martedì 27 gennaio 2009

Intervista al regista e al cast di Italians


Giovanni Veronesi torna al cinema, lascia i patemi d’amore e i viaggi chiarificatori post-maturità per puntare il suo obiettivo su tutti quegli italiani che, per motivi personali o per lavoro, vivono o si trovano temporaneamente all’estero. Proprio fuori dai confini diamo contemporaneamente il nostro meglio e il nostro peggio, croce e delizia dell’italianità. Il regista toscano ce li racconta così: “Nel film ci sono 4 tipologie completamente diverse di italiani all’estero, abbiamo scelto quelle che potevano risultare più divertenti pur essendo sostanzialmente persone normali. In realtà penso anche di esser stato troppo buono, in alcuni casi la condizione degli italiani all’estero è a dir poco stravagante, particolarmente di quelli che si trovano in Russia, che noi raccontiamo nel secondo episodio”.
C’è comunque stato un cambiamento nelle motivazioni che spingono gli italiani ad emigrare, soprattutto perché nel dopoguerra si cercava una situazione sostenibile dove lavorare e magari fare anche fortuna: “Gli italiani che adesso vanno all’estero – dice Veronesi – sono di ceto sociale decisamente più alto, e più che altro cercano buoni affari. Hanno però una caratteristica comune che ci accomuna da sempre: l’italiano all’estero da sempre si porta con sé un grado d’italianità molto più alto rispetto alle altre nazionalità. Nel film appare una frase pubblicata sul New York Times: ‘Gli italiani sono il popolo che suona di più al metal detector’, e penso che la nostra italianità è talmente forte e caratterizzante che suoneremmo sotto il metal detector anche nudi. Poi noi sappiamo adattarci meglio, e ci facciamo sempre riconoscere, questo è vero, ma non solo per l’essere caciaroni, anche perché abbiamo sempre un’umanità e una positività che viene sempre e comunque apprezzata”.


La pensa così anche Riccardo Scamarcio: “Credo davvero che in Italia ci sia una sorta di umanità che viene sempre fuori. Ad esempio basta andare in America e vedere quanta violenza c’è, se solo si pensa alla polizia statunitense la nostra polizia e i carabinieri ci fanno simpatia. L’umanità è la nostra migliore qualità, tutto il resto è un casino, qui nessuno rispetta le regole e il più delle volte fa come gli pare”.
Interprete del film anche Ksenia Rappoport, che fa uno strano confronto tra italiani e russi: “I nostri popoli trovo abbiano davvero molto in comune, soprattutto quando vanno all’estero. I russi quando sono fuori sono incredibilmente impacciati, non parlano una parola d’inglese e fanno casino. Da noi in Russia gli uomini italiani sono sinonimo di amore, passione e sole, li vediamo così”.


Sembra proprio che tutti abbiano una precisa e propria idea sugli italiani all’estero, anche Carlo Verdone ce la racconta: “Gli italiani che lavorano e vivono all’estero sono la parte migliore del nostro Paese. Io ho avuto molte occasioni per confrontarmi con questa gente, e mi sono accorto che qualsiasi lavoro facciano portano un carica e un bagaglio di genialità che altri non hanno. Genialità che possono ben confluire, cosa che non succede qui, anche grazie al rispetto e all’osservanza delle regole e ai mezzi di cui dispongono altre società straniere. Se questo accadesse anche in Italia, se ci fosse un minimo di rispetto per le regole in più tutto potrebbe girare per il verso giusto”.
Verdone, aderendo maggiormente ad “Italians”, racconta l’esperienza con Veronesi, unico regista, a parte naturalmente sé stesso, da cui da un po’ di anni si fa dirigere: “Giovanni è un mio amico anche nella vita privata, e dopo aver fatto i due manuali d’amore ho pensato che non ci potesse essere due senza tre. Ho quindi accettato il ruolo volentieri, anche perché ogni tanto mi fa bene fermarmi e far anche l’attore senza far l’autore. Veronesi poi ormai capisce e conosce i miei tempi, riesce a dare spazio ai miei tic e alle mie caratteristiche. Gli ho chiesto di mettere in imbarazzo il mio personaggio spesso, infatti quando sono in imbarazzo riesco a dare il mio meglio. Poi nel film da una prima parte in cui sono impacciato ed imbranato, passo ad una temperatura meno comica e più poetica, scoprendo nella casa-famiglia quei valori meno effimeri che forse cercavo veramente”.


Anche Sergio Castellitto fa parte felicemente del cast di “Italians”, misurandosi con la commedia, come poche volte gli era successo in carriera: “Io sono uno che frequenta poco la commedia. Già feci “Silenzio si nasce” con Giovanni in compagnia di Paolo Rossi, ed avevo un bel ricordo, poi sono stato battezzato al genere proprio da Carlo in “Stasera a casa di Alice” a fianco di Ornella Muti, perciò mi allettava l’idea di tornarci su. Essendo anche io regista quando lavoro per altri sono molto obbediente, un ospite gentile ed educato nel mondo dell’altro regista. Per Veronesi gli attori sono gli effetti speciali dei suoi film, e ovviamente contribuiscono di loro alla storia e alla sceneggiatura, ad esempio nel nostro episodio nel piccolo dialogo sul mutuo, che trovo di una forza incredibile, ho collaborato alla scrittura”.
L’attore romano confida di aspettare ansioso la reazione del pubblico meno navigato: “Sono davvero molto curioso di vedere la reazione dei ragazzi giovani. Questo è un film che cerca di portare un’analisi abbastanza approfondita sulla natura e l’essenza del nostro essere, inserendo questi elementi riflessivi all’interno di una commedia. D’altronde se guarderai alla commedia potrai sempre trovare un’analisi sociologica di fondo, invece guardando alla sociologia difficilmente ci troverai della commedia”.
All’interno di “Italians” c’è un elemento, per alcuni disturbante, per altri riuscito, che si emancipa completamente dalla produzione di genere: il personaggio di Dario Bandiera muore, Veronesi ce lo spiega: “Questa volta sono voluto andare un po’ oltre, inserendo la morte di Bandiera. Volevo vedere se il pubblico continuava a seguirmi, perché inserire un elemento del genere in un film di questo tipo non è assolutamente facile da digerire. Infatti la prima sensazione è quella di aspettarsi che il personaggio rispunti fuori da qualche parte, o che non sia lui l’assassinato. Lo spettatore poi se ne capacita, il film cambia completamente, e si è portati a ricercare un senso di quiete e pace, che parzialmente si ritrova nella parte finale del film e nella casa famiglia”.
Il presidente Filmauro Aurelio De Laurentiis, spiazzando anche lo stesso Veronesi che aveva appena detto: “Il prossimo che farò non sarà un film ad episodi, ma non voglio dirvi altro…”, ha annunciato che è di prossima produzione la nuova fatica del regista toscano: “genitori e Figli – Istruzioni per l’uso”.

Tommaso Ranchino

Recensione di Italians


Si apre con “Tarareando” dell’Orchestra di Piazza Vittorio l’ultimo di Veronesi, degli stranieri che fanno musica in Italia dischiudono così quelle folkloristiche danze che gli italiani che si trovano in terra straniera sembrano saper cadenzare come nessun altro popolo.
Due episodi raccontano un’italianità da esportazione, soprattutto cafona, ma anche misercordistica, godereccia prima, umanitaria poi. Quattro le facce da italiano che il regista plasma, trasforma, umanizza. Facce da Scamarcio, da Castellitto, da Verdone, da Bandiera, prodotti diversi di un cinema invece davvero poco esportabile, che si riferisce, Veronesi è garanzia in tal senso, ad un innalzamento esponenziale delle cariche emozionali di avvenimenti in realtà di poco conto. Una poetica alla quale il regista ci ha iniziato con i due manuali per innamorati scemi, e che sembra coltivare anche in questo “Italians”, arricchendola dell’interessante idea di metterci tutti un po’ in discussione, in una sorta di simil“Sorpasso” nel primo episodio, che scatena una riflessione on the road tutta all’italiana. Un cinema attaccato ad una filosofia becera, delle pisciate chiarificatrici nel deserto e del sex tourism che tanti connazionali sembrano apprezzare, che però perde aderenza quando si vuole mostrare romanzo di formazione, sfornando in un tripudio iperglicemico di buonismo due finali così così, uno pessimo per il vero. A quel punto meglio ancora sarebbe stato continuare la strada intrapresa, scandagliando più a fondo la nostra fissazione per le donne leggere e straniere, per il soldo facile che spesso cerchiamo all’estero, occultando la parte sin troppo umanizzata che distrae e confonde le idee, completando un ritratto a quel punto sì manierato e sin troppo vincolato alla drammaturgia del cinema spicciolo.


Il Verdone sempre impasticcato ed ipernevrotico dei film di Veronesi torna, dopo prove agrodolci, a far ridere di gusto; pur se ingabbiato in un personaggio scritto malino, l’attore romano si ispira alla commedia all’italiana, cosa che difficilmente in un passato fatto di macchiette e manierismo aveva provato a fare, riproponendosi in una veste che, lui assicura, sarà quella definitiva d’ora in poi. Dopo aver lasciato il proprio testamento artistico in “Grande, grosso e Verdone” si rimette in pista puntando sull’esperienza e la conoscenza che la maturità gli ha donato, ed è un godimento la scena che regala nel secondo episodio.
Di contro poco graffiante la prova di un immenso interprete quale Sergio Castellitto, che evidenzia, e conferma, scarsa propensione genetica per lo scorrimento comico di film del genere, risultando sempre forzato quando cerca il sorriso del pubblico, ed invece incredibilmente bravo e magnetico quando ne cerca la riflessione o la reazione emotiva. Di suo Scamarcio fa lo Scamarcio, forse ancor meno ispirato del solito, che sfoggia ahinoi un imbarazzante accento romano, e Bandiera conferma una potenzialità d’istrione ancora poco indagata e spremuta a dovere dall’industria dello showbiz nostrano.


Comunque va dato atto a Veronesi, e ad “Italians”, di metter in circolo un cinema a metà tra la boiata commerciale e la commedia impegnata, pendendo meritevolmente più per la seconda, almeno nelle intenzioni, restituendo solo parzialmente quella dignità che il genere ha conosciuto tempo fa. La strada da fare è tanta, ma pare che la buona volontà, sotto tanti aspetti, ci sia.

VOTO 55/100
Tommaso Ranchino

martedì 20 gennaio 2009

Recensione di Imago mortis


Bruno studia regia alla Murnau, una scuola internazionale di cinema del torinese, e la sua vita viene tormentata da una serie di visioni raccapriccianti e lugubri, in coincidenza col momento in cui riuscirà ad ottenere il lavoretto di custode dell’archivio cinematografico della scuola per pagarsi la retta. Tra l’incredulità e lo scetticismo di chi lo circonda riporterà a galla avvenimenti oscuri, ed oscurati, di anni prima, legati agli esperimenti del pazzoide Fumagalli. Scienziato del 1600 che era riuscito, attraverso il tanatoscopio, una sorta d’elmetto omicida alla “Saw”, a ricavare dai bulbi oculari l’utima immagine registrata dalla vittima dell’orpello infernale. Tutto questo anni prima dell’apparizione della fotografia.


Anche in Italia scocca l’ora della rivalutazione e rivisitazione del genere horror. L’effetto traino scatenato dalla florida rinascita iberica, capitanata da Amenàbar, Balaguerò, Del Toro e l’ultimo Bayona di “El orfanato”, trova il suo corrispondente nell’ultimo lavoro di Stefano Benussi. Si parte da dove si era terminato, si potrebbe dire così. Uno degli ultimi registi cimentatosi con successo nell’esercizio del genere è stato Pupi Avati, ritornato a metter paura anche col recente “Il nascondiglio”, e Benussi proprio di Avati è stato aiuto dal ’98 al 2001.
Accantonato il contesto ed il momento favorevole a livello europeo, “Imago mortis” non riesce di fatto a rilanciare un genere, qui, in disuso, anzi. Paralizzato da un’inspiegabile voglia di ‘internazionalità’, che porta a coinvolgere personaggi inquietanti, quali Geraldine, figlia di Charlotte, Chaplin e figlia, il film si appoggia su di un’idea interessante, quella di volersi addentrare nell’ossessione della razza umana di voler spasmodicamente fermare il tempo attraverso le immagini istantanee, assurgendo l’ultima immagine impressa sulla retina prima della morte ad esempio metaforicamente coinvolgente di vita, morte e tempo. Ma l’idea non trova respiro in quest’opera sconclusionata ed a tratti persino farraginosa.


La capacità di portare a termine un horror, o qualcosa che gli somigli assai, non la si acquisisce da un giorno all’altro, ed evidentemente in Italia non siamo ancora pronti, o almeno Benussi e compagnia ancora non lo sono. La regia si rivela ben presto invadente, facendo scelte visive radicali, quali l’epifania continua dello spettro sottolineata violentemente da un’invadente colonna sonora, eliminando luce in maniera del tutto arbitraria. Ogni stanza (impeccabilmente e per niente plausibilmente impolverata e stravecchia), antro o corridoio della scuola di cinema è illuminato al massimo da una lampadina, e chi guarda ha la sensazione di un ambiente davvero troppo forzatamente distorto. Forzatura che culmina, e dà il colpo di grazia a tutta la credibilità di “Imago mortis”, nella costruzione dei personaggi. Manierati ed insopportabilmente pilotati, anche nella recitazione, maschere quali quella della contessa proprietaria della scuola, inquietantemente spettrale, quella del direttore della fotografia che, impazzito, ha deciso saggiamente di vivere rinchiuso in una stanza della fatiscente struttura della Murnau, il preside-professore, regista attempato che vive l’immortalare immagini in modo ossessivo e compulsivo. Insomma una carrellata di macchiette improbabili, che trascinano pian piano il film verso la propria involontaria, tuttavia la migliore, natura grottesca.


“The orphanage” è qui lontano anni luce, la coerenza, in primis stilistica ed in secundis narrativa, viene disattesa, a favore della facile veemenza visionaria di una commistione continua di elementi paranormali e simbolismi pregni di futili metafore. Passato/presente. Sogno/realtà. Vita/morte. Tutti dualismi che vengono snocciolati a raffica, in uno svolgersi che ridurrà in maniera didascalica tutte le premesse ad una semplice ricerca del colpevole, dell’aguzzino, del carnefice invasato dall’arte e dall’ossessione per l’immagine eterna, cinematografica o fotografica che sia.
Resta comunque un bene aver cercato di riportare in voga il genere in Italia, speriamo che qualcuno, di meglio ispirato, colga il segnale e s’impegni a ricostruire una tradizione che da Argento, Bava (entrambi) e appunto Avati non ha più regalato un sano brivido all’italiana al pubblico, non solo connazionale.

VOTO 45/100
Tommaso Ranchino

domenica 18 gennaio 2009

Intervista al regista e al cast di Imago mortis


“Imago mortis” tenta di rinverdire la produzione di film di genere in Italia, soprattutto in relazione all’onda d’urto del fenomeno spagnolo, e a tal proposito il co-sceneggiatore della pellicola Luis Berdejo è proprio colui che scrisse, assieme a Balaguerò, lo script di “Rec”.


Il regista Stefano Bessoni ci racconta il suo rapporto con l’horror: “La mia scelta nasce dalla mia inesauribile passione per il genere, che fu proprio quella che mi spinse ad intraprendere la carriera nel cinema. Sin dall’inizio ho voluto affrontare questo genere, pur rendendomi conto delle difficoltà che ci sono in Italia nella produzione di opere gotiche ed horror. Fortunatamente dopo una collaborazione di due anni con la Pixstar siamo finalmente riusciti a fare il film che volevamo fare”.
La realizzazione del film, tra riferimenti e passaggi di testimone, ha nascosto più di un’insidia, soprattutto in fase di scrittura: “Aldilà del lavoro finale con la Pixstar- dice Bessoni - la gestazione di Imago mortis è stata lunghissima, durata parecchi anni, in cui si sono avvicendati innumerevoli sceneggiatori, ci sono state circa 30-35 riscritture. Quella definitiva, che arriva al cinema, è quella mia e di Luis Berdejo, per l’appunto. Il riferimento al cinema tedesco espressionista è stato un passaggio obbligato per me, così come lo è per tutti quelli che approcciano l’horror. Poi ovviamente la scena attuale spagnola, tra Balaguerò ed Amenabar, ed uno sguardo al cinema nazionale di genere di cui, pur non citando direttamente, mi porto qualcosa visceralmente dentro. Voglio creare un genere come accaduto in Spagna ed in Francia”.


Nel film sono presenti due donne, eredi di un nome a dir poco oneroso, Gerladine Chaplin, già vista proprio in “The orphanage”, e sua figlia Oona. La ragazza, che vive a Londra, racconta l’esperienza sul set con la madre: “E’ la seconda volta che lavoro con mia madre, mentre la prima fu una cosa voluta, che abbiamo scelto e portato avanti insieme, questa volta, credetemi, è stato tutto figlio di un puro caso. Stefano è arrivato a me attraverso un agente di Londra. Qualche giorno più tardi, parlando al telefono con mia madre le stavo raccontando che avrei dovuto girare un film a Torino, e abbiamo scoperto di essere entrambe nel cast dello stesso film. La cosa più assurda è che Stefano inizialmente non sapeva nemmeno che eravamo parenti, tantomeno madre e figlia”.


Il protagonista maschile è il giovane spagnolo Alberto Amarilla, che racconta il momento spagnolo così: “Trovo che Spagna e Italia siano cugini di primo grado, ci sono infinite affinità tra i nostri due paesi. Oggi la Spagna sta vivendo un vero e proprio risorgimento: dal cinema per l’appunto, per arrivare sino allo sport, stessa cosa che, soprattutto parlando di cinema, l’Italia ha passato anni fa. E spero davvero che in Italia possa accadere oggi lo stesso che accade da noi, soprattutto perché durante le riprese ho potuto confrontarmi con un cast tecnico dotato di un talento cinematografico davvero fuori dal comune”.

Tommaso Ranchino

lunedì 12 gennaio 2009

Recensione di Ti amerò sempre


Il romanziere francese Philippe Claudel, penna apprezzata soprattutto in patria, si cimenta per la prima volta dietro la macchina da presa e, per la verità, riesce finalmente a dare pieno sfogo ad una passione che coltiva dagli anni del liceo. Naturalmente scritto da lui, “Ti amerò per sempre” inquadra la propria attenzione sulla conformazione del rapporto tra due sorelle: Lèa, donna dall’incredibile fragilità che mal si concilia con la propria innata voglia di vivere, e Juliette, la maggiore, appena tornata in libertà dopo aver scontato 15 anni per l’omicidio del proprio figlio. L’incontro fra le due, allontanatesi dopo la condanna, e forse anche prima, riesumerà emozioni e percezioni, legate soprattutto al crimine di Juliette, che porgeranno momenti di instabile intensità, mai eccessivamente energica comunque, allo spettatore. L’amore, quello misterioso ed enigmatico fra sorelle, quello viscerale e in qualche caso anche distruttivo di una madre per il proprio figlio, sono, qui, gli elementi facili di una storia come tante. Storia che in ogni caso avrebbe potuto generare due ore di gran film, asciugando qui e lì, smontando le troppe barriere socio-culturali che “Ti amerò per sempre” propone, adoperando modelli di decodifica ben più scarni ma efficaci.
Gli spettatori invece si ritrovano sbatacchiati all’interno di un ambiente intellettualoide, con evidenti puzze varie sotto al naso, dove, tra figli vietnamiti adottati (l’adozione è un tema qui sviscerato con una superficialità pressoché sconcertante) e spossanti dibattiti pregni di citazioni autoreferenziali, l’antipatia già fenomenale dei francesi diventerà praticamente leggendaria, addirittura nel film un personaggio ammette di esser dovuto scappare da Parigi perché vi erano troppo parigini, e forse Nancy non è stata la scelta più oculata in quest’ottica.
Un contorno che, al contrario, meglio si sarebbe sposato con la struttura di un’opera narrativa. In poche parole un romanzo per lo schermo, le pagine si evolvono in fotogrammi, distorcendone la qualità prìncipe, dove i personaggi non possiedono alcun vantaggio rispetto ai ‘videolettori’, ed anche in questo Claudel palesa la propria spiccata sensibilità da autore di romanzi, scavandosi la propria fossa cinematografica. Tempistiche di un libro, perlopiù descritte aggrappandosi ai particolari, alle piccolezze, che ci portano immagini di un cinema lento e spoglio d’impeto patetico.
Complessivamente nulla qui è troppo male, pulite le interpretazioni, addirittura eccezionale Kristin Scott Thomas, che si porta a casa anche l’EFA come migliore attrice protagonista, una sceneggiatura senza particolari picchi o cadute, che oggi è già qualcosa, ma la totalità rimane comunque priva di un quid cinematografico che ce la possa rendere indelebile, o quantomeno lodabile. Tutto insieme non funziona.
Che non ci si potesse aspettare granché da un esordio lo si immaginava a priori, ma Claudel evidenzia anche una modesta padronanza del mezzo, esibendo una regia didascalica e piatta, che, di suo, non aggiunge nulla. Si vuole sobbarcare l’onere di scrivere un libro di celluloide, dimenticandosi della varietà dello strumento con cui si sta relazionando. Il cinema vive di innumerevoli aspetti che la composizione di uno scritto non prevedono. Claudel non se n’è accorto, o non è riuscito a seguire tutte le fasi (scrittura, prepoduzione, riprese, montaggio, postproduzione, rifinitura) come avrebbe dovuto. Tutto qui.
In sintesi un film senza sprint, senza un proprio stile ben definito, che s’inserisce con poco entusiasmo nel filone autoriale francese, in un marasma ormai davvero grigio, sbiadito, per riscattarsi esclusivamente in un finale che restituisce un minimo di senso filmico al lavoro.

VOTO 51/100
Tommaso Ranchino

giovedì 1 gennaio 2009

Recensione film: Ultimatum alla terra


Una sfera mastodontica è atterrata a Manhattan, Central Park. Il mondo è atterrito, il Presidente Usa se l’è già data a gambe e Klatuu, ambasciatore alieno, è uscito allo scoperto per avvertire il genere umano che la Terra non gli appartiene, visto l’animo distruttivo della nostra specie.
Il remake di “Ultimatum alla Terra” arriva al cinema, a 57 primavere di distanza dall’originale firmato Robert Wise, cineasta sperimentatore che ha attraversato innumerevoli generi (“Elena di Troia”, “West Side Story”, “Tutti insieme appassionatamente”, “Star Trek”). La mano contemporanea dell’inesperto Scott Derrickson (“The exorcism of Emily Rose”, “Hellraiser V”) connota l’intenzione del film su di un altro strato, se nel ’51 il messaggio pacifista insigniva il valore dell’opera, oggi la vena scolasticamente ambientalista di questo ennesimo remake, isterica tendenza hollywoodiana che sta prendendo sempre più, ne tarpa le ali e le facoltà narrative. Nella realizzazione formale poi questa natura di mezzosangue trova il suo solare esibirsi: alla fotografia ed agli approcci cromatici dal gusto retrò che si lasciano intravedere qui e lì non viene dato il giusto spazio, ripiegando sulla scialuppa di salvataggio, nonostante effetti speciali ben gestiti, di una formalità meticcia, tra il b-movie falsamente ricreato e il distaster movie d’oggi.
In uno scorrere affrettato, a tratti televisivo, la pellicola molesta la visione con la assoluta decostruzione di personaggi manierati e scribacchiati. Il cast inabissa assieme alle proprie maschere, il solo Keanu Reeves sguazza in un ruolo che ben gli si cuce. La sua inespressività viscerale, che si porta dietro dagli esordi, trova un completo adempimento nella disgregazione emotiva di un personaggio alieno. Il completo firmato e la pelle grigiastra fanno il resto.
Il sorvolare sbrigativo del film poco riporta alla forza che avrebbe meritato la sensazione claustrofobica di un’isteria di massa, egregiamente vista in “E venne il giorno”, un contorno onnipresente che a giochi fatti risulta il fulcro delle intenzioni di sceneggiatura e girato. Tendenzialmente “Ultimatum alla Terra” decide di non sporcarsi le mani, di fare un passo indietro, di riportare un genere in recessione come la sci-fi ad una risoluzione semplicistica e scevra di complessità. Un buco nell’acqua per la cinematografia odierna, che con le ottime prove di Shyamalan e di Danny Boyle (“Sunshine”) ha nel suo arco le frecce giuste per ricominciare a centrare il bersaglio nel largo bacino di fan, disillusi, della fantascienza.
Il singolare nucleo famigliare composto da Jennifer Connelly e Jaden (figlio di Willie) Smith si specchia falso e distorto in una mendace riproposizione di un’integrazione condivisa, oppure è semplicemente un raggiro mediatico imposto dal babbo alla Fox in una clausolina di chissàquale faraonico contratto. Fatto sta che è un ulteriore elemento minante, manifesto di uno sconclusionato lavoro di preproduzione.
“Ultimatum alla Terra” non merita una visione, godendosi qualche buon risultato visivo non si giustifica una completa disattenzione nei confronti della storia, a tratti mortalmente tediosa, a tratti nauseatamente già vista. Peccato per un genere nobile, che meriterebbe un rispetto reverenziale capace di bloccare velleità produttive come questa.

VOTO 45/100
Tommaso Ranchino