giovedì 29 maggio 2008

Il Divo, la spettacolare verità di Paolo Sorrentino

Sorrentino è grande, immenso, perché esprime nel suo cinema una duplice sensazione, doppiamente efficace: sa essere visionario ed immaginifico restando comunque vigorosamente aggrappato alla realtà sociale del nostro paese. E’ l’unico, insieme al pur diversissimo Virzì, che riesce a raccontare l’Italia attraverso un cinema dall’input e dal background autoriale, narrativamente e formalmente senza paragoni o riferimenti possibili.
La sua opera ultima, Il Divo, è l’ennesima conferma di un’attitudine migliorata, nonostante sia solo un classe ’70, col tempo e con l’esperienza. La pellicola narra, come tutti ben sanno, le vicende di una tranche della vita (spettacolare ci assicura Sorrentino) di Giulio Andreotti.
La formazione degli adepti, perlopiù ceffi loschi e poco raccomandabili, della sua corrente all’interno della DC, la cupa questione Moro, poi Pecorelli, poi Calvi, le ombre di accuse perenni ed insostenibili (per il Paese, mai per Andreotti), il grottescamente singolare rapporto con una consorte santificabile. Questi i tasselli dell’eccezionale mosaico posto sfacciatamente e vigorosamente all’attenzione di un Paese intero. Il nocciolo della questione si cela proprio qui: l’attenzione di un Paese, di un popolo. È su questo che vuole (e ce la fa) far leva il regista, vuole destare le coscienze popolari, non tanto per demonizzare l’ormai universalmente riconosciuto Belzebù della storia politica italiana, ma per porlo a monito, a deterrente per il futuro. Gli italiani, dopo i trascorsi infelici e truffaldini, sembrano non aver poi imparato così bene la lezione, e l’intenzione della pellicola va, nella sua accezione universalistica, ricercata proprio in questa voglia di discontinuità.

La rilevanza contenutistica dello script si muove contestualmente con una forma cinematografica aggressiva e perfetta. La sceneggiatura è al solito poderosa e il personaggio di Andreotti, merito e menzione speciale ad un meraviglioso Servillo nella sua miglior interpretazione in assoluto, è inquietante ed incantevolmente paradossale. La voce pedante e soporifera di Andreotti-Servillo risuona indimenticabile in alcune sequenze che difficilmente usciranno dalla storia del nostro cinema. Merito dell’interprete napoletano sta anche nell’aver costruito un personaggio ben lontano dai (pericolosi) clichè di una banale imitazione, cucendosi addosso una magnetica aurea semicaricaturale che aggancia inesorabilmente lo spettatore anche negli inevitabili momenti di stanca della narrazione.
Come ne Il divo Andreotti si muove tra i corridoi dell’austera casa sollevato dal terreno, quasi spettro, così la classe politica spesso si è (auto)innalzata dalla missione terrena che l’elettorato le ha conferito, allontanandosi da quel ‘basso’ che la sostenta e la legittima, perdendo il necessario contatto con la realtà e, ahimé, con la lealtà.

Pellicole del genere addossano un bagaglio così pesantemente impagabile, sia nel valore intrinseco delle tematiche che nella potente cifra stilistica lasciata in eredità, da entrare a pieno diritto nell’Olimpo del cinema europeo contemporaneo.
Proprio da qui riparte il grande cinema italiano: dalle sceneggiature e dalla visionaria cinetica della macchina da presa del giovane Sorrentino, troppo, troppo, genio e un po’ di (sana) sregolatezza.

VOTO 83/100

Recensione di XXY - Il maschio e la femmina, il frocio e il macho, l’odio e l’amore, il normale e il diverso


L’argentina Lucia Pienzo ha scelto, per la sua opera prima, una tematica decisamente inconsueta, raccontandola come forse mai nessuno prima aveva fatto sul grande schermo. Alex è un’ermafrodita, ha 15 anni e si trova di fronte, per volontà altrui, ad una sorta di bivio esistenziale, dovendo fare i conti con le pulsioni sessuali che gli arrivano da entrambe le peculiarità della sua natura.
La cineasta argentina ha avuto un gran coraggio, ed ha affrontato la delicata questione con una sensibilità artistica ed un realismo sociale davvero fuori dal comune, evitando il più che ha potuto ogni semplicistica discesa verso lo scabroso o il melodrammatico.
Tralasciando le (in questo caso) futili esplicazioni sinottiche, bisogna focalizzare l’attenzione sulla semplicità e la linearità del registro narrativo qui utilizzato. L’intento principale dell’opera, aldilà di quello didattico comunque ben riuscito, è quello di raccontare una storia di diversità, mostrandone la conseguente inquietudine derivata questa volta da un’insofferenza collettiva della comunità sociale non ancora pronta, piuttosto che da una vera e propria questione esistenziale interna al ‘diverso’. Il protagonista del film vede la sua natura d’intersessuale attraverso il filtro dell’opinione altrui, di genitori e coetanei, filtro che gliela distorce, rendendolo imbavagliato in un’emarginazione obbligata. Freddezza, raccapriccio e paure comuni non sono comunque gli unici elementi rivelatori dell’animus dell’opera.Il personaggio di Alex manifesta nella sua quotidianità e nella sua idealizzazione interpretativa un amore disinteressato e totalizzante nei confronti della vita, una spensieratezza inaspettata persino in qualunque altro suo coetaneo alle prese con l’adolescenza.
La questione dell’ermafroditismo fa poi da sponda ad una serie di tematiche adiacenti che diventano anch’esse vertebre di una stessa armoniosa spina dorsale. Tematiche quali la promiscuità adolescenziale, l’omosessualità latente, la conflittualità generazionale vengono tutte affrontate in modo collaterale o indiretto, mai superficialmente.
La cifra stilistica asciutta e mai ridondante dona crudezza ed intensità alle sensazioni contrastanti che si susseguono. La fotografia fredda e l’onnipresenza del brusio del mare collocano le vicende in uno scenario poco definito e dalle dimensioni spazio-temporali continuamente dilatate. Il lavoro della regista con la macchina da presa è sempre ragionato e non distoglie mai l’attenzione dalla problematica principale del film.
XXY mostra però il fianco quando la direzione del film strumentalizza, ai limiti del banale e dello schematizzante, alcune sequenze poco digeribili per raccontare con maggior impatto un disagio già ben delineato dalla sceneggiatura stessa, rischiando di cadere in trappole che la natura propria del film sembra voler esorcizzare sin dall’inizio.
In conclusione questo piccolo low cost movie argentino, che ha vinto nel 2007 la Semaine di Cannes, ha nelle sue corde una forza devastante, non totalmente espressa per la verità, che avrebbe potuto avere un impatto sempre silenzioso ma ben più distruttivo sul pubblico di tutto il mondo. XXY non risulta catalogabile sotto una qualche voce degli archivi della cinematografia che meglio conosciamo: è a modo suo un’opera singolare e plurale, drammatica, ma piena di vita, un po’ come d’altronde lo è Alex, un po’ maschio, un po’ femmina, un po’ vivo, un po’ morto, anzi ucciso.

VOTO: 76/100

Tommaso Ranchino

giovedì 15 maggio 2008

Intervista al Maestro Giuliano Sorgini, compositore musicale cinematografico




Una vita dedicata anima e corpo al musicare immagini, oscurata dal nepotismo e dalla convivenza con mostri sacri del calibro di Morricone


Giuliano Sorgini è un compositore musicale che ha composto le colonne sonore, oltre che di innumerevoli programmi e documentari Rai, di alcuni film tra gli anni ’70 e ’80, allora definiti b-movies, oggi rispolverati anche grazie alla ventata tarantiniana successiva al progetto Grindhouse.
Ripercorriamo insieme a lui il suo percorso artistico associato al cinema, evidenziando luci ed ombre di una carriera sul grande schermo bruscamente interrotta nel 1996 nella convinzione di poter lasciare qualcosa componendo opere personali, dedicandosi completamente all’arte nell’accezione più nobile e meno inquinata del termine.

Maestro, ci vuole una premessa. Descrivi la tua esperienza nel cinema per presentarti.

“Ho avuto la sfortuna, tra virgolette, di essere nato nello stesso periodo di musicisti molto famosi, vedi Bacalov e Morricone. Ad esempio il film di cui ho composto la colonna sonora Non profanare il sonno dei morti è uscito contemporaneamente all’Esorcista II – L’eretico, musicato da Ennio Morricone.
Non mi sono mai voluto paragonare ad altri, però ho notato di non aver mai incontrato un canale fortunato di autorità che ti proponesse film con soggetti importanti, attori importanti e, soprattutto, pubblicità importanti, grazie al quale tu sei legato ad un carro, dei vincitori, che ti porta avanti. Ad esempio il bravissimo Piovani ha avuto la fortuna di fare La vita è bella, film che ha fatto esplodere Benigni; e Piovani a quel carro resta legato e viene portato avanti. Io non ho mai avuto questa fortuna.
Ho sempre fatto cose in economia, avevo una sala di registrazione e facevo tutto io. Ho sempre avuto film troppo importanti come avversari.
Purtroppo c’era, e c’è ancora, il nepotismo anche nell’arte. Magari arriverò a portare il mio contributo artistico quando avrò chiuso gli occhi, non mi interessano successo e limousine!”

Quando nasce la tua passione di musicare immagini?

“Da sempre. Prima di lavorare nel cinema, musicavo documentari per la Rai, poi quando sono uscito dalla Rai per delle dinamiche partitiche a cui non volevo aderire, i registi si sono ricordati di me ed ho cominciato a comporre anche per il cinema.
L’immagine è sempre stata parte della mia ispirazione musicale, ce l’ho innata. Anche l’opera che ho composto (L’asino d’oro), quando tu la ascolti, la vedi nella tua mente”

Tra i film che hai musicato ricordo Non profanare il sonno dei morti, Diabolicamente…Letizia, Un urlo nelle tenebre, La bestia in calore e Porno erotico western. Film che spesso sono considerati di serie b, ma che ultimamente hanno trovato, anche in giro per la rete, un loro seguito. Che ne pensi di quel genere di film?

“Erano film d’avanguardia. Io li ho fatti per amore del lavoro, non certo per guadagnare o per specularci sopra. È stato comunque un discorso fine a sé stesso, adesso però mi fa piacere questa voglia di riapprezzare questo tipo di lavoro”

Descrivici il rapporto che si viene ad instaurare tra compositore e regista. Sicuramente i due devono far confluire i propri intenti artistici verso un obiettivo comune, i creatori sono due, eppure il prodotto finale è unico e deve godere di un corpus fortemente armonico, come si fa?

“I registi con i quali ho lavorato, vedi Riccardo Fellini, Angelo Pannacciò, Jorge Grau, sono sempre venuti da me con un copione, poi ci siamo incontrati e mi hanno ampliato la lettura che avevo fatto attraverso l’esplicazione dello spirito, dell’intenzione, del colore, dell’atmosfera. Dopo il tutto viene rimandato a dopo che il film è stato girato, a volte ci sono eccezioni nelle quali dovevo andare a suonare il pianoforte al posto dell’attore che non sapeva farlo, e quindi si vedono nei film le mie mani mentre suono.
Dopo quando ritorni in moviola vedendo la recitazione degli attori capisci già l’intenzione musicale del regista, la musica deve quindi accompagnare, non riempire, tranne in alcuni momenti nei quali serve un supporto. Ad esempio in tutti i film drammatici o horror per precludere un l’arrivo del negativo c’è sempre una tensione musicale che preannuncia”

Il distacco dal cinema quando? E perché?

“Nel ’96 mi sono completamente dissociato, ho chiuso la sala di registrazione, sono andato a vivere in campagna, isolandomi e perdendo tutti i contatti. L’ho fatto volutamente per trovare quella giusta concentrazione per portare a termine la mia opera, L’asino d’oro”

Ora che ne sei fuori, come vedi il cinema italiano?

“Lo vedo sempre come se non avesse i mezzi. Si imperniano le produzioni sul valore di una storia e sul valore di attori teatrali, anche bravi, che al cinema rendono molto bene. Però sono tutti film fatti in economia, non sono film di cassetta, non hanno alle spalle l’immenso business che c’è in America. Resta un cinema sempre un po’ da amatori, da intenditori”

Quando facevi cinema era diverso da oggi?

“Oggi si fanno pochi film, all’epoca mia se ne facevano tantissimi. C’era proprio un culto del cinema. Giravano i soldi, oggi si cercano sempre le poche sovvenzioni statali che ci sono. Non esiste più la figura del magnate produttore”

Chi è il più grande compositore cinematografico vivente?

“Sicuramente Morricone. Bisogna però dire che può disporre di mezzi eccezionali. Se non gli danno l’orchestra che chiede, lui non lavora. E la realizzazione di una vera orchestra paragonata ad un sintetizzatore ha una resa assolutamente migliore. Questa disposizione da parte dei produttori dei suoi film lo aiuta molto. Lui è stato sempre fortunato a trovare queste disponibilità.
Ad esempio quando io registravo la colonna sonora di Non profanare il sonno dei morti il produttore Amati stava dietro di me e mi spronava a fare presto, perché più il tempo passava e più doveva pagare, con Ennio Morricone questa cosa non è mai successa”

Nel tuo futuro ci sarà ancora il cinema, oppure è una pagina definitivamente voltata?

“Io personalmente tornerei anche a lavorare, però ho preferito puntare sulle opere culturali che ho composto, per poter così lasciare un segno. Credo fermamente che la cultura debba essere divulgata per arricchire l’anima e la sensibilità della gente.
Poi i pochi film che si fanno in Italia sono già assegnati ai vari Piovani, c’è comunque un fermento di ricambio dopo Morricone, io però sono rimasto fuori per troppo. Certamente non mi tirerei indietro se qualcuno che apprezza il mio lavoro mi chiamasse”

In conclusione, a conti fatti come definisci la tua esperienza nel cinema?

“E’ stata una cosa positiva col piccolo rammarico di quella scarogna di cui parlavo all’inizio, cioè della mia convivenza con grandi nomi che hanno offuscato tutti i miei lavori. D’altronde anche nell'arte, la pubblicità è l'anima del commercio. L'arte non la vai a cercare, nasce spontanea e a volte può anche essere proposta.
Ad esempio El Greco è un grande pittore che non ha avuto il successo planetario di Michelangelo, perché non era sponsorizzato dalla Chiesa. Oppure nella musica classica Johann Sebastian Bach, il più grande musicista mai esistito sulla terra a parer mio, è morto poverissimo ed è uscito fuori artisticamente 300 anni dopo la sua morte, così Mozart.
Purtroppo il costume non è cambiato: la massa deve avere più nobiltà di spirito e non deve stare esclusivamente a vedere e a fruire della banalità e della demenzialità, oggi, purtroppo, c'è solo questo! E mi pare molto negativo".


Tommaso Ranchino

martedì 6 maggio 2008

Recensione film: Sotto le bombe




Libano 2006. Una giovane madre assolda un tassista, l’unico che accetta, che la accompagnerà nel suo viaggio verso Sud, alla ricerca del figlio. Il loro itinerario sarà seguito come un’ombra dai bombardamenti continui che seminano morte e terrore, ciònonostante tra i due nascerà un sentimento sincero e genuino.
Il film vive nella sua interezza su un paradigma visivo che trova riscontro anche nella trama: all’amenità geografica e paesaggistica del Libano fa da contraltare un panorama di distruzione causata dagli incessanti bombardamenti, così come all’amore intrapreso tra i due protagonisti si contrappone una realtà raccapricciante, testimonianza di morte e disperazione.
L’opera di Aractingi è un perfetto mix tra una raccolta di immagini paradocumentaristiche, non a caso il cineasta libanese è stato autore di una cinquantina di reportage sul mondo arabo e non solo, e una zona di intimità che viene a formarsi spontanea tra i due, sbocciata come una rosa nel deserto. Proprio questo dualismo è allo stesso tempo merito e limite della pellicola, che sembra mettere in gioco sentimenti opposti con tecniche narrative e registiche differenti, risultando però complessivamente debole e mal collegato. Il voler mettere il piede in due staffe, nonostante risulti causa principale di una disarmonia evidente, conferisce al tutto un sapore agrodolce comunque toccante, trovando il suo punto più alto nella meravigliosa performance della protagonista femminile, Nada Farhat, Mereux d’oro come miglior attrice libanese.
Il dualismo realtà – finzione si accompagna ad un altro dualismo dai riferimenti e le evocazioni innumerevoli, Eros e Tanathos. La morte e l’amore sono d’altronde le due forze motrici che da sempre danno vita ai sogni e alle paure di ognuno, a maggior ragione in un paese martoriato dalla guerra.
In conclusione Sotto le bombe è un docu-film che sa emozionare e testimoniare contemporaneamente, dando alla questione libanese uno spicchio di quella visibilità che merita, certo rimane il dubbio di un’uscita italiana così ritardata rispetto alla realizzazione.

VOTO 66/100

Trailer