martedì 30 settembre 2008

Incontro con Frank Miller a Roma per presentare alcune scene di The Spirit


Uscirà il 25 dicembre 2008 il suo primo film da regista, ha lavorato come fumettista sia per la Dc che per la Marvel, ha scritto e disegnato la striscia di Batman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro, ha 51 anni e, di persona, è un tipo alquanto enigmatico e, per la verità, sembra essersi disegnato da solo. Stiamo parlando, ma qualcuno già se ne sarà accorto, di Frank Miller.
Per molti è un idolo solo da poco. Ha co-diretto assieme a Robert Rodriguez la riuscitissima trasposizione cinematografica della sua graphic novel più famosa: Sin City. Ed ha regalato a Zack Snyder un’altra sua creatura fumettistica, 300, per portarla al cinema, ed anche qui il successo è stato planetario.
Per gli appassionati un idolo lo è dagli anni ’80. Dai tempi di Amazing Spider-Man, di Daredevil: Born again e dalle sue visioni decisamente noir di Batman, a cui Tim Burton prima e Christopher Nolan poi hanno fatto riferimento nei loro film.
Per la sua prima esperienza dietro la macchina da presa, The Spirit, ha ricreato quel clima noir che ispirò Sin City e si è affidato ad una graphic novel di uno dei suoi maestri, il leggendario Will Eisner.
Le scene che Miller ha mostrato ad un pubblico molto ristretto in quel del Cinema Moderno di Piazza Esedra per i più nostalgici, il Warner Village di Piazza della Repubblica per l’anagrafe attuale, lascia ben poco all’immaginazione. D’altronde la formula del Sin City cinematografico era funzionata e allora perché cambiare? Femmes fatale come se piovessero (Scarlett Johansonn e Eva Mendes vi dicono qualcosa?), personaggi (buoni o cattivi che siano) dal carisma scenico a dir poco straripante, l’uso del b/n spezzato da fiammate cromatiche quasi accecanti. Queste le fondamenta strutturali su cui poggiare un’opera che si presenta al solito irriverente, trascinante, cupamente ironica.
Questo sembra essere un periodo florido per le produzioni hollywoodiane ispirate da fumetti, e sembra che Miller stia monopolizzando, sempre ben piacendo all’inossidabile Stan Lee, il settore. In preparazione già i capitoli 2 e 3 di Sin City, in cantiere anche il nuovo episodio di Batman di Nolan (è di un paio di settimane fa la notizia che vorrebbe nel cast Philip Seymour Hoffmann nei panni di Penguin e di Johnny Depp in quelli dell’enigmista).
Insomma di carne al fuoco ce n’è , forse troppa. Intanto aspettiamo che il Bianco Natal ci porti questo nero, nerissimo Spirit, lì sapremo già giudicare se Miller avrà un futuro dietro la macchina da presa, perché, siam certi, che dietro la matita ha davvero pochi rivali (tra cui va sicuramente menzionato il grande Garth Ennis).

Tommaso Ranchino

Recensione di Parigi - Un mosaico multicromatico della capitale francese e di chi ci vive in salsa autoriale


Parigi, oggi. Pierre, ballerino malato di cuore, è in attesa di trapianto. L’incombenza della morte riversa significato in ogni sua prospettiva o desiderio, sono suoi gli occhi che ci filtrano, malinconicamente, varie storie che s’incrociano adiacenti (struttura inflazionata negli ultimi anni) in una Parigi splendidamente fotografata da Klepisch. E’ proprio ad un intenso Romain Duris, con cui aveva già fruttuosamente collaborato ne L’appartamento spagnolo, che il cineasta affida il passepartout narrativo dell’intero plot.
Il raccordo sottile tra le vicende le incastra alla perfezione, con stile, con garbo, ma soprattutto con ottimo timing.
Alla figura marginalmente centrale di Pierre se ne affiancano di altrettanto essenziali e ancor più indagate. Su tutti una Binoche che assume egregiamente i panni della donna-madre-sorella-amante perfetta. La capacità interpretativa della francese abbozza una femminilità così coinvolgente da appagare e completare ogni figura maschile che giova della sua vicinanza: da un fratello (Pierre) che approccia più serenamente la malattia, ad un uomo, distrutto dalla dipartita improvvisa di un’ex moglie indimenticata, che ritrova un inaspettato slancio esistenziale grazie ad una relazione con lei.
Vicina all’inarrivabile la performance di Fabrice Luchini, che inscena un professore-storico alle prese con una crisi, detta gergalmente di mezz’età, professionale ed amorosa, accostabile, per modus ed intenti, al miglior Woody Allen che, ahinoi, ricordiamo.
Se da una parte i leit motiv sono crisi esistenziale e difficoltà relazionali, dall’altra, in filigrana, ci viene inculcata una splendida leggerezza e spensieratezza, assunta a manifesto in alcune scene cruciali della pellicola, quali la festa a casa di Pierre, nella quale una miscellanea di parigini d’ogni sorta ed etnia si scatena in balli coordinati che amalgamano sapori bohemiénne a sensazioni tribali.
Decisamente superfluo, ed anche un po’ populista, invece, il riferimento all’immigrazione clandestina, sviluppato nell’episodio di un camerunense che cerca fortuna nella capitale francese, messo con insistenza in un’inutile contrapposizione cromatica con la Parigi modaiola e consumista.
Una creazione, quella del regista, che soffre dei propri pregi, caricandoli troppo. Riferimenti continui alla psicanalisi e all’esistenzialismo (nell’accezione di estetismo decadente e nichilista) forzato nell’accostamento di personaggi, un minimo stereotipati nella categoria dell’europeo contemporaneo, tende ad ingolfare un meccanismo altresì ben oliato.
A somme tirate Parigi è un film gradevole ed a tratti coinvolgente, che vive, soprattutto, di grandiose prove attoriali e di un’atmosfera che solo la città in questione può consegnare allo spettatore, accasciandosi però in qualche scelta ormai inflazionata nel filone autoriale internazionale.

VOTO 73/100
Tommaso Ranchino

lunedì 29 settembre 2008

Recensione di Sfida senza regole - Divi, naftalina e televisionismo odierno



Arriva in sala un film dall’eco risonante e difficilmente ignorabile. Sfida senza regole è un thriller, di medio-bassa fattura perlopiù, ma è soprattutto una vetrina imponente dove vengono messi in mostra due dei più grandi attori mai nati. Robert De Niro ed Al Pacino. Sissignore, quei due che non si erano mai incontrati ne Il Padrino – Parte seconda e che si erano solo incrociati in un paio di fugaci scene nel buon The Heat – La sfida di Michael Mann. Oggi recitano fianco a fianco, si stuzzicano continuamente e creano innumerevoli duetti.
Turk (Bob) e Rooster (Al) sono due detectives di New York sul viale del tramonto della loro carrirera, e s’imbattono in un assassino seriale che firma i propri delitti con dei sonetti di monito nei confronti delle vittime, che provengono tutte dal bacino di criminali su cui i due indagano. Le indagini portano dritte a Turk. E lo svolgersi scopre risvolti scontati e banalizzati.
Dato per acquisito che il film è ben poca cosa, l’attenzione si sposta sul ruolo all’interno della storia del cinema di un film del genere.
La resa dei personaggi nei confronti degli eventi ripercorre metaforicamente quella di un pezzo di storia di Hollywood che lascia il testimone nelle mani del nuovo che avanza. La convivenza sul grande schermo di Pacino e De Niro con un personaggio come 50 Cent è più che significativa. Il mestiere dell’attore vive un momento di crisi, o perlomeno di grande cambiamento, e qui ne abbiamo la prova tangibile. I superdivi girano a vuoto, De Niro con il suo recitato caratterizzato e sovraccarico, che lo ha reso celebre, e Pacino con il suo sguardo indagatore ed il suo carisma anticonvenzionale sembrano completamente in controtendenza con gli obiettivi principali del film e del cinema contemporaneo più in generale. Le inquadrature non rendono giustizia agli attori, e non vogliono nemmeno farlo. La religione dell’immagine, della dinamicità ha tolto il pane sotto i denti a professionisti del genere.
Addirittura la (onni)presenza della polizia scientifica nelle indagini è un ulteriore segnale di rinnovamento: la mania per la medicina e per la scientifica, che ha invaso i piccoli schermi di tutto il mondo, sta distogliendo l’attenzione dai personaggi, che ai tempi dei De Niro e Pacino erano il fulcro delle storie e degli intrecci narrativi. Nel filone gangsteristico che ha reso grande la New Hollywood l’attenzione verso le indagini e le lungaggini era assolutamente inesistente, ed immenso campo d’azione veniva lasciato alle personalissime interpretazioni di grandi attori come questi di cui parliamo.
La parte migliore del progetto, le interpretazioni e le personalità dei due, si trovano a fare il ruolo di aggiusta(non guasta)feste in un minestrone riscaldato ed assai sciapo. I riferimenti continui ad operuncole quali Saw ed affini catalogano tristemente le intenzioni del regista.
In pratica il film del mediocre Jon Avnet è salvabile per la sola presenza dei due mostri sacri e dei loro duetti impedibili, per il resto ha rilevanza esclusivamente come documento storico e tangibile testimonianza della fine di un’epoca e dell’inizio di un’altra, certamente meno gloriosa.
Dopo la proiezione la voglia che assale lo spettatore è quella di andare a rispolverare vecchi capolavori targati Scorsese, De Palma o Coppola, non certo quella di aspettare anelanti il prossimo film di Avnet.

VOTO 63/100
Tommaso Ranchino

Recensione di Shanghai Baby


Arriva nelle sale l’arrabattato lungometraggio del tedesco Berengar Pfahl: Shanghai Baby. Mai titolo fu più calzante. L’opera, girata completamente in digitale ed anche per questo patinata e formalmente scadente, è imbevuta di un manierismo chicchettone, di una filosofia neo-bohemiénne che si copre di ridicolo in un crescendo di clichè e forzature stralunate. La scelta del soprannome della protagonista (Coco, in onore della Chanel) è portatrice malsana di quella vena, quasi un’arteria, kitsch che lo attraversa con impeto.
Una ragazza cinese, ribelle e curiosamente artistica, vive due amori contemporaneamente, uno forzatamente casto e totalizzante (orientale), l’altro carnale e libertinamente adultero (occidentale). Fa da sfondo, sin troppo colorato e luccicante, una Shanghai che ci viene restituita spoglia della sua genuinità (a noi) esotica, ma standardizzata a forza nell’ottica che l’occidente vuole averne: una mera contraffazione di una metropoli statunitense, quasi un implicito inno alla superiorità occidentale, così come lo è l’infausto confronto tra l’impotente Tian Tian ed il prestante Mark.
E proprio qui sta il, maggiore e non unico, difetto del film: le situazioni amorose, la vita cittadina, le barriere culturali, la chimera dell’occidente ci vengono filtrati dall’occhio europeo ed eurpoeista del regista tedesco, depauperando l’insieme di quella carica emotiva ed immaginifica che una prospettiva ‘locale’ avrebbe donato all’opera. La forzatura nel banalizzare ogni singolo elemento (luci, sentimenti, paure, passioni) rendono le scene mal strutturate e slegate tra loro, risucchiate in una barocca esteticità poco metabolizzabile.
Il continuo ed insopportabile riferimento all’importanza del rapporto con la città per la protagonista non trova alcun feedback nelle scelte registiche. Coco ama la città, ma il regista non abbastanza, e la usa esclusivamente come mero strumento didattico per propinarci, come se un mese di Olimpiadi non ci abbia già saturato a sufficienza, l’emancipazione delle generazioni della New China.
Tra i miseri punti a favore di Shanghai Baby va certamente menzionata la carica, attoriale ed erotica, della brava Bai Ling. Caratterizza le scene ed attira l’attenzione così come la parte richiede, ha stile da vendere e non si tira indietro quando la storia latita giocandosi la carta di un recitato sopra le righe e sensorialmente sovraccarico. Le interpretazioni collaterali, scialbe e senza personalità, sono in completa simbiosi con l’animus dell’opera.
Un’opera davvero irraccomandabile, che spinge addirittura ad interrogarsi sul motivo di una distribuzione nelle nostre sale. Il fatto che sia stato terminato nel 2007 e che esca solo ora, per sfruttare l’onda lunga del fenomeno Pechino 2008 e tutto ciò che ha generato, è un indizio di cui nemmeno il più inetto dei detective avrebbe potuto ignorare l’entità.

VOTO 19/100

Tommaso Ranchino


giovedì 25 settembre 2008

Recensione documentario: Made in America (Lo Stato delle Cose)

Nel cuore della California democratica e benpensante, pulsa l’anima di una lotta fra gang afro-americane, un conflitto fratricida e spietato quello tra i Crips e i Bloods. Si calcola che si sia portato via, in meno di trent’anni, più di quindicimila vite. Il documentario, presentato al Festival di Torino, ripercorre e analizza, con risultati sconcertanti, la storia di questo conflitto, attraverso immagini d’archivio e interviste ad alcuni ‘sopravvissuti’ di ambo le fazioni.
Stacy Peralta, celebre intorno al pianeta per essere stato uno degli skater di Dogtown, intraprende una strada nuova dopo aver magistralmente diretto i documentari sportivi “Dogtown & Z-Boys”, sullo skate per l’appunto, e “Riding Giants”, sul surf estremo. Questa volta s’improvvisa reporter a caccia di una poco chiara (anche a lui) verità scomoda su di una realtà scabrosa come quella della lotta fra gang rivali. Ma, un po’ per le interviste superficiali e poco approfondite, che tratteggiano profili sbiaditi e macchiettistici dei personaggi delle vicende, un po’ per lo scarno archivio di video a disposizione, si vedono infatti troppe foto e tutte simili tra loro, il risultato è approssimativo e inefficace.
La chiarezza che vuole fare Peralta va ben presto a farsi benedire, la visione del documentario, tra l’altro per nulla coinvolgente o emozionante, lascia nell’immaginario dello spettatore una confusione ancora più radicata su di un argomento, già di suo, poco interessante.
La maggior capacità del documentarista statunitense era stata, nei precedenti lavori, quella di donare tinte forti ai protagonisti delle prodezze sportive che inscenava, gli skater e i surfisti erano portatori di valori che andavano ben oltre la divulgazione di uno sport e lo spettatore poteva subirne il carisma attraverso gli aneddoti enumerati, invece qui la narrazione frazionata e mal collegata contribuisce a lasciare la sensazione di trovarsi di fronte ad un collage scriteriato di racconti e foto, più che ad un flusso univoco di intenzioni ed intensità.
Una visione da non consigliare, perché priva di potenza immaginifica ed incapace di restituire qualcosa di citabile o godibile.
VOTO 35/100