giovedì 1 luglio 2010

Corti and Cigarettes 2010, vince Camaiti

Corti and Cigarettes muove i suoi primi passi, e sono già passi da gigante. Nato quasi per gioco tre anni fa, con la serata finale di ieri il Festival internazionale di cortometraggi piomba di diritto tra gli appuntamenti da non perdere delle future estati romane.

La terza edizione vede il trionfo di Massimiliano Camaiti, vincitore con il suo “L’amore non esiste” sia del premio come miglior corto sia del Premio Cinecittà Luce, che assicurerà al film l’impagabile “lusso” della distribuzione in sala. Il tutto sotto l’occhio esperto di una giuria di primo piano presieduta da Bruno Altissimi e composta dalle attrici Ana Caterina Morariu e Monica Scattini, dall'autore Rai Adriano De Maio, dallo scenografo premio Oscar Osvaldo Desideri e dai registi Giancarlo Scarchilli, Alexis Sweet e Marco Filiberti.

Annamaria Liguori (presidente del Festival), la giuria e l’avv. Luciano Sovena (Amministratore delegato di Cinecittà Luce) hanno apprezzato l’ironia graffiante, concisa, diretta di “L’amore non esiste”, impreziosito inoltre da un surreale Pietro Sermonti.

Serata di grandi attori: come migliore interprete è premiato infatti Massimo Poggio, figlio alle prese con il vecchio padre in “L’esame” di Andrea De Sica. È l’attore Pino Quartullo a premiare il collega.

Il miglior soggetto invece è andato ai più esperti Werther Germondari e Laura Spagnoli, autori di “Per Versum”, piccolo gioiello che gioca sul sottile confine tra comicità e tragedia.

Menzione Speciale infine consegnata da Maurizio Ponzi al commovente “Banduryst”: sogno e realtà si confondono nella vita di Vasyl, musicista costretto a consegnare bombole del gas per sopravvivere.

A bocca asciutta, ma comunque interessantissimi, “Il vincitore” di Davide Labanti, sguardo “teatrale” all’Italia della crisi, e “He Xenjym Helium” di Giuseppe Schettino, che porta al Festival un po’ di sano sperimentalismo.

Fuori concorso invece è presentato “19 giorni di massima sicurezza” di Enzo De Camillis, su un tragico caso di errore giudiziario. Il film ha ricevuto anche un riconoscimento per la migliore fotografia, consegnato da Giuseppe Francone a Roberto Girometti. Sempre fuori concorso è stata proiettata una breve clip de “Il Compleanno” di Marco Filiberti, reduce da un discreto successo a Venezia.

La serata, condotta dall’attrice Giulietta Revel, allietata dal Jazz di Antonello Sorrentino, è animata dalla presenza di numerosi ospiti d’eccezione quali , Piera Degli Esposti, chiamata a premiare Roberta Allegrini per la fotografia del film “Il compleanno”, Stefano Di Tommaso, Consigliere d’Amministrazione della “Roma-Lazio Film Commission”, il consigliere regionale Carlo De Romanis, il critico de “Il messaggero” Fabio Ferzetti, l’attrice Sidne Rome, l’ex ministro Girolamo Sirchia, lo sceneggiatore Alfredo Covelli, e il doppiatore Angelo Maggi.

I corti sono forma d’arte sempre viva, sottoterra di brevi illuminazioni in continuo movimento e rigenerazione. Essi sono per il cinema dei “grandi”, come piccole ma irrinunciabili iniezioni di fiducia e nuove idee. Dopo ieri sera la fiducia non può che essere tanta.

Fiducia nel cinema, dato per morto e invece vivissimo proprio dove e quando ancora bisogna combattere per farlo. Fiducia in Roma, città capace una volta di più di ospitare manifestazioni di questo genere. Infine fiducia nei giovani che il Festival hanno creato, sfidando tempi di drastici tagli e depauperamento diffuso nel mondo della cultura e del cinema in particolare.

Riccardo Antonangeli

FONTE: MP NEWS ( www.mpnews.it )

lunedì 16 novembre 2009

Recensione di Segreti di famiglia - Il ritorno di un maestro


Francis Ford Coppola torna a firmare interamente una pellicola a più di 35 anni da “La conversazione”. “Tetro”, girato e scritto dal regista ormai settantenne, è un film in cui l'autore riversa tanto di quello che la famiglia e l'arte sono significati per lui, dalle origini italiane alla (onni)presenza di musicisti in 'casa'.
Coppola ci racconta con piglio teatrale una famiglia attraversata da sentimenti contrastanti e spesso insostenibili. Benjamin, a pochi giorni dal suo diciottesimo compleanno, arriva a Buenos Aires alla ricerca del fratello maggiore che non vede da anni. La sua non sarà una semplice ricerca fisica, ma soprattutto un'analisi intimistica all'interno della ambigua e schizofrenica personalità di Angelo, ormai divenuto Tetro (abbreviazione di Tetrocini, il loro cognome). Un poeta maledetto che vivacchia in un decaduto ambiente bohemién nel mitico quartiere di La Boca, cuore pulsante della cultura argentina negli anni '70, e che schiva il mondo esterno tenendo la sua opera incompleta e mai pubblicata, esternando il più classico dei patemi dell'artista.


L'incontro tra i due sarà una resa dei conti, il duello risolutivo di un percorso che attinge tanto alla tragedia greca e al teatro classico. Il teatro, la scrittura, lo spirito bohemién che impregna i personaggi porgeranno a Coppola un palcoscenico ideale dove inscenare una pellicola magistralmente condotta, tra un presente indefinito e i flashback che ben introducono la figura del padre-padrone , e a tratti addirittura sorprendente dal punto di vista visivo, attraverso l'uso di un bel bianco e nero e di uno straordinario e straziatissimo Vincent Gallo nei panni, davvero giusti per uno come lui, di Tetro. Su tutti sempre impeccabile il montaggio dell'inseparabile Walter Murch, due volte premio Oscar (“Apocalypse Now” e “Il paziente inglese”), che dimostra ancora una volta, dopo “L'altra giovinezza”, di aver digerito meglio di molti altri il cambio della guardia tra analogico e digitale.


Un po' romanzo di formazione, ci sono tutte le classiche figure come quella del 17enne vergine americano impacciato 'svezzato' da un procace ragazza argentina e sua zia (vedi “The dreamers”), un po' crocevia dell'artista incompiuto di mezz'età, “Segreti di famiglia” è senza dubbio un film potente, epico, che naviga tra il surreale e il reale, in una dimensione senza tempo. Un Coppola rinnovato ritorna protagonista di un cinema maestoso, fatto di immagini e di grandi sentimenti.

lunedì 2 novembre 2009

La sezione Extra del Festival di Roma presenta "Human comedy in Tokyo"

"Human comedy in Tokyo" è un affresco delicato, con picchi struggenti, sulla situazione femminile della capitale nipponica. Il regista utilizza un registro tipico della cinemtografica orientale, inchiodando il concetto di fondo sui musi lunghi dei protagonisti. Tra momenti bloccati e brevi accelerazioni anche spiritose, Koji Fukada porta per mano lo spettatore attraverso tre episodi tutti collegati tra loro da un dettaglio, l'ultimo dei quali si porrà come momento risolutore delle intere tensioni e ambizioni dei primi due.

La città, perlopiù la sua periferia residenziale, viene percorsa con occhio distratto, raccontata dai dettagli ma anche dal corpo narrativo. Sarà infatti lo specchio delle varie solitudini che vi si muoveranno, come anime che ripetono una danza solitaria anelando lo sguardo e l'interesse altrui.

Ed infatti "Human comedy in Tokyo" vuole prima di tutto raccontare le persone sole che compongono per la maggior parte il tessuto sociale di una megalopoli vorticosa come Tokyo, gli amori non corrisposti, quelli mendaci, le amicizie false e i rapporti di una serata.

L'esperimento coraggiosamente presentato dai bravi selezionatori di Extra è un prodotto dallo scarso appeal commerciale, sia per durata, quasi due ore e mezza, che per cifra stilistica. Un film che difficilmente riuscirà ad essere visto in Italia, e che, pur se visto, accoglierebbe pochi adepti.

Il Festival si chiude con Sotto il Celio Azzurro, il (multi)colorato documentario di Edoardo Winspeare

Il documentario "Sotto il Celio azzurro" ha chiuso questa quarta edizione del Festival romano. Una chiusura dedicata al piccolo fenomeno sociologico che è questo asilo, il Celio Azzurro. Un luogo quasi idilliaco dove dei maestri anticonvenzionali crescono figli di immigrati, di coppie miste e anche di italiani, un luogo dove non esistono classi, non esistono banchi o registri. L'insegnamento è qualcosa di più profondo, viscerale, al Celio azzurro si permette ai bambini di scoprire in primis loro stessi, per poi potersi confrontare serenamente con i compagni che arrivano da tutto il mondo.

Edoardo Winspeare torna al documentario con un affresco che trasuda umanità e voglia di vivere sin dalle primissime battute, le continue 'lezioni' fatte di giochi e scherzi sono un modello sorprendente di integrazione ed accettazione del diverso. Tutti quelli che vi lavorano sono i primi ad essere perfettamente integrati con gli alunni, ma soprattutto con i genitori, infatti il lavoro che si fa è prima di tutto con loro, i quali saranno parte fondamentale, quasi grimaldelli, del percorso dei bambini. Un'educazione-gioco che inizierà per i ragazzini la mattina quando svegli e finirà prima di addormentarsi.

Romania, Marocco, Senegal, Armenia, Perù si ritroveranno in questo piccolissimo angolo di mondo al centro di Roma. Un angolo dimenticato dalle istituzioni, che oggi combatte con i tagli che la riforma ha sancito, lottando continuamente con la mancanza di fondi e con le falle strutturali dell'edificio che rendono tutto più difficile.

Il percorso di Winspeare incapperà anche nelle forti personalità degli educatori-maestri, che verranno descritti con epica ammirazione, dotando le personalità di questi di un'aura che emana incessantemente una poetica consapevolezza dell'altro. E durante questa splendida strada che è "Sotto il Celio Azzurro" il documentario saprà divertire, più del previsto, il pubblico. Si perde subito il conto dei momenti spassosi che, un po' i ragazzini, un po' gli educatori, grazie alle ottime scelte di Winspeare, metteranno su. Gli occhioni di bambini spaventati dai giochi, o forse storditi da questo tsunami di vitalità che l'asilo è per le loro giovani esistenze, i giochi spensierati di uomini di mezz'età che hanno dedicato anima e corpo alla causa, avranno stabile lo sfondo di una società incosciente, dove esperimenti come questo vengono accantonati più per paura di una perfezione assoluta e sospetta che per cause realmente esistite.

Il documentario del regista pugliese è un urlo di vita che infrange i sottili vetri di una società ancora ibrida e poco multiculturale nel proprio animo, una pennellata d'arcobaleno nel nuvoloso momento tutto italiano, dove le tensioni tra le comunità religioso-razziali continuano a seminare ignoranza ed incultura.

Ecco i vincitori del Festival di Roma: Brotherhood e Giorgio Diritti fanno il pienone, per le interpretazioni premi per Helen Mirren e Castellitto


Si è chiusa la quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma con il trionfo, meritato, di "Brotherhood", coraggioso film danese che racconta con garbo la storia d'amore omosessuale nata curiosamente all'interno di un gruppo di movimento neonazista. Una pellicola che taglia in due un argomento difficile, all'interno di un registro formale impeccabile. La Giuria del Festival fa pieno centro, e sceglie il migliore tra quelli in concorso.

Il regista svela anche un curioso retroscena: "Abbiamo avuto tutti molta paura mentre giravamo il film, perchè in quei territori la presenza neonazista è molto forte".

Il pubblico invece ha dato la propria preferenza a "L'uomo che verrà" di Giorgio Diritti, che si è aggiudicato anche il Marco Aurelio d'Argento della Giuria. Il film racconta con toni realistici la strage di Marzabotto nel '43. Il regista dice: "Spero che questa vittoria dia un segnale importante, e sia un buon auspicio per il futuro del cinema italiano, è davvero bello quando c'è uno scambio del genere con il pubblico e si regsitra un tale apprezzamento ".

Ad aggiudicarsi invece il premio come Miglior Attore , il Marco Aurelio d'Argento, è, senza sorprese, il profondo Sergio Castellitto di "Alza la testa" nei panni di un padre single che ne passa di tutti i colori, la migliore interprete invece è stata l'irreprensibile Helen Mirren per "The last sation" di Michael Hoffman.
L'interprete italiano ha commentato così: "Ogni premio è un dono, ma anche un'arma a doppio taglio: una gratificazione e una responsabilità a far sempre bene, se non meglio. Spero vivamente che questo premio porti fortuna a questo film, che uscirà il 6 novembre ed intorno al quale c'è già grande attesa. Ora scappo in Toscana dove sto girando un film in cui sono attore e regista, una divertentissima commedia con Laura Morante, Barbara Bobulova e il ritorno del mitico Enzo Iannacci".

Infine alla mitica Meryl Streep, protagonista indiscussa della premiazione e di questa intera edizione, il già annunciato Marco Aurelio alla Carriera. La sessentenne attrice statunitense ha ringraziato commossa il Festival e la città.

Gli altri premi:

- Marco Aurelio d'Argento al miglior documentario della sezione L'altro cinema I Extra: "Sons of Cuba" di Andrew Lang
- Marco Aurelio Alice nela città: "Vegas" di Gunnar Vikene.

Intervista ai Fratelli Coen - A Roma per presentare A serious man


Nell'ultimo giorno di Festival a Roma arriva la coppia di fratelli registi più amata d'America. I Coen. Presentano il film Fuori Concorso "A serious man", ambientato nella comunità ebraica del Minnesota negli anni ‘60. Tutto questo riporta subito alla mente le origini dei Coen: "Abbiamo girato il film proprio nei posti in cui siamo cresciuti - dice Ethan - ma nonostante questo nella storia non c'è nulla di autobiografico. È tutta finzione".

E proprio sulle origini ebraiche dei Fratelli verterà tutta la conferenza, molto sottotono. I soliti ‘noti' partono all'attacco in maniera assurda chiedendo ai registi cosa pensassero sul Professore della Sapienza, Antonio Caracciolo, che porta avanti le proprie teorie negazioniste riguardo l'olocausto attraverso le sue lezioni ed il suo blog. Ethan, giustamente sorpreso, risponde così: "Mi sembra una cosa molto strana, soprattutto per accadere in un contesto accademico. Però a dire la verità non saprei proprio cosa rispondere, perché non c'entra davvero nulla col nostro film".

La conferenza continua a battere il ferro, ormai caldo, sulla questione ebraica: "La comunità ebraica - dice Joel - è stata molto importante per il film, ne ha segnato proprio la genesi, volevamo fare un film su di un'epoca ben precisa e in un contesto ben delineato. Per fare questo avevamo chiaro in mente la comunità dove siamo cresciuti negli anni '60 nel Midwest".
E proprio tale rappresentazione genera momenti esilaranti all'interno di "A serious man", situazioni forse realmente vissute dagli autori, Joel racconta: "Ci siamo sempre ispirati a qualcuno che abbiamo conosciuto, li abbiamo messi tutti insieme e abbiamo creato degli ibridi. A dir la verità non è questo l'unico film in cui l'abbiamo fatto, abbiamo tratto ispirazioni da persone conosciute tutta la nostra carriera".

Un tale ‘accanimento' cinematografico verso una comunità così potente e così caratterizzata come quella ebraica degli Stati Uniti potrebbe far storcere il naso a più di qualcuno: "Negli Stati Uniti - dice ancora Joel - la comunità ebraica è molto sensibile sul modo in cui viene descritta dai media. Però la maggior parte delle reazioni da parte loro è stata positiva. Comunque è impossibile, quando racconti una comunità, non creare qualche malcontento".
Ethan interviene: "E' anche vero che la comunità più radicale degli ebrei ortodossi non va al cinema e quindi non può esprimersi".

Nel film vi sono molti attori locali, è una caratteristica che ritorna nella filmografia dei fratelli Coen: "In questo film - ancora Joel - molti attori sono di Minneapolis, e quindi attori prettamente locali. Ad esempio però Michael Stuhlbarg è cresciuto in California e vive a New York. Quindi lo definirei un bel mix tra attori locali e non. Michael è stato molto bravo perché ha immediatamente capito le differenze che ci sono tra la cultura ebraica del Midwest e quella che caratterizza la comunità sulle coste degli Usa".

In conclusione i fratelli vengono interrogati sulla natura prima della loro opera, sulla categoria alla quale vorrebbe appartenere, Ethan non vuole differenziazioni tra ‘tragedy or comedy': "Non abbiamo mai pensato in questa maniera, qui si cerca semplicemente di essere veritieri e di raccontare la storia che volevamo raccontare. Sta poi allo spettatore e alla gente avere le reazioni che vuole".

Emitt Rhodes e la sua leggenda in "The One man Beatles", sorprendente mockumentary italiano


Un giovane ragazzo italiano, Cosimo Messeri, dopo essere inciampato quasi per caso in un vinile d’epoca, s’innamora della musica di Emitt Rhodes. E chi è? Verrebbe da chiedersi. Domanda lecita a cui il documentario risponde alla grande.

È un musicista californiano, col pallino per il pop britannico, che ha mosso i primi passi come leader dei Merry-Go-Round, per poi diventare un solista di successo sparito completamente dalla circolazione nel ’75. Una sparizione quantomeno misteriosa, il suo era un talento di ferro, la musica la mission di un’esistenza.

Tutto questo ha contribuito ad offuscare la leggendaria immagine di un uomo il cui timbro di voce era pressoché identico a quello di McCartney, portando anche qualcuno a giurare sul fatto che la musica di Rhodes altro non fosse che materiale extra dell’opera dei quattro scarafaggi di Liverpool. Una leggenda che ha preceduto la sua musica, ormai molti pensavano non fosse mai esistito. Ma il suo talento era cristallino. Voce angelica e una poliedricità da multistrumentista, suonava ogni singolo strumento nei pezzi che registrava, da qui il titolo (forse un po' ammiccante) del documentario.

Il documentario presentato al Festival è un’opera di un’oretta che sorprende per la capacità di raccontare l’umanità di un personaggio così singolare, muovendosi con dimestichezza tra toni scanzonati e occhiate più intimiste. Tra l’impalpabile mistero della sua scomparsa dalle scene e lo sguardo rarefatto di un orso ormai innocuo. Lo svolgersi di “The One man Beatles” seguirà il percorso curioso dell’esistenza di Emitt, regalandocelo ormai maturo profeta di un karma musicale che lui sembra aver sfiorato tutta la vita, senza riuscire mai ad afferrarlo tra le dita tenendoselo stretto.

Le immagini girate dal giovane cineasta, tra interviste agli ‘amici’ di ieri e di oggi dell’artista ed eccezionali pillole del Rhodes odierno, si fonderanno visceralmente con le tracce del cantante e con le immagini di repertorio, una chicca a proposito la performance nello show di Sir David Frost. Una strada che ricorda tanto quella battuta, con le dovute proporzioni, dal James Mash di “Man on wire”, due uomini, Philippe Petit e Emitt Rhodes, che hanno vissuto fondamentalmente contro il sistema, ai margini di una socialità mai realmente accettata dalle loro anime eteree.

“The One man Beatles” è un rilassato omaggio alla musica, al purismo oltranzista di uno che ha assaporato la fama senza rimanerne invischiato. Il finale del mockumentary si potrebbe facilmente riassumere in una frase di Checov: “Mi prenda con sé... Il nostro tempo fugge, non siamo più giovani. Che almeno alla Fine della vita non sia necessario nascondersi né mentire... ho cinquantacinque anni, è ormai tardi per cambiar vita” , o forse no?

MP News incontra Giorgio Diritti, Alba Rohrwacher e Maya Sansa per "L'uomo che verrà"


Giorgio Diritti ed il cast del suo film "L'uomo che verrà" hanno presentato al Festival Internazionale del Film di Roma un'opera intensa e realistica sulla strage di Marzabotto.

(al regista) Come mai la scelta di girare in dialetto? Non pensa che possa essere una difficoltà per la diffusione del film?

Giorgio Diritti: "La mia scelta di girare in bolognese antico rientra in una logica generale di creare un forte coinvolgimento e un realismo tale da riportare lo spettatore direttamente a quell'epoca. Infatti ci siamo ben presto accorti che il dialetto bolognese attuale richiamava troppo gli anni '70 e i camionisti e perciò aveva una valenza nettamente diversa dalla situazione sui monti nel 1943, e allora abbiamo giocato la carta del bolognese antico. Devo dire che tutti gli attori sono stati bravissimi, infatti li ho incontrati due settimane prima di iniziare a girare e mi hanno dato tutti il loro assenso. Trovo che l'uso del dialetto ci aiuti a fare un salto indietro nel tempo, si rida un sapore e un suono che gli italiani hanno perso".

Il film ha un forte impatto visivo. Come ci siete arrivati?

Giorgio Diritti: "Il lavoro visivo che abbiamo fatto ha diverse fonti. È nato in primis dalle fotografie in b/n di quell'epoca. Poi ci siamo riferiti anche ad una serie di foto a colori fatte dai soldati americani. Infine c'è stata un'osservazione della produzione artistica relativa alla campagna nell'800-900. Tutti questi elementi infine si sono fusi ed ho usato il mio istinto per le inquadrature". Che ricerca storica è stata fatta? Giorgio Diritti: "Abbiamo fatto una ricerca soprattutto sulla realtà dei fatti. Mi hanno descritto quei ragazzi nazisti, ed erano tutti molto giovani, ciò testimonia che erano persone nate e cresciute sotto il regime nazista. Formate quindi in un certo modo, erano per educazione portati a considerare i diversi, gli italiani in questo caso, come una sottospecie, come fossero subumani. Per loro non faceva differenza uccidere una mucca, una donna o un topo. Il film ha delle basi storiche molto attente. Poi ho cercato di non cadere negli stereotipi, le cose che raccontiamo sono tutte più o meno accadute, quel che m'interessava maggiormente era raccontare la drammaticità di uomini che ne uccidono altri con quella estrema naturalezza".

Nel film i partigiani vengono chiamati ribelli, perché questa scelta?

Giorgio Diritti: "Ribelli era il normale modo di definire chi era contro i fascisti e contro i tedeschi. Di chi quindi non ci stava e si ribellava al regime. Sostanzialmente era un termine gergale senza un peso politico importante".

Che distribuzione avrà il film?

Giorgio Diritti: "Sarà distribuito da Mikado (uscirà il 29 gennaio n.d.r.) e ovviamente c'è un progetto specifico legato alle proiezioni per le scuole. I sopravvissuti invece ancora non hanno visto il film, ci saranno delle proiezioni sul territorio, lì certamente ci sarà una cura particolare. Poi Intramovies è il nostro venditore per l'estero ed ha già riscontrato degli interessi".

(alle attrici) Raccontateci la vostra trasformazione in contadine di quegli anni.

Alba Rohrwacher: "La prima cosa che mi ha spinto è stata la fiducia che Giorgio ha avuto in noi. Aveva visto in noi una capacità di fusione con le facce che aveva scelto. Poi ovviamente nello specifico c'è stato un grande lavoro con i costumi, il trucco e con i capelli, che aiuta un attore a diventare altro da sé. Io e Maya ci siamo mischiate bene con le persone con cui abbiamo lavorato, volevamo soprattutto unirci a loro per raccontare una storia che sentivamo la necessità fosse raccontata".

Maya Sansa: "Oltre a quello che ha detto Alba c'è stato un grande lavoro dei costumisti, dei truccatori e della parrucchiera, sono stati molto attenti a riprodurre quell'aspetto, riportando anche quella sporcizia, che non era un'assenza di igiene, ma una vera e propria mancanza di condizioni. Poi anche i vestiti erano fuori misura e un po' arrangiati, perché ai tempi ce li si passava da madre in figlia. Inoltre il luogo dove abitavamo durante la lavorazione, che era un agriturismo, è stato molto importante per creare gruppo e poi lì c'era questa donna che ci ha insegnato a fare il pane, lei lavorava tutto il giorno tra i campi e la cucina. Ci ha trasmesso una grande energia di donna lavoratrice".

mercoledì 28 ottobre 2009

Recensione L'uomo che verrà


Giorgio Diritti porta al Festival del Cinema di Roma un film che racconta la strage di Marzabotto, un massacro senza precedenti perpetrato dalle SS il 29 settembre 1944 che portò alla cruenta uccisione di 770 tra donne, contadini e bambini.

Il film del regista del sorprendente "Il vento fa il suo giro" vuole essere un racconto delle umanità interrotte, di una serie di barbarie sconsiderate e senza freni. Il cineasta bolognese conferma le sue qualità, costruendo un film che parla al pubblico attraverso il paesaggio e le facce di chi da quel paesaggio dipende, accantonando facili trappoloni da film storico o bellico.

Un'opera che guarda al realismo, un'opera interamente recitata nell'antico dialetto bolognese, ormai in disuso, per scaraventarci alle condizioni di fame e ignoranza di quegli anni lì e soprattutto di quel momento storico. Per rendere il tutto ancor più scarno ed efficace Diritti filtra il suo racconto attraverso gli occhioni di Martina, ragazzina muta, o che non vuole parlare, che curiosa continuamente il mondo che la circonda, trovandosi di volta in volta di fronte ad immagini raccapriccianti ed insostenibili.

"L'uomo che verrà" è però figlioccio di tanto materiale con il quale cinema italiano si è già troppe volte confrontato, ha un suo sguardo se vogliamo più intimista ed asciutto, anche se nel finale alza troppo i toni, ma non riesce comunque a colpire nel segno.
Un buon prodotto quindi, delicato, ben condotto e coerente, ma nulla di più. Si aggiudica comunque la palma del migliore degli italiani in concorso, non che ci volesse un granchè a sbaragliare lo sparring partner "Viola di mare" e lo sprecato "Alza la testa".

Alcune scelte resteranno fisse nella mente di chi lo vedrà, vedi il dialetto, le ambientazioni e le facce che calzano a pennello con i due elementi precedenti, resta però lo sconcerto per la scelta fatta a monte dal regista di imbarcarsi in un progetto così didattico che più di tanto non avrebbe potuto dare.

VOTO 65/100

Castellitto e Angelini presentano Alza la testa al Festival di Roma


Alessandro Angelini torna alla manifestazione romana dopo aver portato nel 2006 "L'aria salata". Ritorna il tema padre - figlio, ma questo è solo un punto di partenza perchè il film è ben più complesso: "E' vero che anche qui ricorre la tematica padre-figlio, ma qui l'ho solamente usata come uno spunto per raccontare meglio la storia di Mero, un percorso sinuoso ed anarchico che è la storia del film".
Il regista ci tiene infatti a sottolineare che la tortuosa via che il film imbocca è voluta: "Non volevamo fare un film lineare, un film che seguisse un percorso canonico. Volevamo raccontare la vita così com'è, dai mille volti e dalle insidie onnipresenti. Per questo la pellicola parte come una commedia sgangherata, poi diventa romanzo di formazione, poi un film dai toni altamente drammatici, per sfociare all'ultimo in un finale liberatorio".

Anche Sergio Castellitto, inteprete favoloso del ruolo del protagonista Mero, ha sue idee forti sul film: "Alza la testa è un film molto semplice e paradossalmente anche molto popolare. Il mio personaggio è un operaio, che si trova abbandonato dalla moglie a dover crescere da solo un bambino. Un padre-madre forse troppo invasivo e troppo possessivo".
Castellito vuole sottolineare come il prorprio personaggio: "fa cose scorrette, ed è per questo che risulta simpatico. E' un animo basico il suo, è un razzista, ma il suo è un razzismo esclusivamente popolare, non è un razzismo che consegue da un ragionamento o da un bagaglio culturale. Si deve scontrare con gli extracomunitari tutti i giorni sul lavoro.
Proprio per queste qualità dei personaggi il nostro è un film che si attesta come una risposta studentesca a tutto quel cinema italiano inutile e autoreferenziale, quel cinema che si interessa più a guardare allo specchio che alla finestra aperta".