sabato 29 novembre 2008

Intervista ad Oliver Stone per W.


Oliver Stone ha presentato a Torino il suo ultimo e controverso lavoro, “W.”. Una parodia ragionata sul Presidente degli Stati Uniti dal gradimento popolare più basso della storia, ma che non bisogna dimenticare che è stato comunque eletto due volte, che ha trovato dappertutto un muro distributivo dovuto alla troppa vena politica e all’impellente ed onerosa attualità del tema.
Fare un film sul Presidente in carica è stato problematico, sia per la figura controversa del
Presidente stesso, sia per la situazione politica che tendeva a mutare in continuazione.
Stone ci descrive le difficoltà nel fare un film su Bush: “Durante le riprese poteva verificarsi un attacco terroristico oppure gli Stati Uniti, come effettivamente avevano intenzione di fare, avrebbero potuto dichiarare guerra all’Iran. Poi il crollo dell’economia ha smorzato i toni dell’amministrazione Bush, che ha dovuto rivedere i propri piani, e ha danneggiato McCain che i sondaggi davano in vantaggio prima del 16 settembre”.
Come si diceva “W.” è una pellicola che porta con sé grandi problemi legati alla distribuzione: “In America il film è stato accolto abbastanza bene ma la crisi economica forse ci ha in parte
danneggiato perché è diventata protagonista dell’attualità americana più del Presidente
stesso. Per gli americani Bush è «morto» il 16 settembre. Tuttavia, nutro grandi speranze
per il film di ottenere dei riconoscimenti e di avere una vita lunga oltre alle proiezioni nelle
sale. Credo che possa essere ben apprezzato anche in Europa dove Bush non è mai stato
molto amato. Per quanto riguarda la distribuzione italiana del film, è probabile che verrà acquistato da una casa di distribuzione piccola, indipendente e molto forte che crede profondamente nel
film. E nonostante in Italia l’amore per il cinema non si traduca più in una visione nelle
sale, il film potrà comunque continuare a vivere in DVD o essere trasmesso da qualche
emittente”.
Josh Brolin si è caricato onori ed oneri di interpretare il ruolo di Bush, Oliver Stone ci racconta le singolari motivazioni della scelta: “Josh Brolin è un meraviglioso caratterista che nel 2007, grazie in particolare a Non è un paese per vecchi è riuscito a far conoscere le sue doti. Fino a quel momento non riusciva a sfondare a Hollywood, per questo ho riscontrato un’analogia col Presidente perchè a 40 anni entrambi avevano fallito, l’uno come attore, l’altro come politico, presidente di una squadra di baseball e uomo d’affari. Un’altra analogia era la figura ingombrante del padre,
un famoso attore sposato con Barbra Streisand. Brolin inizialmente si è quasi risentito di
queste analogie ma io gli ho proposto immediatamente il ruolo perchè vedevo in lui un
atteggiamento texano che si è manifestato nell’accento ben costruito e nella camminata. È
una sorta di cow-boy alla John Wayne. Abbiamo girato il film in sequenza cronologica per seguire i cambiamenti nella vita di Bush. Nello scegliere il cast abbiamo pensato ad attori che non avessero somiglianze fisiche con i reali personaggi ma che potessero in qualche modo sentirsi quei personaggi”.
Vedremo come e dove verrà distribuito questo film che, per onestà intellettuale, dovrebbe esser visto, criticato e discusso in tutto il mondo.

Incontro con Roman Polanski



Il regista, intervistato da Nanni Moretti, parla del suo cinema, in occasione della retrospettiva dedicatagli al Torino Film Fest


A Roman Polansky è stata dedicata un’intera retrospettiva, che ha ripercorso la sua intera militanza di filmaker, dall’esordio nel ’51 con “Morderstow” per arrivare all’ultimo cortometraggio “Chacun son cinéma” del 2007. Uno spostamento, dall’essere europeo e americano al contempo, che ha caratterizzato il suo cinema, attraversato dallo smarrimento e dall’angoscia di non poterne uscire mai.
Nella chiacchierata a 360° con Nanni Moretti Polanski ammette di aver molto amato il nostro cinema, ma di esser sconcertato sul momento attuale: “Mi ricordo che da studente aspettavo con ansia il film successivo di De Sica o Rossellini mentre negli anni ’60 seguivo i giovani registi italiani (Pasolini, Olmi, Bellocchio, Bertolucci, De Seta) sia come collega sia come spettatore. Mi chiedo cosa sia successo al vostro cinema dopo. Sarà colpa della televisione”.
Ma anche per la Nouvelle Vague francese ha una parola dura: “I film della Nouvelle Vague sono spesso inguardabili. A parte forse Truffaut”. Il suo approccio singolare al cinema ha fatto sì che spesso i suoi film, pur avendo avuto gran successo, non siano stati interpretati come lui se lo aspettava: “Spesso scopro cose del tutto inaspettate o che non avevo immaginato. Specialmente riguardo alla comicità. A volte il pubblico ride senza che io ne capisca il motivo o invece non sembra divertirsi in momenti che per me sono comici. A volte. Per esempio per me L’inquilino del terzo piano era un film comico, ma il pubblico l’ha inteso diversamente”.
La retrospettiva, fortemente voluta dal regista ossessionato dalla Sacher, è andata bene, attraversando l’intera manifestazione ha riscosso anche un discreto interesse del pubblico.

giovedì 27 novembre 2008

Recensione film: New Orleans mon amour (Fuori Concorso)


Il regista statunitense Michael Almereyda torna a Torino 11 anni dopo aver presentato il suo corto “The Rocking Horse winner”, con un lungometraggio che vuole omaggiare, cominciando dal titolo, quella che lui stesso definisce la sua seconda casa: “New Orleans mon amour”.
Girato in una condizione problematica per la città sul Mississipi, ovvero nel 2006, un solo anno dopo la tragedia di Katrina, il film racconta l’amore extraconiugale tra il Dr. Jekyll e la giovane Hyde, che si sono ritrovati, entrambi volontari, tornandosi ad amare dopo che l’uragano, oltre alle case e a tutto il resto, si era portato via anche il loro rapporto.
Tra realtà e finzione, la pellicola divide il proprio animus, velleità documentaristiche che tentano, riuscendoci a metà, di riportare una tersa istantanea della New Orleans convalescente e degli spettri che la abitano, e in questa desolazione la vicenda amorosa dei due risulta falsata e distorta. Il regista dimostra di essere un modesto narratore, la storia, scollata e ricucita a forza più volte, non ha il piglio che ci vorrebbe, lasciando affievolire anche la resa della sezione documentaristica.
Il voler offrire una personale trasposizione dell’amore, di coppia o universalistico, tentando al contempo di rendere giustizia ad un momento cupo della storia di una magnifica città, nella quale non ha smesso di pulsare vibrante il cuore nero del blues, è un’ambizione irraggiungibile da Almereyda. L’unica cosa che trova la giustizia cercata è il sentito omaggio alla città, della quale è tangibile l’affezione dell’autore. La passione per il cinema riversata qui è indubbia, a tratti ci si emoziona davvero, e alcune frazioni di “New Orleans mon amour” sono dei piccoli film, opposti tra loro, da spiantare ed ammirare.
In sostanza l’autore indipendente statunitense ha messo troppa carne al fuoco, dimostrando presto di non avere le corde e l’occhio per gestire il troppo materiale narrativo e cinematografico in cui si era imbarcato.
VOTO 56/100

mercoledì 26 novembre 2008

Recensione film: Wendy and Lucy (Fuori Concorso)


Wendy è diretta in cerca di fortuna in Alaska, una macchina, il suo adorato cane Lucy ed uno zaino carico gli unici residui della sua vecchia vita. Fermatasi per la notte in una cittadina dell’Oregon, la scomparsa all’indomani dell’adorata Lucy avvierà un processo di smarrimento interiore alla protagonista, che tra le disperate ricerche del cane scaverà silenziosamente al proprio interno.
La regista di Miami Kelly Reichardt utilizza un registro scarno, puntando tutto, o quasi, sull’interpretazione di Michelle Williams, conosciuta ai più per la serie tv “Dawson’s Creek” e per esser stata moglie dello scomparso Heath Ledger. L’attrice non delude, sono i suoi occhi e le sue espressioni a restituire al pubblico le sensazioni predominanti dello script, solitudine, angoscia, disorientamento. La troviamo qui trasformata ancora, l’adolescente pienezza di “Dawson’s Creek” e i capricciosi panni da superdiva di “Io non sono qui” di Todd Haynes sono lontani, vestita in modo sciatto, porta un caschetto bruno che la fa somigliare ad un uomo, anche per disilludere le fastidiose avances che avrebbe potuto incontrare nel suo viaggio verso l’Alaska.
“Wendy and Lucy” è un film che, pur dicendo poco con le voci, mette in questione innumerevoli aspetti dell’esistenza umana: la voglia di mettersi alle spalle un passato che la storia non concede allo spettatore, l’amore per un cane, simbolo di un affetto disinteressato e fanciullescamente irrinunciabile, il mettersi in viaggio verso il nord, in un modus che ricorda tanto l’epopea del Supertramp di “Into the wild”. E come nel film di Sean Penn la nostra girovaga incontrerà un anziano che le darà aiuto, senza chieder mai nulla in cambio, personaggio, o deus ex machina, che riporterà Wendy a fidarsi della natura umana, sciogliendo quella contrattura sociale che i suoi sguardi nei confronti del prossimo sembrano palesare. I magnifici luoghi e le musiche di Eddie Vedder che tanto e bene hanno contribuito alla riuscita di “Into the wild” sono qui assenti, ma l’ottimo lavoro di sceneggiatura ha riportato appieno nell’immaginario comune le sensazioni di una vita, e di un film, itinerante. La città dell’Oregon è essenzialmente tappa di un qualcosa di più grande, che parte da lontano per arrivare lontanissimo, le emozioni di una vita da scoprire come quella di Wendy magnificano la visione.
Lodabile il buongusto della sceneggiatura di affrontare con garbo il rapporto cane-padrone, l’animale sarà in video per non più di un quarto d’ora, e questo lascerà campo alla narrazione di un sentimento quanto mai misterioso ed empatico.
Un buon lavoro di cinema indipendente americano, che descrive sensazioni contrastanti senza parlarsi mai addosso, senza ammiccare mai, senza fare della facile demagogia cinematografica.
VOTO 75/100

Recensione film: Bitter and twisted (Torino 26)


Liam è scomparso prematuramente, lasciando una fidanzata ed una famiglia numerosa. La dipartita del giovane avvierà un meccanismo diabolicamente ben congegnato, stravolgendo le vite delle persone più care che però, attraverso la gravosa rielaborazione del lutto, vivranno una metamorfosi necessaria che aprirà loro inaspettati spiragli vitali.
Giù il cappello per l’opera prima del 24enne Christopher Weekes, che interpreta (alla grande), dirige e scrive un lungometraggio incantevolmente ritmato, dimostrando una notevole nozione di cinema. Autori ben più rodati non sempre raggiungono il risultato prefisso, qui ci si trova davanti ad un film che vuole parlare della vita a chi la vita la vive tutti i giorni, soffermandosi sulle depressioni e sulle solitudini di un manipolo di personalità eccezionalmente descritte. Un cinema formalmente denso, costruito su di un’ottima colonna sonora e su di un’ammirevole varietà d’inquadrature, e che propone una coralità attoriale che rende tangibile il dinamismo di una sceneggiatura acuta, fiera dell’umorismo nero che la pungola.
L’autore si è visibilmente confrontato e riferito al cinema indie più blasonato, la vicinanza stilistica a registi come il primo Paul Thomas Anderson è palese.
L’istantanea che ne esce è quella di un’umanità disperata e sola, che si appiglia al prossimo per un’autoaffermazione sociale dovuta più che voluta. Esseri umani che, smarriti, ne cercano altri in cui smarrirsi. Il volto dell’amore, familiare o di coppia, assume un’espressione enigmatica ed inquietante, a tratti disarmante; la felicità rimane così null’altro che un compromesso, almeno fino a quando nel finale i personaggi non si guardano in faccia come forse non era mai successo prima.
“Bitter and twisted” punta dritto e non si distrae, pur essendo molto costruito e poco aggrappato al reale, non accentua le proprie astrusità come si verifica spesso in lavori del genere. Pur trovandosi in situazioni assurde ed assumendo atteggiamenti al confine del surreale i personaggi mantengono una loro dignità e credibilità, facendo sì che l’opera conservi fino in fondo la propria vigoria e non si specchi smodatamente.
VOTO 72/100

Recensione film: Momma's man (Torino 26)


Una dimensione temporale lunga e vorticosa la caratteristica essenziale del terzo lungometraggio di Azazel Jacobs, figlio di quel Ken Jacobs (che vediamo comparire nei panni del padre qui) che con i suoi lavori e il suo impegno nell’arte visiva ha dato un apporto notevole al movimento underground del cinema newyorkese.
“Momma’s man”, l’uomo di mamma, comunica un disagio preminente e totalizzante che paralizza il protagonista, che, tornato nella sua New York per motivi di lavoro, non riesce più a tornare alla sua nuova vita losangelina, in cui aleggiano le forti presenze e le onerose responsabilità di una moglie e di una figlia a carico.
Nel periodo in cui Mike, il cui nomignolo Mickey ostentato di continuo accentua la sfumatura infantilisitica del suo personaggio, resterà nella casa in cui è cresciuto, si configurerà in lui una personalità sorniona ed a tratti nostalgica, il bamboccione per scelta cercherà i vecchi amori e gli amici di un tempo, ma ben presto questo desiderio di ‘rimpatriate’ si trasformerà in un’immobile implosione intestina all’animo del personaggio. Disagio che rinchiuderà in casa Mickey, che lo porterà ad annullarsi e ad isolarsi in una scatola a chiusura stagna.
La forma visiva che Jacobs sceglie per esibire l’impianto narrativo della sua opera è senza filtro ed iperrealistica, al punto da ricavarne in qualche fotogramma un riscontro sullo schermo paradocumentaristico, al quale una direzione mai volutamente costruita o governata del cast da man forte in ogni singolo fotogramma.
L’ignoranza condivisa a più livelli delle motivazioni dei comportamenti del personaggio è resa eccezionalmente, in particolar modo perché la storia stessa non ne possiede gli strumenti di decodifica richiesti, pubblico e cinema si troveranno così a porsi la stessa domanda senza risposta data, in una rara tangenza che la settima arte avrà con chi ne fruisce.
Cinema incredibile per quanto significativo, forse non eccessivamente indagato laddove ci si sarebbero potute sporcare le mani un po’ di più, ma che nel complesso funziona, riportando fedelmente la sensazione universale della difficile relazione con gli altri, ma soprattutto con sé stessi, in quei momenti in cui ci si guarda allo specchio e si respinge l’accettazione dell’esistenza che si sta portando avanti, nascondendosi tra le rassicuranti braccia di una madre premurosa che forse sin dall’inizio ha compreso l’esigenza istintiva del figlio.
VOTO 76/100

Recensione film: We've never been to Venice (Torino 26)


La tendenza, quasi maniacale, con la quale la 26ma edizione di Torino sta sottoponendo all’occhio di pubblico e critica opere che ritrovano nella rielaborazione del lutto i loro leit motiv, trova, in questo breve (62’) film sloveno, il suo personalissimo momento più alto e significativo.
Ancora lutto e ricordo allora, ma inseriti in uno spirito di cinema encomiabile per coerenza ed asciuttezza. Personaggi muti che urlano con i gesti e con gli sguardi assenti, inquadrature fisse, colonna sonora timida e una cinetica della macchina da presa che non si mette mai in mostra, tutti tasselli di uno splendido mosaico per cinefili curiosi ed innamorati.
Quando il padre viene a trovare Grega e sua moglie Masha si respira subito l’aria pesante di un qualcosa di insostenibile accaduto da poco, a cui “We’ve never been to Venice” non fa mai esplicito riferimento. Proprio quest’epifania omessa, che lascia largo margine d’azione al non detto e al fuori campo, che viene anche utilizzato con senno in un paio di sequenze, contempla l’idea narrativa di un esordiente che proviene dal mondo del cortometraggio, risentendone positivamente l’influenza. Il lavoro di sottrazione, iniziato e portato a termine dall’autore, consente di sfruttare appieno la potenzialità del cinema, l’industria paroliera e logorroica è qua mortificata ed annichilita dall’affermazione dell’immagine-senso. Splendida messa in scena e composizione curata e mai ridondante sono l’ottimo surrogato di una sceneggiatura irrilevante, le relazioni dei personaggi prendono corpo in un altalenante susseguirsi di sensazioni contrastanti, lui e lei si attraggono e si respingono, non si parlano mai ma la sensazione è quella di averli sentiti discutere per ore, tanta e buona è la veemenza scenica che ne scaturisce.
La ricerca di una felicità possibile nella fuga dall’ambiente di riferimento, il viaggio in Sudamerica come cura di tutti i mali, elementi metaforici abusati e violentati dalla letteratura e dalla cinematografia internazionale, qui ritrovano una loro dignità, perché cercare altrove ciò che si può trovare accanto, se non dentro di noi? E allora la meta di una gita purificatoria sarà la vicina Venezia, dove anche l’ennesimo incontro metaforico con l’acqua, altro elemento con cui il regista gioca più volte, arricchirà il percorso dei personaggi.
Una nota lietissima, l’arte cinematografica sfruttata sino in fondo, che mostra le sue infinite potenzialità attraverso le quali la messa in scena può, di suo, scatenare riflessioni e trasmettere sensazioni. Un’immagine che produce senso, tra gesti abbozzati ed una trama che si spoglia pian piano, è una visione davvero riconciliante per chi ama il cinema e le sue varianti più minimaliste.
VOTO 78/100

martedì 25 novembre 2008

Recensione film: Prince of Broadway (Torino 26)


Lucky è un immigrato clandestino ghanese che si guadagna la pagnotta, ed anche qualcosa in più, vendendo merce firmata contraffatta a Broadway, New York. La sua vita sembra scorrere fluida, tra droghe, vestiti alla moda e una donna che, a modo suo, ama, fino a che una sua ex di origine portoricana gli recapita un pacco a dir poco oneroso: un bambino. Non avendo la sicurezza della paternità, vista anche la carnagione chiara, Lucky prende comunque con sé il bimbo, e quella che doveva essere una convivenza temporanea finirà per diventare qualcosa di più, che cambierà radicalmente l’intera esistenza del protagonista. Il regista e sceneggiatore Sean Baker, 37enne newyorkese, al suo terzo lungometraggio dopo “Four letter words” (2000) e “Take out” (2004), torna a porre l’accento su New York, e sull’intricato tessuto etnico-sociale che la compone. L’aggressività urbana tipica della Grande Mela non perde colpi dietro la macchina da presa, quasi perennemente a spalla, del cineasta, anzi. Sequenze caotiche e un montaggio frazionato, forse troppo nel complesso, filtrate dall’occhio di un’innocenza infantile, tutte sensazioni sgraffignate da una vivida realtà mediante la selezione di una cifra radicalmente naturalistica. Un’aderenza alla realtà che affibbia credibilità ad una pellicola che, altrimenti, avrebbe potuto banalmente inciampare nel macchiettistico, in un senso, o nel mockumentary, in un altro. Ed invece ci si trova di fronte ad una climax emotiva inattesa, retta soprattutto dall’ottimo personaggio, e l’ottimo interprete, di Lucky, il quale riconsegna la singolare conformazione di una virilità moderna. Il re del quartiere, che vive senza limiti o relazioni fisse, e che impara passo dopo passo ad amare un bambino lo si è visto innumerevoli volte sullo schermo, ma in una salsa priva di originalità, qui invece il finale non arriva come naturale conseguenza di una data e certa idea di cinema, ma come tappa, o meta, di un percorso marcatamente introspettivo del protagonista, dove viene anche lasciata aperta una porta sul retro e le certezze tangibili abitano solo i sentimenti di Lucky. Merito a Sean Baker, e a Prince Adu, di aver riportato fedelmente, e con mezzi modesti, uno spaccato della black life e del calderone sociale più in generale di New York City, attraverso una storia che strappa sorrisi alternati ad amare riflessioni, sfilacciandosi comunque un po’ nel finale, dove sembra voler annacquare troppo la minestra quando non ce ne sarebbe davvero bisogno.

VOTO 73/100

Recensione film: Gigantic (Fuori Concorso)


Un film che calza a pennello con l’animus festivaliero torinese, su questo non ci piove. “Gigantic” è ben scritto, ben fotografato, ben montato. È un’opera che vuole ammiccare ad un’assodata fetta di pubblico, ed infatti lo fa, ma sino ad un certo punto.
Un ragazzo poco spigliato, che coltiva sin dall’infanzia il sogno di adottare una bimba cinese, incontra, e si innamora, di una ragazza che invece sembra non aver inibizioni.
Già la trama lascia presagire la marcata voglia di forzare, un po’ generica e generalizzata. Passi che il protagonista sia un improbabile venditore di materassi che dimostra 10 anni in meno di quelli che realmente ha, passi che il padre della sua bella, un buon John Goodman, trascorra l’intera giornata sdraiato a terra causa un mal di schiena psico-somatico, passi anche che i suoi genitori hanno 80 anni, ma l’idea che l’unico desiderio di un 28enne un po’ sfigato sia adottare una bambina, e che questa debba essere per forza cinese, suona davvero ridicolo.
È qui che l’opera dell’esordiente Matt Aselton getta alle ortiche il suo potenziale. Tutte le situazioni, sempre più assurde, vengono poco giustificate, buttate lì con animo furbesco, a voler stupire il fruitore con mezzucci di un cinema sinceramente sorpassato. Passano inevitabilmente in secondo piano le angosce e le insoddisfazioni dei complicati rapporti interfamigliari, che avrebbero meritato un rispetto maggiore sia in fase di scrittura che durante le riprese, ma con le quali il regista non si è dimostrato in grado di cofrontarsi. Indubbia la vena di Goodman, all’ennesima meritevole menzione da caratterista, che si addossa il carico di distribuire cinismo e comicità noir, al servizio di uno script che si appanna inesorabilmente nella fase centrale. Zooey Deschanel e Paul Dano hanno, dono di natura, faccia e corpo incredibilmente calzanti per un qualsiasi prodotto made in Usa che non punti a sbancare i box office.
“Gigantic”, per l’appunto, abbraccia pregi e limiti sempre più spesso ascrivibili alle produzioni indipendenti statunitensi. L’attenzione d’oltreoceano nel confezionare pellicole del genere, dalla scelta del cast ad una resa formale degna di un notevole impegno di risorse, ormai vanno di pari passo con il forzato tentativo di risultare straordinari, ostentatamente autoinnalzandosi dalla bassezza contenutistica di cui viene additata l’industria americana, vedi i progetti meglio riusciti “Juno” e “Little Miss Sunshine”. Si attestano perciò come disfunzioni di uno stesso sistema, culmini iperbolici di una stessa concezione dello strumento cinema, con target di riferimento opposti ma prodotti di uno stesso background socio-culturale. Così spesso si (ri)percorrono strade cieche, che tentano, pur con sguardo malinconico, di riciclare il sogno hollywoodiano della circolarità della vita, del cambiamento auspicabile e sempre possibile. Null’altro che una versione ‘per strani’ dei soliti noti buoni sentimenti.
Un film astuto ed oltremodo costruito che, tra un sorrisino accennato ed un’amara risata, finisce involontariamente per prendersi gioco del pubblico a cui si rivolge.
VOTO 58/100

domenica 16 novembre 2008

Intervista a J.J. Abrams che ha presentato a Roma alcune sequenze in anteprima mondiale dell'atteso Star Trek


Quel geniaccio di J.J. Abrams, dalla cui mente sono scaturite le serie tv Alias, Lost e l’ultimo Fringe che già appassiona fan in tutto il mondo, è arrivato a Roma per presentare in anteprima mondiale il trailer e alcune sequenze del nuovo Star Trek, diretto e prodotto da lui. Torna perciò dietro la macchina da presa dopo il buon risultato di Mission Impossibile III. Un impegno gravoso quello di realizzare un prequel di una serie come Star Trek, che porta in dote uno stuolo di fan davvero impressionante ed intorno al quale si accalca un’attesa davvero incredibile da parte di molti.
E Abrams non era proprio uno di quelli: “Non sono mai stato un fan di Star Trek. Quando lo guardavo non riuscivo a sentirmi coinvolto dalle vicende, non riuscivo a trovare un punto di contatto ed una connessione con i personaggi.

Anche per questo avevo scelto di impegnarmi come produttore e non regista inizialmente. Però man mano che lo script prendeva corpo ed identità ho cominciato ad essere geloso di quello che lo avrebbe diretto, ed allora mi sono proposto per la regia. Oggi come oggi sono un grandissimo fan di Star Trek, forse il più grande, e ho fatto questo film soprattutto per chi, come io prima, ancora non lo è. L’ho fatto per dare vita ad una nuova generazione di appassionati”.
Nel cast sono presenti Chris Pine (Kirk), Zachary Quinto (Spock), Zoe Saldana (Uhura), Eric Bana (Nero) e Wynona Rider (Amanda Greyson).
Le scene che ha presentato alla stampa romana evidenziano un ottimo lavoro fatto intorno ai personaggi e l’utilizzo di falshback e flashforward, marchi di fabbrica anche di Lost e del suo lavoro più in generale. Risate ed azione poi non mancheranno di certo, ed allora il progetto sembra voler portare elementi innovativi in un genere che troppo spesso predilige impegnarsi negli effetti visivi e nella dinamicità dell’azione trascurando i caratteri dei personaggi e la direzione del cast.


Il regista descrive così il lavoro svolto da lui: “I personaggi della storia sono fantastici, davvero, ed il cast con cui ho lavorato è sinceramente eccezionale. L’obiettivo che mi son posto sin da subito è stato quello di dare il giusto peso e controbilanciare la storia ed i personaggi con l’aspetto tecnologico della pellicola. L’elemento che poteva differenziare il mio Star Trek dagli altri progetti del genere era il fatto che portasse lo spettatore ad amare e ad appassionarsi più che alle astronavi a chi c’è dentro”.
Questa mattinata romana insomma ha incuriosito ed ingolosito appassionati e non, non resta che aspettare che l’Enterprise, ed il suo equipaggio soprattutto (Abrams docet), atterrino a maggio 2009 nelle nostre sale cinematografiche.

Tommaso Ranchino

Recensione di The orphanage


Laura, cresciuta in un orfanotrofio sul mare, decide di tornarci a vivere con il marito e con il figlio adottivo Simòn, per metter su una casa famiglia. Da quando si trasferiranno nell’ex orfanotrofio la loro vita non sarà più la stessa, presenze inquietanti che infestano la casa causeranno la scomparsa di Simòn, e di lì Laura inizierà un percorso, tra il flashback e l’onirico, che riporterà a galla avvenimenti terrificanti accaduti trent’anni prima.
Vera rivelazione del cinema iberico, acclamato in patria e all’estero, il primo lungometraggio di Bayona rivisita il genere horror in chiave fantastica, quasi fiabesca, con un risultato che, anche se a tratti risulta troppo edulcorato, non può che compiacere chi lo guarda. Difficilmente si cerca il salto sulla poltrona dello spettatore, al quale viene fornita una trama lineare e ben indagata, l’attenta ricerca, fatta in sede di scrittura del plot, nel costruire i personaggi trova riscontro e conseguente giovamento nel risultato complessivo, più che nelle singole sequenze.
L’enorme villa semibuia, porte che scricchiolano e stanze segrete sono tutti elementi di genere che però qui, vista la differente intenzione ultima del regista, assumono colorazioni diverse, apparendo reali e non artefatti, perciò più terrificanti e disturbanti.


“The Orphanage” poi si muove su due differenti piani d’azione, ed accanto al classico immaginario dell’horror consegna sullo schermo interessanti dualismi: tra il mondo adulto e quello infantile, tra il nucleo familiare ed una comunità di orfani, tra il reale ed il paranormale. Un’indagine quella nel paranormale che non inciampa nel surreale o nel banale, come succede sempre oltreoceano, e che culmina in una riuscitissima scena con Geraldine Chaplin, figlia di Charlie, forse una delle sequenze più coinvolgenti del genere degli ultimi anni.
L’esordiente cineasta si affida ad una regia classica e coerentemente funzionale agli stilemi di genere, rivelandosi sorprendentemente bravo nel creare tensione ed angoscia, servendosi di un ottimo uso delle luci e della fotografia, e non peccando di egocentrismo artistico, difetto comune a molti filmaker contemporanei; l’uso delle accelerazioni e della telecamera a spalla è sempre giustificato da un’impellente esigenza scenico-narrativa e non risulta mai pleonastico. A militare fedelmente dalla parte della storia anche una colonna sonora che non invade mai, a tratti troppo patinata forse, che però nelle scene cardine non tradisce.


A coadiuvare con credibilità lo scenario fatto di bambini deformi, di maschere inquietanti e d’infanzie interrotte che il film crea, c’è un’ottima Belèn Rueda, già vista accanto a Javier Bardem ne “Il mare dentro” di Alejàndro Amenàbar, che con intensità e carica scenica si sobbarca l’intero impianto emotivo della sceneggiatura, non risultando mai sovraccarica o sopra le righe.
“The Orphanage” è quindi un bell’esperimento (riuscito) che non verrà ricordato come capolavoro, ma potrà certamente attestarsi come modello di un genere rivisitato, portando alla ribalta l’esordiente Bayona, meritevole di aver ben gratificato l’intenzione di veicolare sentimenti positivi, quali l’amore materno, attraverso la commistione di generi disomogenei come l’horror ed il fantasy.

VOTO 77/100
Tommaso Ranchino

Intervista a Juan Antonio Bayona, sorprendente regista esordiente di The orphanage


È arrivato, anche se in ritardo rispetto al resto d’Europa, anche da noi il fenomeno del cinema europeo del momento, “The orphanage”. Vincitore di 7 Premi Goya in Spagna è rientrato anche nella corsa agli Oscar come Miglior Film Straniero, non finendo in cinquina però, ed è tra i favoriti alla vittoria dell’EFA 2008.
Impossibile non notare l’influenza sia di Guillermo Del Toro, che ha presentato il film in giro per il pianeta, che di Alejàndro Amenàbar nell’opera, il regista, alla prima esperienza al cinema, Juan Antonio Bayona ce la racconta così: “Mi sono ispirato molto al lavoro di Narciso Ibáñez Serrador, che ha girato due film: “Ma come si può uccidere un bambino?”e “La residencia”. Soprattutto quest’ultimo mi è stato di grande ispirazione, una pellicola del 1969 che ha incredibilmente precorso i tempi, sia per la sceneggiatura che per l’ambientazione. Altri film a cui mi sono ispirato sono ovviamente “The Others” di Alejandro Amenabar ed anche a “Lo spirito dell’alveare” di Victor Erice”.


Una cosa che salta subito all’occhio vedendo il film è la diversità ed il distacco che prende dalla produzione statunitense di genere: “Ritengo che il miglior cinema horror e fantasy si faccia in Europa oggi come oggi. In America ci sono grandi produzioni ma la qualità non sempre è di buon livello, invece in Europa si ha più coraggio di sperimentare e, sia in Spagna che in Francia, si fanno perciò film più trasgressivi che non si limitano a rientrare nei dettami di genere”.
Magistrale l’interpretazione di Belèn Rueda, a cui molti attribuiscono gran parte dei meriti della riuscita dell’opera, il regista ci racconta la sua scelta: “Lei aveva lavorato nel cortometraggio di un mio amico e l’avevo ovviamente apprezzata in “Mare dentro” di Amenabar, a cui come ho già detto mi sono molto riferito, quindi scegliere lei per me è stato un po’ come chiudere un cerchio. Sono stato assolutamente ripagato della scelta, ha dato anche più di quello che potevo aspettarmi, è stata fantastica”.
Dopo il successo internazionale che “The orphanage” ha riscosso la carriera dell’esordiente Bayona sembra poter prendere un velocissimo decollo, ci illustra i progetti per il futuro: “Sto sviluppando un paio di progetti attualmente: uno, ancora una volta in collaborazione con Guillermo Del Toro, prodotto dalla Univesal, che tratterà di un’isteria di massa negli Stati Uniti scaturita per volontà del governo e l’altro in Spagna visto che voglio lavorare sia all’estero che in patria, dato il forte legame che mi lega alla mia terra”.

Tommaso Ranchino

Recensione de La fidanzata di papà


Anche quest’anno il Natale arriva prima, e si salvi chi può. Ancora una volta Cortina d’Ampezzo. Ancora una volta Miami. Non è di certo l’originalità l’ingrediente principe del cinepanettone, negli anni lo abbiamo imparato.
Dopo il successo (limitatamente al botteghino) di “Matrimonio alle Bahamas” della scorsa stagione, torna quella spina dorsale che ormai da qualche anno fronteggia la banda De Sica nella sfida, tutta all’italiana, per il primato d’incassi di Natale. Spina dorsale formata dallo scissionista Massimo Boldi, da Enzo Salvi, Biagio Izzo e I Fichi d’India. Ad aggregarsi al gruppone, come tradizione richiede, anche qualche comico apparso alla ribalta da poco, preferibilmente del vivaio Zelig, quest’anno tocca alla brava e siciliana Teresa Mannino. Le bonone di turno sono la Canalis e la Bush. Ma quest’anno la pellicola ha un asso nella manica, perlomeno dal punto di vista dell’appeal commerciale, ossia la presenza di Simona Ventura, first lady dei reality targati Rai e della tv nazionale spazzatura, nei panni della co-protagonista femminile.


Le premesse per un altro botto ci sono tutte. Inutile rodersi il fegato e sforzarsi troppo per annichilire un’opera che col cinema vero e proprio non ha nulla a che fare, e non ha neanche ambizioni in merito. L’italiano ha dimostrato in più occasioni, una volta l’anno da 25 anni per l’esattezza, di aver bisogno di pellicole del genere, di cibarsene avidamente quando gli viene richiesto.
La trama è la solita, trita e ritrita da anni, che sembrano secoli ormai, due famiglie che s’incrociano vista l’unione dei figliocci, e di lì equivoci a non finire.


Una comicità sempliciona e un po’ datata quella che ci propone il regista e sceneggiatore Enrico Oldoini, militante di vecchio corso della commedia nostrana (“Anni ’90”, “Vacanze di Natale” ’90 e ’91, “Yuppies 2”). Una comicità ormai sorpassata, che non diverte più neanche la vecchia guardia di afficionados, fatta di gag stucchevoli in cui Boldi gira nudo, in cui gli irritanti Fichi d’India si rendono ridicoli ed insopportabili scena su scena, in cui ci sono i bacarozzi nelle zuppe e dove ormai Er Cipolla non raccoglie più il successo di un tempo.
A contrapporsi, leggermente, a questo trend che guida nel baratro intellettuale ed artistico più becero, ci sono le buone vene comiche di Nino Frassica, esilarante, di Biagio Izzo, bravo nel vestire i panni di una donna, e della sorprendente Teresa Mannino, lieta scoperta.


Altro elemento, tanto indispensabile e presente da anni ormai quanto di un gusto a dir poco discutibile, è la scelta progettata e ragionata di cavalcare furbescamente l’onda dell’attualità. E questa volta si è andati forse troppo oltre: in “La fidanzata di papà” la Ventura racconta che ha avuto una storia extra coniugale con un famosissimo, soprattutto in questo periodo afferma, uomo di colore. Forti dell’uscita prevista già da tempo a ridosso dell’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, gli sceneggiatori hanno scommesso sulla vittoria del senatore dell’Illinois. Il cattivo gusto, grazie al cielo, si è limitato all’insinuazione, tra l’altro più che palese, grazie alla scelta in post produzione di tagliare alcune scene, su tutte quella in cui Boldi rincorre la Ventura dicendogli: “Ma gli schiaffi così li davi anche ad Obama?”, oppure quella in cui la Ventura al cellulare accenna un Happy birthday alla Marylin al Presidente dicendogli: “Ma sei già alla Casa Bianca? Ah no, è vero ci vai a Gennaio”.


Insomma questo è un film di bassa qualità, come era già facile ipotizzare, che fa ridere poco e male, ma questo oggettivo giudizio non fermerà di certo la massa dall’affollarne le sale (ben 600) che lo ospiteranno. Non ci resta che scrutare impassibili, ed aspettare tempi migliori.
E se il Natale invece di arrivare prima non arrivasse mai? L’Italia potrebbe sopravvivere? Siam certi di sì.

VOTO 35/100
Tommaso Ranchino

Intervista al cast de La fidanzata di papà


Si riaffacciano al cinema Massimo Boldi e la sua cricca con “La fidanzata di papà” che uscirà in 600 copie, andando a dar fastidio a James Bond. Abbiamo incontrato l’intero cast del film.
Nel film si fa riferimento, neanche troppo velato, a Barack Obama. Boldi ce lo spiega: “Sicuramente siamo in tema con i nostri giorni, ed il nome che poi Simona mi rivela alla fine si dovrebbe capire tra le righe che è lui. Non l’abbiamo detto perché mi sembrava fosse una cosa esagerata, l’importante era farlo capire”. Enrico Oldoini, regista e sceneggiatore, aggiunge: “Quando abbiamo scritto a Febbraio la sceneggiatura abbiamo scommesso sulla vittoria di Obama. Sia nella sceneggiatura che nelle riprese ci sono delle scene che fanno espresso riferimento a Obama, noi le abbiamo tagliate perché ci sembrava troppo sfrontato. Abbiamo preferito poi alludere, senza dire il nome e senza precisare”.
Immancabile il riferimento alla battuta sull’abbronzatura, che assomiglia molto ad alcune gag del film, del neo Presidente degli Stati Uniti fatta dal premier Berlusconi, anche produttore di fatto visto che il film è targato Medusa, Boldi ridendo ci dice: “Non ci mettiamo d’accordo prima, forse lui ha preso da noi probabilmente. È così veloce che è riuscito a leggere nel nostro pensiero come E.T., un extraterrestre”.
La coppia che funziona di più sullo schermo è quella formata da Teresa Mannino e Nino Frassica, che ci raccontano l’esperienza: “Il mio lavoro sul personaggio – dice la Mannino - è stato inesistente, essendo io una siciliana pettegola e gelosa mi veniva molto naturale. Non ho lavorato né sul carattere, né sui movimenti.
Con Nino ci siamo subito, da buoni siciliani, squadrati da lontano, poi però devo dire che io ho seguito tutte le indicazioni di Nino, che mi ha fatto ridere quando ero una ragazzina. Lui e Massimo sono stati dei maestri sul set”.
Frassica, al solito pungente, ci confida: “Ho inserito di mia invenzione il fatto che il mio personaggio parlasse in terza persona. Devo ringraziare un tronista di Uomini e Donne, che diceva: ‘Giovanni non fa così, Giovanni è un’altra persona’ ed io mi chiedevo: ‘Ma chi è sto Giovanni?’. Poi ho scoperto che Giovanni era lui. Subito dopo aver visto la trasmissione ho chiamato Enrico e glielo ho detto, lui è stato subito d’accordo”.
Per la prima volta la Canalis veste i panni della cattiva: “E’ la prima volta che mi trovo a far questa parte negativa, prima nei pochi ruoli che ho avuto in fiction e in qualche film ho sempre fatto la bambolina. Felicity è la cattiva della storia che cerca di mettere i bastoni tra le ruote ai piccioncini, poi però alla fine c’è un cambiamento in positivo”.
Simona Ventura, arrivata in ritardo a causa dei suoi innumerevoli impegni televisivi, racconta l’esperienza sul grande schermo: “Ero molto preoccupata, non essendo il cinema il mio mondo. Enrico, siccome ero terrorizzata da questa idea, è venuto a Milano ed abbiamo preparato le parti prima. Mi ha fatto capire cosa voleva da me: un personaggio molto diverso da quella che sono in tv. Mi ha detto di sottrarre tutto quello che avevo addosso. Il film è stato girato molto in presa diretta, massimo 2 o 3 ciak. Spero che questa sia la ciliegiona sulla tortona di un’annata davvero piena”.
Nonostante tutti gli impegni che la Rai le sottopone la Ventura, in chiusura, non nasconde di voler continuare ed intraprendere una carriera come attrice: “I tempi del cinema sono diversi da quelli televisivi, per me è stata una vacanza quella di Miami. Mi sono trovata benissimo con il resto del cast, d’altronde il successo nasce dallo spogliatoio in ogni cosa che uno fa. Mi piacerebbe fosse questa una seconda parte della mia vita, anche perché dico sempre che forse è arrivato il momento di dosare un attimo le forze. Mi piace cambiare, amo molto il cinema, appena posso ci vado. Un domani potrebbe essere il mio futuro”.

Tommaso Ranchino