lunedì 16 febbraio 2009

Recensione: Questo piccolo grande amore


È San Valentino, e la Medusa ha deciso di ricordarcelo a modo suo, scagliando in sala “QPGA”, acronimo di quei versi della canzone di Claudio Baglioni (Questo piccolo grande amore) che tempo addietro fecero sospirare giovani generazioni d’innamoratini da prima volta.
L’esordio di Riccardo Donna, fino ad oggi artigiano della fiction patinata per mamma Rai, ricostruisce l’Italia degli anni ’70. I capelli lunghi, i pantaloni a zampa, l’amore libero, la rivoluzione culturale.
Giulia e Carlo vengono da quartieri diversi, ed hanno vite diverse. Liceale perbene e perfettina lei, universitario libertino lui. Quando s’incontrano cambia tutto, e il concept album di Baglioni del ’72 scrive la loro storia, passando per Portaportese, Piazza del Popolo e la stazione Termini, laddove si consuma la parabola del loro menage.
Un’ennesima prova d’immaturità per il cinema italiano, un film che prende tutto quel che può da “Across the universe” di Julie Taymor, non sapendone cogliere, tralasciando l’impietoso accostamento musicale, il reale valore: il saper contestualizzare l’opera dei Beatles, reinterpretandola in lungo e in largo. Invece il Baglioni di QPGA è ancor più banale dell’originale, se possibile, le atmosfere sanno di primo bacio rubato a13 anni, sanno dell’amore impossibile e maledetto, che poi impossibile non sarebbe nella realtà, visto e rivisto.
Ogni tassello del puzzle è un passo nel baratro, l’ambientazione, la sceneggiatura, i personaggi, tutto è preconfezionato. Eppure il marchio è lo stesso del primo “Notte prima degli esami”, che, senza bisogno che ci si strappino i capelli per gli elogi, risulta incredibilmente meglio congegnato, e riporta in quegli anni ’80 con uno spirito sanamente nostalgico, giocando meglio con musiche e storia.
Anche le facce a cui Donna si affida, gli esordienti Mary Petruolo e Emanuele Bosi, risultano troppo standardizzate e pulitine, meglio sarebbe stato sporcare di più i personaggi, ed evitare quel sapore da spot che glassa la pellicola, e che, ahinoi, intraprende il suo crescendo nella primissima scena.
Un film affrettato, banale, privo di ironia, iperglicemico ed indigeribile. Forse i teen-ager più sensibili potranno ritrovare le loro idealizzazioni sullo schermo, e rivivere la fugace emozione della prima volta, della corsa in motorino con l’amata, della gelosia che ti chiude lo stomaco. Ma sorge qualche dubbio anche in merito vista l’epoca, d’altronde Baglioni non può più avere la stessa presa di un tempo.
VOTO 40/100

lunedì 2 febbraio 2009

Recensione: Operazione Valchiria


Verso la fine del conflitto mondiale il Colonnello dell’esercito nazista Claus von Stauffenberg, di servizio in Nord Africa, rimane ferito gravemente ed abbandona il fronte. Di ritorno a Berlino la sfida più importante della sua esistenza è lì ad aspettarlo: prenderà infatti parte, diventandone ben presto il perno, ad un attentato alla vita del cancelliere tedesco.
“Mi trovo circondato da uomini che non vogliono, o non sono capaci, di affrontare la realtà: Hitler non è solo il peggior nemico del mondo intero, ma il peggior nemico della Germania”.
Da sempre la massa dell’opinione pubblica internazionale si è chiesta come avesse fatto la popolazione tedesca a sopportare Hitler e la sua nefasta dittatura che ha fatto sì che la Germania si inimicasse il mondo intero. Come avesse fatto un popolo intero a permettere tutto questo. “Operazione Valchiria” è lì per dire che questo in realtà non successe mai, che in primis gli alti ranghi dell’esercito covavano malumori mai realmente soffocati.
La storia di uno dei tanti attentati che il Fuhrer subì è qui riportata con modesta solerzia storica, ma con una buona conduzione generale della pellicola. Il Bryan Singer che firmò, prima di crogiolarsi nelle rendite ultramilionarie come regista di cinefumetti Marvel con “X-Men”, quel “I soliti sospetti” che ha lasciato un ottimo ricordo in tutti quelli che, dal 1995 ad oggi, lo hanno visto, evidenzia oggi una regia salda e matura, sviscerando all’interno di un impianto classico la discesa-ascesa-discesa di un personaggio dal forte tasso di eroismo. Classicismo ed eroismo allora saranno i vessilli di un film che trova nel solito Tom Cruise, carismatico ma mai del tutto convincente, un personaggio in fin dei conti mal investigato, semplicemente messo lì a fare ciò che deve, senza troppe indagini introspettive a renderlo vicino allo spettatore o a rendere lo spettatore stesso partecipe della parabola narrativa che viene intrapresa. Il complotto, l’attentato, la fugace gloria, il baratro.
Il limite sta nell’eccessivo inscatolamento predefinito d’ogni personaggio, pedina di un thriller comunque dotato d’impatto, ma assolutamente anemico dal lato della verve stilistica e della ricerca cinematografica. Il classicismo formale e narrativo lo si sarebbe potuto, anzi dovuto, metter al servizio di un canovaccio meglio strutturato.
Le sequenze concitate dell’attentato godono di un gran piglio sul grande schermo, ma sembrano essere uno dei pochi picchi, soprattutto perché un pressoché impalpabile approfondimento delle motivazioni e del substrato culturale da cui prendeva linfa il movimento finisce per dare la sensazione di star davanti a un’azione cinematografica avventata e d’intrattenimento, perlopiù nei confronti di un Hitler qui quantomai tipicizzato e macchiettistico. Anche allora il semplificato ‘platonico’ duello personale tra von Stauffenberg e il Fuhrer perde di tutta quella veemenza drammaturgica che avrebbe meritato.
A conti fatti ci si trova davanti ad un’opera che porta con sé un esclusivo valore d’intrattenimento di stampo classico, distorcendo anche la storia che vorrebbe raccontare e portare alla massa, restando nel limbo dei film riusciti a metà su cui però ci si sarebbero potuti spendere sforzi, soprattutto nella sceneggiatura, meglio mirati. Una visione è consigliata,lo schermo attaccherà il pubblico alla poltrona, in attesa di conoscere il finale, ma di certo tutto cadrà ben presto nel dimenticatoio.
VOTO 61/100