domenica 20 aprile 2008

Recensione: Sotto le bombe

Libano 2006. Una giovane madre assolda un tassista, l’unico che accetta, che la accompagnerà nel suo viaggio verso Sud, alla ricerca del figlio. Il loro itinerario sarà seguito come un’ombra dai bombardamenti continui che seminano morte e terrore, ciònonostante tra i due nascerà un sentimento sincero e genuino.
Il film vive nella sua interezza su un paradigma visivo che trova riscontro anche nella trama: all’amenità geografica e paesaggistica del Libano fa da contraltare un panorama di distruzione causata dagli incessanti bombardamenti, così come all’amore intrapreso tra i due protagonisti si contrappone una realtà raccapricciante, testimonianza di morte e disperazione.
L’opera di Aractingi è un perfetto mix tra una raccolta di immagini paradocumentaristiche, non a caso il cineasta libanese è stato autore di una cinquantina di reportage sul mondo arabo e non solo, e una zona di intimità che viene a formarsi spontanea tra i due, sbocciata come una rosa nel deserto. Proprio questo dualismo è allo stesso tempo merito e limite della pellicola, che sembra mettere in gioco sentimenti opposti con tecniche narrative e registiche differenti, risultando però complessivamente debole e mal collegato. Il voler mettere il piede in due staffe, nonostante risulti causa principale di una disarmonia evidente, ha conferito al tutto un sapore agrodolce comunque toccante, trovando il suo punto più alto nella meravigliosa performance della protagonista femminile, Nada Farhat, Mereux d’oro come miglior attrice libanese.
Il dualismo realtà – finzione si accompagna ad un altro dualismo dai riferimenti e le evocazioni innumerevoli, Eros e Tanathos. La morte e l’amore sono d’altronde le due forze motrici che da sempre danno vita ai sogni e alle paure di ognuno, a maggior ragione in un paese martoriato dalla guerra.
In conclusione Sotto le bombe è un docu-film che sa emozionare e testimoniare contemporaneamente, dando alla questione libanese una visibilità che merita, certo rimane il dubbio di un’uscita italiana così ritardata rispetto alla realizzazione.

VOTO 66/100


giovedì 10 aprile 2008

Recensione di Shoot 'em up - Un action movie che si barcamena tra pulp e grottesco

Mr. Smith è seduto ad una fermata d’autobus, ha su il broncio d’ordinanza, prende dalla tasca una carota, la morde. Il suo spuntino è però interrotto dalla corsa di una donna incinta inseguita da uno scagnozzo armato. Mr. Smith: “Che palle!”, si alza e li rincorre: uccide lui con la carota e, schivando e rispondendo alle centinaia di pallottole che i rinforzi del cattivo materializzatisi dal nulla gli scagliano addosso, s’improvvisa levatore e fa partorire lei.
Da qui tutto verrà per proteggere il neonato tra mille difficoltà.
Michael Davis, dopo un inizio di carriera claudicante, lascia il segno con un action movie sui generis, arrivato in un momento in cui se ne sentiva davvero il bisogno. Shoot ‘em up, da mariuolo quale è, rubacchia qua e là tra le graphic novels di Frank Miller e le suggestioni di tarantiniana genesi che l’ultimo Rodriguez ci sa riproporre con stile.
Ogni clichè del blockbuster d’azione Davis lo sfotte e lo ridicolizza, crea, quasi disegna, i personaggi gettandoli in una realtà parallela oltremodo sopra le righe. Mr. Smith (Clive Owen) è un eroe atipico con uno spiccato humour, ghiottissimo di carote (che usa anche per uccidere) e con un innato talento per le armi, croce e delizia della sua intera esistenza. La Bellucci è una prostituta dal talento morbosamente deviante (vedere per credere) che saprà prendersi cura, a modo suo, sia del neonato che, soprattutto, del suo Bugs Bunny personale. Infine uno splendido Giamatti, forse ancora una volta poco sfruttato, veste i panni sarcastici di un cattivo catapultato nella pellicola direttamente dal mondo dei cartoon.
Le sparatorie infinite non risultano mai pleonastiche, creano siparietti divertenti e dall’invidiabile dinamicità, il sangue e la violenza onnipresenti sono ad alta digeribilità, e il merito va tutto assegnato all’affinità globale che il film vanta nei confronti del mondo del fumetto e dell’animazione.
Shoot ‘em up, oltre ad essere un riuscito esercizio di stile, si muove su un binario parallelo che verte sulla denuncia all’eccessiva fruibilità delle armi negli States. Paradossalmente proprio in un’opera che inneggia alla rilevanza cinematografica di pistole e proiettili, questi ultimi diventano i capri espiatori su cui puntare il dito per giustificare la violenza e la dilagante criminalità che infesta i vicoli delle megalopoli a stelle e strisce.
Il limite manifestato dalla pellicola è la debolezza relativa della sceneggiatura, che non rende completamente giustizia a tutte le aspettative che il film visivamente propone. Un ottimo Owen, che riprende quella strada intrapresa con successo in Sin City, avrebbe ulteriormente giovato di battute ancora più pungenti e dissacranti. La Monicona nazionale risulta un po’ ridicola nella versione doppiata nella quale, nelle parti da lei recitate in italiano nell’originale, si avventura in un dialetto napoletano poco credibile e mal ritmato, forse il ricorso al dialetto natio della diva (quello di Colpo gobbo a Milano per capirci) sarebbe risultato più appropriato e sicuramente più divertente, rubando una sana risata ai più nostalgici.
In conclusione Shoot ‘em up è un film d’azione sopra le righe che si muove con dimestichezza tra il pulp ed il grottesco, ponendosi come termine di paragone per le opere future del sorprendente Michael Davis.

VOTO 72/100
Tommaso Ranchino


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Incontro con Monica Bellucci - "Che noia doppiare me stessa!"




Monica Bellucci è arrivata a Roma per una toccata e fuga, per presentare alla stampa Shot ‘em up.
Michael Davis ha sceneggiato e diretto il film, dando rilevanza ad ogni minimo particolare in fase di pre-produzione. “Quando Michael mi ha proposto il copione l’ ho trovato divertente – dice la Bellucci – e anche un po’ pazzo. Lo spirito del film è lo stesso di un fumetto, da come viene trattata la violenza a come viene affrontato l’amore. Ho accettato anche se non conoscevo il lavoro precedente del regista anche perché quando lui me lo ha chiesto il film era praticamente già fatto, ho visto gli storyboard e mi sono convinta. E poi avevo voglia di lavorare con due grandi attori come Clive Owen e Paul Giamatti, pensavo che in questo film ci sarebbe potuto essere molto spazio per i personaggi”.
Il film vive sul paradosso per tutta la sua durata, in una scena i due protagonisti si trovano, nel mentre di un rapporto sessuale, nel bel mezzo di una serrata sparatoria, dovendosi dimenare avvinghiati per schivare i colpi. Per la diva nostrana quella è stata una scena davvero difficile: “Non sapevamo proprio come metterci in quel casino avvinghiati com’eravamo, certo meglio fare una scena così con Clive Owen che con qualcun’altro”.
Nella versione doppiata la Bellucci inveisce in dialetto napoletano in alcune scene: “Il napoletano è stata un’idea di Francesco Vairano. In doppiaggio era scaturita l’esigenza di creare un dialetto che il protagonista non potesse capire. Infatti nella versione originale quando mi arrabbiavo parlavo in italiano e ovviamente il personaggio di Clive non capiva”.
L’attrice afferma che non ama doppiare sé stessa nella fase postproduttiva del film: “Mi capita spesso di dover doppiare me stessa in 3 lingue diverse: italiano, francese ed inglese. Lo trovo molto noioso, non mi piace. E’ noioso dover interpretarle una parte per due volte oltre che davanti alla macchina”.
La nostra attrice da esportazione ha in cantiere molti progetti nuovi, elenca le pellicole a cui ha partecipato e che sta realizzando in questo momento: Sangue pazzo di Marco Tullio Giordana, Non voltarti di Marina De Van con Sophie Marceau, L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi e La vita privata di Pippa Lee accanto ad attrici del calibro di Robin Wright-Penn, Julianne Moore e Wynona Rider.

Tommaso Ranchino

Recensione di Appuntamento a Belleville - Sylvain Chomet, il disegnatore sovversivo della tecnica narrativa moderna




Sylvain Chomet è un fumettista e un regista d’animazione dal talento smisurato, e la sua opera omnia, ad oggi, è senza dubbio Les Triplettes de Belleville, malamente storpiato in Appuntamento a Belleville qui da noi. Il disegnatore francese ha fortemente creduto nella sua idea, mettendoci ben 5 anni di lavoro nella realizzazione del lungometraggio e regalandoci una fetta d’animazione d’autore davvero indimenticabile.
Champion è un orfano che, ispirato da una vecchia fotografia dei suoi scomparsi genitori che pedalano spensierati, dedica la propria vita alla bicicletta, fino ad arrivare a partecipare al Tour De France. Ed è proprio durante la sua scalata più faticosa che sarà rapito da un gruppo di scagnozzi che lo porterà oltreoceano per sfruttarlo come ‘pedalatore da soma’ in un perverso passatempo dei mafiosi di Belleville. Madame Souza, nonna ed unico affetto di Champion, seguita dal fidato Bruno, il suo cane squinternato, partirà sulle tracce dell’amato, incontrando casualmente un trio di vecchiette, impolverate glorie musicali da cabaret (una sorta di Trio Kessler per intenderci), che potranno aiutarla, tra mille peripezie, a trovare lo scomparso.
Quello di Chomet è un film d’animazione per adulti che incanta per l’accuratezza dei dettagli e la spiccata originalità che trova il suo culmine in una satira splendidamente sottile, che lo attraversa da capo a piedi, senza mai inquinarlo. L’utilizzo della tecnica del cinema muto, zero dialoghi ma tanta musica e rumori, imbriglia lo spettatore in una rete di surrealtà che trova riscontro in alcune scene davvero ben riuscite, come quella di una singolare pesca alle rane per mezzo di bombe a mano da parte delle tre vecchiette.
Il disegno di Chomet è spigoloso e carico di particolari, portando ogni personaggio verso la forma caricaturale del proprio carattere; in questo modo ogni maschera di Appuntamento a Belleville, anche se filmicamente muta, ha tanto da dire attraverso la fisionomia del proprio viso, la lunghezza del naso, la propria statura o le proporzioni del proprio fisico. L’opera riporta, nella traduzione psicologica delle vicende, all’imprinting infantile di chi lo sta guardando, che riesce a dare una connotazione caratteriale ai protagonisti esclusivamente dal loro aspetto. L’introspezione tipica del cinema europeo d’autore in mezzo al quale Chomet è cresciuto trova qui il suo rovesciamento diametrale dal punto di vista sia teorico che formale.
Le ambientazioni sono a dir poco splendide, si passa da una brulicante Parigi, vittima di un allargamento urbano estenuante, ad una Belleville che si mostra come un’idealizzata New York, retta dal paradosso, quasi cromatico, che la divide tra vicoli sudici e ristoranti pieni di lustrini e luccicori.
Tra tutti i personaggi abbozzati negli 80 minuti di pellicola il vero protagonista sembra proprio risultare essere Bruno, cane in preda alle manie di persecuzione, alla solitudine e agli incubi che non lo lasciano un attimo. Questa analisi dell’onirico del cane sembra un ulteriore rovesciamento che il film propone: qui la caratterizzazione tipica del mondo animale infesta gli uomini, ed ecco che i francesi vengono ridotti a spocchiosi mangiarane e gli americani a degli obesi mangiahamburger che non staccano il loro didietro dalle immense auto!
I riferimenti attraversano ogni scena, e culminano proprio nella fisionomia di Champion, che sembra essere un vero e proprio omaggio al nostro Fausto Coppi.
A conti fatti Appuntamento a Belleville riesce in ogni suo intento, dando una spinta nuova al film d’animazione internazionale, che deve assolutamente rinunciare ad ogni fallimentare tentativo di scimmiottamento dei troppi e inflazionatissimi Shrek o Ratatouille di cui già da soli gli States ci inondano con asfissiante ripetitività, trovando una propria strada fatta di autorialità e qualità superiore.

VOTO 82/100


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mercoledì 9 aprile 2008

mercoledì 2 aprile 2008

Recensione film: Nessuna qualità agli eroi






Bruno è un uomo francese che vive a Torino: sulla quarantina, depresso, insoddisfatto, indebitato e, senza che la moglie lo sappia ancora, sterile. Luca è figlio di un direttore di banca che usa il suo impiego di facciata per fare strozzinaggio ai clienti morosi. Le vite dei due si incrociano a causa dei debiti di Bruno, anche se lui ancora non lo sa, e si scrutano parallele accomunate dall’insofferenza che entrambe hanno per due padri troppo soffocanti, ognuno a modo suo. Il padre di Bruno è infatti un pittore di successo, e lui non ha mai accettato la preminenza del suo ruolo, neanche dopo la dipartita dello stesso.
Quando poi il padre usuraio scomparirà, le vicende porteranno i due protagonisti ad incontrarsi più volte, attraendosi e respingendosi, arrivando alla risoluzione del mistero in un finale non di certo lieto.
Il film di Franchi si discosta dal trend nostrano, andando a sgraffignare, nel quid della propria natura, qualcosa ai crismi del cinema europeo d’autore: il nichilismo di fondo dell’opera totalizza anche la resa formale della stessa. Ogni inquadratura ha un forte peso specifico, la dilatazione continua delle dimensioni spaziotemporali patetizza le sensazioni dei protagonisti, creando una dimensione parallela alla realtà. L’uso di tale tecnica fa rimbombare in modo esponenziale il vuoto dell’animo umano che sembra annullare le vite dei protagonisti.
Introspettivo ai limiti dell’analisi psicologica, non a caso il regista ha una cartella clinica che lo definisce nevrotico compulsivo, l’opera bilancia la preminenza delle due figure maschili con due figure femminili, che, nonostante le personalità siano inizialmente volutamente offuscate dal plot, si riveleranno un mix passione carnale allo stato più brado del termine per i propri uomini e di razionalità materna.
Anche l’assennato uso della lingua francese, in contrapposizione con l’italiano, amplifica la sensazione di solitudine di Bruno; che nutre la sua depressione vivendo due vite, una rapportandosi in modo mendace con la sua sfera privata e l’altra barcamenandosi in un mondo esterno che non lo considera degno di farne parte, nella quale incontrerà Luca.
Franchi affronta l’interiorità di due uomini di generazioni adiacenti, mettendoli anche, e soprattutto, a confronto con l’insostenibile rapporto con i loro padri e con la paternità più in generale nel caso di Bruno, che si rivelerà poi non essere altro che una ricerca della propria emancipazione da ogni tipo di autorità che la famiglia e la società impongono.
Il regista forse avrebbe potuto dare più spazio alla sfera onirica delle vicende, che viene affrontata esclusivamente in due brevi scene, dando la sensazione di un accenno poco giustificato che avrebbe avuto bisogno di una maggiore analisi oppure di una totale indifferenza.
L’uso del sonoro è assolutamente azzeccato e funzionale all’omogeneità del corpus della pellicola, rumori estremamente sordi o insostenibilmente acuti vengono sempre seguiti da silenziosi stacchi a seconda dell’umore, depresso o schizofrenico, dei protagonisti.
Il cast internazionale fa un buon lavoro, nessuno sembra mai inadatto e la direzione di Franchi sembrerebbe essere stata univoca. Todeschini recita più con la mimica facciale che con la voce, in un insieme che vive di una sceneggiatura scarna, conferendo grande intensità al personaggio; Elio Germano poi, il Golden Boy impegnato, davvero in tutti i sensi, del cinema italiano, da contrapporre ai vari mocciani, mucciniani o scamarci, al cinema anche con Il mattino ha l’oro in bocca e Tutta la vita davanti, offre un’ulteriore conferma del suo riconosciuto talento, veste i panni enigmatici di Luca, esagerando col suo recitato sopra le righe quando serve e rallentando quando la storia lo richiede.
Nonostante gli indubbi pregi e l’elevata qualità della pellicola, la sceneggiatura pecca forse di banalità, lo snodarsi del canovaccio sembra evidente già dai primi passi del film; forse una storia meno prevedibile avrebbe giovato alla manifesta ermeticità formale del film.
Sicuramente film del genere fanno bene alla cinematografia nazionale e possono aprire l’orizzonte del cinema italiano verso lidi balneati, ad oggi, dal solo Bellocchio.

VOTO: 73/100

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Incontro con il cast e il regista di Nessuna qualità agli eroi - Paolo Franchi, Bruno Todeschini, Elio Germano, Irene Jacob, Mimosa Campironi






La pellicola di Paolo Franchi affronta l’interiorità umana prendendosi una briga che pochi si sobbarcano nel nostro cinema: “E’ difficile fare un film così sia in Italia che all’estero. La scena della masturbazione che è stata tanto criticata non è altro che un gesto anarchico nei confronti dell’autorità dell’arte”. Proprio le opere d’arte del padre di Bruno nel film hanno un ruolo collaterale ma dal forte simbolismo, non a caso il titolo Nessuna qualità agli eroi è lo stesso di uno dei quadri che si vedono. Franchi non nasconde una passione per l’arte moderna, alla quale a modo suo si ispira nei suoi film: “Quando abbiamo girato il film per rappresentare l’arte del padre di Bruno avevamo in mente come riferimento l’informale materico, quindi Burri e Vedova. Anche nel cinema secondo me l’immagine che ha più potere è quella che non è immediatamente intuibile, ma si sovrappone all’invisibile, al fuori campo. Un’immagine che dia vita all’interpretazione”.
Proprio il rapporto tra critica e arte può essere accomunato a quello tra cineasta e critico cinematografico, e il regista bergamasco ha una sua forte opinione a riguardo: “Secondo me in Italia non c’è più una critica. Sui quotidiani di 15 anni fa si trovavano delle vere recensioni e la critica faceva analisi complete dei film. Oggi si trovano delle recensioni nelle quale si descrive la trama e poi si dice se il film sia bello o brutto, senza fare nessun tipo di analisi della pellicola, spesso anche perché non se ne hanno i mezzi. Si leggono tante cose invece su tutto quello che accade intorno ai film e ai festival”.
Elio Germano è senza dubbio l’attore del momento, anche questa volta interpreta un ragazzo dalla personalità border line, personaggio che evidentemente gli è molto gradito e di cui parla così: “E’ certamente più interessante dal punto di vista professionale un personaggio del genere. Luca si confronta con sé stesso, col proprio genitore e con la propria interiorità. Vi si possono ritrovare molti riferimenti alla letteratura: dall’Edipo Re a Dostoevskij. E’ difficile trovare ruoli così nel cinema, sono parti che si possono fare di più in teatro. Per un attore è una benedizione un personaggio così”.
Anche a Bruno Todeschini, l’altro protagonista, bisogna dare atto di aver dato al proprio personaggio una grande intensità, paragonabile in parte anche le interpretazioni della Nouvelle Vague, lui la pensa così: “Credo un attore debba entrare nel mondo del regista per cui lavora in quel film. Sinceramente il riferimento alla corrente della Nouvelle Vague mi viene istintivo, fa parte della mia natura recitativa. Franchi è un cineasta e a me interessava entrare pienamente nel suo universo”.
La figura del personaggio di Irene Jacob, dopo un inizio stentato, prende corpo pian piano che la storia progredisce, lei la pensa così: “La sceneggiatura che mi presentò Paolo mi sembrava molto complessa, ci ho trovato dei riferimenti letterari che vanno da Dostoevskij a Kafka. Io nell’interpretarlo avevo paura di cadere nella banalità del solito ruolo della moglie depressa, invece il personaggio ha trovato una certa profondità, siamo stati coraggiosi ad esplorare questo personaggio”.
Per Mimosa Campironi è stato il primo vero ruolo importante sul grande schermo: “Innanzitutto mi sento in dovere di ringraziare Paolo, per me è un onore parlare qui. Il merito è stato tutto loro, quando sono arrivata sul set c’era un clima surreale, sembrava di stare in un altro mondo”.