martedì 20 gennaio 2009

Recensione di Imago mortis


Bruno studia regia alla Murnau, una scuola internazionale di cinema del torinese, e la sua vita viene tormentata da una serie di visioni raccapriccianti e lugubri, in coincidenza col momento in cui riuscirà ad ottenere il lavoretto di custode dell’archivio cinematografico della scuola per pagarsi la retta. Tra l’incredulità e lo scetticismo di chi lo circonda riporterà a galla avvenimenti oscuri, ed oscurati, di anni prima, legati agli esperimenti del pazzoide Fumagalli. Scienziato del 1600 che era riuscito, attraverso il tanatoscopio, una sorta d’elmetto omicida alla “Saw”, a ricavare dai bulbi oculari l’utima immagine registrata dalla vittima dell’orpello infernale. Tutto questo anni prima dell’apparizione della fotografia.


Anche in Italia scocca l’ora della rivalutazione e rivisitazione del genere horror. L’effetto traino scatenato dalla florida rinascita iberica, capitanata da Amenàbar, Balaguerò, Del Toro e l’ultimo Bayona di “El orfanato”, trova il suo corrispondente nell’ultimo lavoro di Stefano Benussi. Si parte da dove si era terminato, si potrebbe dire così. Uno degli ultimi registi cimentatosi con successo nell’esercizio del genere è stato Pupi Avati, ritornato a metter paura anche col recente “Il nascondiglio”, e Benussi proprio di Avati è stato aiuto dal ’98 al 2001.
Accantonato il contesto ed il momento favorevole a livello europeo, “Imago mortis” non riesce di fatto a rilanciare un genere, qui, in disuso, anzi. Paralizzato da un’inspiegabile voglia di ‘internazionalità’, che porta a coinvolgere personaggi inquietanti, quali Geraldine, figlia di Charlotte, Chaplin e figlia, il film si appoggia su di un’idea interessante, quella di volersi addentrare nell’ossessione della razza umana di voler spasmodicamente fermare il tempo attraverso le immagini istantanee, assurgendo l’ultima immagine impressa sulla retina prima della morte ad esempio metaforicamente coinvolgente di vita, morte e tempo. Ma l’idea non trova respiro in quest’opera sconclusionata ed a tratti persino farraginosa.


La capacità di portare a termine un horror, o qualcosa che gli somigli assai, non la si acquisisce da un giorno all’altro, ed evidentemente in Italia non siamo ancora pronti, o almeno Benussi e compagnia ancora non lo sono. La regia si rivela ben presto invadente, facendo scelte visive radicali, quali l’epifania continua dello spettro sottolineata violentemente da un’invadente colonna sonora, eliminando luce in maniera del tutto arbitraria. Ogni stanza (impeccabilmente e per niente plausibilmente impolverata e stravecchia), antro o corridoio della scuola di cinema è illuminato al massimo da una lampadina, e chi guarda ha la sensazione di un ambiente davvero troppo forzatamente distorto. Forzatura che culmina, e dà il colpo di grazia a tutta la credibilità di “Imago mortis”, nella costruzione dei personaggi. Manierati ed insopportabilmente pilotati, anche nella recitazione, maschere quali quella della contessa proprietaria della scuola, inquietantemente spettrale, quella del direttore della fotografia che, impazzito, ha deciso saggiamente di vivere rinchiuso in una stanza della fatiscente struttura della Murnau, il preside-professore, regista attempato che vive l’immortalare immagini in modo ossessivo e compulsivo. Insomma una carrellata di macchiette improbabili, che trascinano pian piano il film verso la propria involontaria, tuttavia la migliore, natura grottesca.


“The orphanage” è qui lontano anni luce, la coerenza, in primis stilistica ed in secundis narrativa, viene disattesa, a favore della facile veemenza visionaria di una commistione continua di elementi paranormali e simbolismi pregni di futili metafore. Passato/presente. Sogno/realtà. Vita/morte. Tutti dualismi che vengono snocciolati a raffica, in uno svolgersi che ridurrà in maniera didascalica tutte le premesse ad una semplice ricerca del colpevole, dell’aguzzino, del carnefice invasato dall’arte e dall’ossessione per l’immagine eterna, cinematografica o fotografica che sia.
Resta comunque un bene aver cercato di riportare in voga il genere in Italia, speriamo che qualcuno, di meglio ispirato, colga il segnale e s’impegni a ricostruire una tradizione che da Argento, Bava (entrambi) e appunto Avati non ha più regalato un sano brivido all’italiana al pubblico, non solo connazionale.

VOTO 45/100
Tommaso Ranchino

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