questi volesse ricordare a tutti di essere ancora in gran forma, di avere appena 44 anni e di non aver la minima intenzione di abdicare al trono. Re Quentin!

lunedì 12 febbraio 2007

Recensione: Crash, contatto fisico


Paul Haggis, tipo particolare. Nel 1991 due uomini di colore gli rubarono l'auto. Lui cominciò a fantasticare sulle loro esistenze. E volle farci un film. Ed ecco nel 2005 le sale di tutto il mondo inondate da Crash, pellicola dal cast vasto ma non d'eccezione, costata appena 6 milioni di dollari (Brad Pitt ne prende circa 20 a film), Miglior Film agli Oscar 2006.

Un dozzina di variegati personaggi vivono 36 ore nella Los Angeles post 11 Settembre, dove le varie comunità razziali convivono con disincantata indifferenza, da "separate in casa". Scenario ideale per 113 minuti di rara intensità. La fotografia buia si fonde alla perfezione con una colonna sonora struggente. Continui sbalzi di volume amplificano scene già assordanti per impatto visivo.

Storie di "razzismi" che si incrociano, paradossi che evidenziano la complessità dei conflitti razziali made in Usa. I buoni e i cattivi si scambiano i ruoli così tante volte che non li riconosci più. E alla fine tutti si ritrovano a dover fare i conti con gli stessi fantasmi fatti di incomprensioni e incomunicabilità che troppe volte sembrano invalicabili.

Dopo aver sceneggiato l'acclamato Million Dollar Baby di Clint Eastwood, Haggis scrive e, per la prima volta, dirige un'opera completa e senza sbavature, come fosse un veterano.

Un film che ti catapulta tra le highway di L.A., dove nessuno cammina, tutti guidano e l'unico modo per avere un contatto con gli altri sono gli incidenti stradali...

Recensione: American History X

1996. Il director inglese Tony Kaye, fino ad allora specializzato in documentari e videoclip musicali, decide di entrare nel mondo patinato ma un po’ ostico del cinema hollywoodiano, e decide di farlo dall’ingresso principale. Per inseguire il suo sogno è addirittura disposto a sborsare di tasca sua una cifra che si aggirava intorno al milione di dollari.
Questa la genesi di un capolavoro che nel 1998 sbarcherà nelle sale col titolo di American History X, dopo mille polemiche sul montaggio tra Kaye e la casa di produzione New Line che finiranno poi ai ferri corti nelle aule giudiziarie americane.
Il film è forte, rude, scomodo, violento e ti attacca allo schermo. Derek Vinyard (Edward Norton) è un neonazista statunitense convinto, leader del movimento giovanile razzista del suo quartiere, che, dopo esser finito in carcere per l’omicidio di due afroamericani, si redime e cerca di raddrizzare il fratello minore Danny che stava calpestando le sue stesse orme.
Non fatevi impressionare da una trama che a un primo sguardo distratto potrebbe sembrare prevedibile e scontata. Qui di scontato non c’è nulla. Il film è una cascata di eventi incastrati tra loro con una consecutio temporum illogica, tra flashback in bianco e nero e una sceneggiatura senza fronzoli.

Edward Norton (Fight Club, La 25° Ora) si conferma un maestro nell’interpretare il ruolo del ‘disadattato di successo’ e, a suo fianco, Eddie Furlong (Terminator 2, Pecker) veste i suoi panni abituali di quindicenne ribelle.

Le sequenze violente scandiscono la storia, quasi dividendola in atti e l’odore di realtà che si respira dalla prima all’ultima scena non si attenua mai, spesso nauseando lo spettatore.

Da sconsigliare a chi cerca una visione rilassante, o a chi è facilmente impressionabile.
Da consigliare invece a tutti quelli che amano le storie borderline, dove situazioni sociali e familiari insostenibili sono la regola.

Alla fine il film è uscito col montaggio ‘modificato’ dalla New Line, e Kaye ha perso, anche perché dopo quell’esperienza non è mai più riuscito a esprimere tutto il suo talento. Ma nonostante tutto c’è ancora chi come me non smetterà mai di essere grato a questo inglese che ci ha raccontato a modo suo una storia americana X…