martedì 25 novembre 2008

Recensione film: Gigantic (Fuori Concorso)


Un film che calza a pennello con l’animus festivaliero torinese, su questo non ci piove. “Gigantic” è ben scritto, ben fotografato, ben montato. È un’opera che vuole ammiccare ad un’assodata fetta di pubblico, ed infatti lo fa, ma sino ad un certo punto.
Un ragazzo poco spigliato, che coltiva sin dall’infanzia il sogno di adottare una bimba cinese, incontra, e si innamora, di una ragazza che invece sembra non aver inibizioni.
Già la trama lascia presagire la marcata voglia di forzare, un po’ generica e generalizzata. Passi che il protagonista sia un improbabile venditore di materassi che dimostra 10 anni in meno di quelli che realmente ha, passi che il padre della sua bella, un buon John Goodman, trascorra l’intera giornata sdraiato a terra causa un mal di schiena psico-somatico, passi anche che i suoi genitori hanno 80 anni, ma l’idea che l’unico desiderio di un 28enne un po’ sfigato sia adottare una bambina, e che questa debba essere per forza cinese, suona davvero ridicolo.
È qui che l’opera dell’esordiente Matt Aselton getta alle ortiche il suo potenziale. Tutte le situazioni, sempre più assurde, vengono poco giustificate, buttate lì con animo furbesco, a voler stupire il fruitore con mezzucci di un cinema sinceramente sorpassato. Passano inevitabilmente in secondo piano le angosce e le insoddisfazioni dei complicati rapporti interfamigliari, che avrebbero meritato un rispetto maggiore sia in fase di scrittura che durante le riprese, ma con le quali il regista non si è dimostrato in grado di cofrontarsi. Indubbia la vena di Goodman, all’ennesima meritevole menzione da caratterista, che si addossa il carico di distribuire cinismo e comicità noir, al servizio di uno script che si appanna inesorabilmente nella fase centrale. Zooey Deschanel e Paul Dano hanno, dono di natura, faccia e corpo incredibilmente calzanti per un qualsiasi prodotto made in Usa che non punti a sbancare i box office.
“Gigantic”, per l’appunto, abbraccia pregi e limiti sempre più spesso ascrivibili alle produzioni indipendenti statunitensi. L’attenzione d’oltreoceano nel confezionare pellicole del genere, dalla scelta del cast ad una resa formale degna di un notevole impegno di risorse, ormai vanno di pari passo con il forzato tentativo di risultare straordinari, ostentatamente autoinnalzandosi dalla bassezza contenutistica di cui viene additata l’industria americana, vedi i progetti meglio riusciti “Juno” e “Little Miss Sunshine”. Si attestano perciò come disfunzioni di uno stesso sistema, culmini iperbolici di una stessa concezione dello strumento cinema, con target di riferimento opposti ma prodotti di uno stesso background socio-culturale. Così spesso si (ri)percorrono strade cieche, che tentano, pur con sguardo malinconico, di riciclare il sogno hollywoodiano della circolarità della vita, del cambiamento auspicabile e sempre possibile. Null’altro che una versione ‘per strani’ dei soliti noti buoni sentimenti.
Un film astuto ed oltremodo costruito che, tra un sorrisino accennato ed un’amara risata, finisce involontariamente per prendersi gioco del pubblico a cui si rivolge.
VOTO 58/100

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