martedì 30 settembre 2008

Recensione di Parigi - Un mosaico multicromatico della capitale francese e di chi ci vive in salsa autoriale


Parigi, oggi. Pierre, ballerino malato di cuore, è in attesa di trapianto. L’incombenza della morte riversa significato in ogni sua prospettiva o desiderio, sono suoi gli occhi che ci filtrano, malinconicamente, varie storie che s’incrociano adiacenti (struttura inflazionata negli ultimi anni) in una Parigi splendidamente fotografata da Klepisch. E’ proprio ad un intenso Romain Duris, con cui aveva già fruttuosamente collaborato ne L’appartamento spagnolo, che il cineasta affida il passepartout narrativo dell’intero plot.
Il raccordo sottile tra le vicende le incastra alla perfezione, con stile, con garbo, ma soprattutto con ottimo timing.
Alla figura marginalmente centrale di Pierre se ne affiancano di altrettanto essenziali e ancor più indagate. Su tutti una Binoche che assume egregiamente i panni della donna-madre-sorella-amante perfetta. La capacità interpretativa della francese abbozza una femminilità così coinvolgente da appagare e completare ogni figura maschile che giova della sua vicinanza: da un fratello (Pierre) che approccia più serenamente la malattia, ad un uomo, distrutto dalla dipartita improvvisa di un’ex moglie indimenticata, che ritrova un inaspettato slancio esistenziale grazie ad una relazione con lei.
Vicina all’inarrivabile la performance di Fabrice Luchini, che inscena un professore-storico alle prese con una crisi, detta gergalmente di mezz’età, professionale ed amorosa, accostabile, per modus ed intenti, al miglior Woody Allen che, ahinoi, ricordiamo.
Se da una parte i leit motiv sono crisi esistenziale e difficoltà relazionali, dall’altra, in filigrana, ci viene inculcata una splendida leggerezza e spensieratezza, assunta a manifesto in alcune scene cruciali della pellicola, quali la festa a casa di Pierre, nella quale una miscellanea di parigini d’ogni sorta ed etnia si scatena in balli coordinati che amalgamano sapori bohemiénne a sensazioni tribali.
Decisamente superfluo, ed anche un po’ populista, invece, il riferimento all’immigrazione clandestina, sviluppato nell’episodio di un camerunense che cerca fortuna nella capitale francese, messo con insistenza in un’inutile contrapposizione cromatica con la Parigi modaiola e consumista.
Una creazione, quella del regista, che soffre dei propri pregi, caricandoli troppo. Riferimenti continui alla psicanalisi e all’esistenzialismo (nell’accezione di estetismo decadente e nichilista) forzato nell’accostamento di personaggi, un minimo stereotipati nella categoria dell’europeo contemporaneo, tende ad ingolfare un meccanismo altresì ben oliato.
A somme tirate Parigi è un film gradevole ed a tratti coinvolgente, che vive, soprattutto, di grandiose prove attoriali e di un’atmosfera che solo la città in questione può consegnare allo spettatore, accasciandosi però in qualche scelta ormai inflazionata nel filone autoriale internazionale.

VOTO 73/100
Tommaso Ranchino

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