lunedì 29 settembre 2008

Recensione di Shanghai Baby


Arriva nelle sale l’arrabattato lungometraggio del tedesco Berengar Pfahl: Shanghai Baby. Mai titolo fu più calzante. L’opera, girata completamente in digitale ed anche per questo patinata e formalmente scadente, è imbevuta di un manierismo chicchettone, di una filosofia neo-bohemiénne che si copre di ridicolo in un crescendo di clichè e forzature stralunate. La scelta del soprannome della protagonista (Coco, in onore della Chanel) è portatrice malsana di quella vena, quasi un’arteria, kitsch che lo attraversa con impeto.
Una ragazza cinese, ribelle e curiosamente artistica, vive due amori contemporaneamente, uno forzatamente casto e totalizzante (orientale), l’altro carnale e libertinamente adultero (occidentale). Fa da sfondo, sin troppo colorato e luccicante, una Shanghai che ci viene restituita spoglia della sua genuinità (a noi) esotica, ma standardizzata a forza nell’ottica che l’occidente vuole averne: una mera contraffazione di una metropoli statunitense, quasi un implicito inno alla superiorità occidentale, così come lo è l’infausto confronto tra l’impotente Tian Tian ed il prestante Mark.
E proprio qui sta il, maggiore e non unico, difetto del film: le situazioni amorose, la vita cittadina, le barriere culturali, la chimera dell’occidente ci vengono filtrati dall’occhio europeo ed eurpoeista del regista tedesco, depauperando l’insieme di quella carica emotiva ed immaginifica che una prospettiva ‘locale’ avrebbe donato all’opera. La forzatura nel banalizzare ogni singolo elemento (luci, sentimenti, paure, passioni) rendono le scene mal strutturate e slegate tra loro, risucchiate in una barocca esteticità poco metabolizzabile.
Il continuo ed insopportabile riferimento all’importanza del rapporto con la città per la protagonista non trova alcun feedback nelle scelte registiche. Coco ama la città, ma il regista non abbastanza, e la usa esclusivamente come mero strumento didattico per propinarci, come se un mese di Olimpiadi non ci abbia già saturato a sufficienza, l’emancipazione delle generazioni della New China.
Tra i miseri punti a favore di Shanghai Baby va certamente menzionata la carica, attoriale ed erotica, della brava Bai Ling. Caratterizza le scene ed attira l’attenzione così come la parte richiede, ha stile da vendere e non si tira indietro quando la storia latita giocandosi la carta di un recitato sopra le righe e sensorialmente sovraccarico. Le interpretazioni collaterali, scialbe e senza personalità, sono in completa simbiosi con l’animus dell’opera.
Un’opera davvero irraccomandabile, che spinge addirittura ad interrogarsi sul motivo di una distribuzione nelle nostre sale. Il fatto che sia stato terminato nel 2007 e che esca solo ora, per sfruttare l’onda lunga del fenomeno Pechino 2008 e tutto ciò che ha generato, è un indizio di cui nemmeno il più inetto dei detective avrebbe potuto ignorare l’entità.

VOTO 19/100

Tommaso Ranchino


Nessun commento: