giovedì 29 marzo 2007

Recensione: la Ricerca della Felicità

Gabriele, sei felice?

Muccino la felicità l’ha cercata ad Hollywood. Dopo i successi all’italiana de L’ultimo bacio, il cui remake è in uscita negli states, e di Ricordati di me, ecco il debutto a stelle e strisce del 39enne romano. E a battezzarlo sono l’inedita accoppiata formata da Will Smith e da suo figlio Jaden di otto anni. Questi gli ingredienti che hanno portato al successo nei botteghini statunitensi questo minestrone americano cucinato da un italiano.

La trama, basata sulla storia vera di Christopher Gardner, è un promo, come la fuga Mucciniana, della tangibilità dell’american dream. San Francisco, California. Anni ’80. Un nero rimane senza soldi, senza casa, senza moglie. Le uniche cose che riempiono la sua vita sono il figlio e il sogno di diventare broker. E una società di investimenti lo assume per uno stage di sei mesi…

Ottimo Will Smith, addirittura nominato agli Academy Awards (noti ai più come Oscar), ottimi gli incassi, ottimo il debutto di Smith jr. Ma il film non stupisce mai. Troppe le sequenze che cercano di portare lo spettatore alla lacrima. Indubbiamente ben girato, l’occhio di Muccino è comunque quello di un talentuoso, ma troppo yankee per essere esportato con successo in un’Europa poco incline al film-cipolla. Gli americani che in massa sono andati a vederlo nella sua versione originale The Pursuit of Happiness, oltre ad essersi risparmiati il pessimo doppiaggio della sig.ra Gardner (Thandie Newton), non avranno minimamente notato l’impronta di un europeo in questo prodotto quasi disneyano, vedi l’happy ending…

Perciò Muccino, con i 130 milioni di dollari che ha incassato solo negli USA il suo primo film, deve stare attento a non cadere nell’inganno del sogno americano e a non essere subito etichettato come regista di ‘filmetti’ dalle uova d’oro. E deve trovarsi un buon broker…

lunedì 19 marzo 2007

Recensione: Down in the Valley, nelle valli dell'anima

Nella San Fernando Valley la storia di un cowboy e una diciassettenne. Due personaggi fuori dal tempo in cui vivono, dividono un amore improvviso, apparentemente eterno.
Lui (Edward Norton) è un uomo dai valori di un tempo. Ai giorni nostri è anacronistico, socialmente un disadattato, vagabondo, disoccupato sognatore. E intanto rimpiange i ranch dov’è cresciuto. Lei (Evan Rachel Wood) ragazza dal carattere forte, più matura di quello che la sua età può suggerire, lo seduce con la sua voglia di vivere e lo rende dipendente dal suo amore, nonostante il diniego dell’autoritario padre poliziotto (David Morse).
Questo il pretesto per raccontare la storia di una follia. La follia del cowboy. La città non lo accetta, è un trapianto rigettato. La solitudine ha trasformato Harlan in uno squilibrato. Non ha nessun legame con l’esterno all’infuori del rapporto con Toba e il fratellino di lei (Rory Culkin), un tredicenne più che mai invischiato in una crisi di identità adolescenziale.

Il suo mondo vive negli angoli oscuri della sua mente. Nessuno lo conosce a fondo. Oscilla tra il buono e il cattivo per tutta la durata del film, non ha etichette.
Vedendolo si possono riconoscere nel cowboy squilibrato tutte le sfaccettature del proprio carattere. Tutti abbiamo una zona d’ombra, una zona violenta, una zona infantile. C’è chi le tiene a bada, Harlan no. E’ schietto in ogni manifestazione della sua anima tormentata. Ci si affeziona al suo personaggio, anche se la sua morte sembra l’unica soluzione possibile.


La pellicola esula dallo stereotipo etico e morale della nostra società. I buoni e i cattivi non esistono. Esistono le persone, microcosmi complicati, retti da un equilibrio di facciata, marci dentro. A volte invece completamente squilibrati, ma così dannatamente vivi e puliti, come Harlan.
Il paragone con Taxi Driver è quasi automatico. Il taxi diventa un cavallo. La scena allo specchio non manca. Norton è un fenomeno, come lo era De Niro nel ’76. Certo David Jacobson non è Scorsese, e scommetto che non lo sarà mai. Però l’opera è intensa. Non esagera mai, resta godibile anche nelle scene più forti.
Il suo flop nelle sale potrebbe essere un buon segno.
Uno di quei film da vedere di notte, da soli. Un’esperienza che consiglio.

lunedì 12 marzo 2007

Recensione: Sin City, in giro per la città del peccato

Robert Rodriguez aveva un sogno. Portare sullo schermo il fumetto capolavoro di Frank Miller, un guru alla Marvel e alla DC Comics. Sin City. Una graphic novel diventata culto negli anni '90.
Miller però era inizialmente scettico, restio. Dopo aver sceneggiato Robocop, I e II, si era ripromesso di non permettere mai più a nessun hollywoodiano di mettere le mani su una sua creazione. Quando poi Rodriguez gli mostrò qualche scena prova, fu lui ad avere la sensazione di aver messo le mani su qualcosa di grosso. Tanto da voler addirittura apparire in un cameo nelle vesti di un prete confessore morto ammazzato.

Di lì a poco si era ritrovato su un set fatto di soli green screens, infatti l'intera scenografia è stata ricreata digitalmente in un secondo momento della produzione. Un set che assomigliava ad un gala premiazione. Costellato da Quentin Tarantino (special guest director), Bruce Willis, Mickey Rourke, Clive Owen, Rutger Hauer, Michael Madsen(amicone di Quentin), Josh Hartnett, Michael Clarke Duncan, Elijah Wood, aka Frodo; e poi ancora, per i maschietti, Rosario Dawson, Jessica Alba, Brittany Murphy e la figlia di 'Una mamma per amica', Alexis Bledel.

Ma la stella che ha rubato la scena a tutti Ë stato il director Rodriguez. Regista dalle origini chiaramente messicane, nato in Texas. Pupillo - allievo di Tarantino. Erede naturale del suo stile pulp, vedi 'Desperado' e 'Dal tramonto all'alba'. Nulla di più facile e stimolante per lui che ricreare le torbide atmosfere noir di Basin City, Sin City er chi ha avuto la sfortuna di conoscerla, nate nelle pagine díautore di Miller. Pagine che prendono vita, passano dalla carta alla celluloide senza sbiadire minimamente di tonalità. Un vero e proprio film fumetto, di gran lunga superiore come fedeltà allíopera di origine dei più blasonati 'Spiderman' e 'X- Men'.

Questa è una città marcia, corrotta. Attraversata da vicoli squallidi e sudici, brulicanti di bar di terzíordine. La metropoli delle gang, della mala, delle puttane armate fino a denti, dei killer mercenari. Dove gli sbirri sono corrotti, i vescovi padrini, i senatori infami e i violentatori impuniti. Nelle vene di Sin City scorrono odio e violenza.
La trama si snoda in tre episodi. I tre rispettivi protagonisti, il detective cardiopatico Hartigan, il torturatore sfigurato Marv e il killer fotografo Dwight, narrano con voce fuori campo ogni scena imbevuta di sangue. Con commenti volgari e graffianti, con vere e proprie perle di saggezza sanguinaria. Gettano lo spettatore nella mischia come fosse uno di loro.

Le pupe non mancano, e non sono certamente meno assetate di violenza dei colleghi uomini.
Insomma Sin City è una vera e propria esperienza nel mondo di Miller, dopo averlo visto si ha la sensazione di essere tornati alla realtà dopo una gita nei bassifondi della nostra immaginazione.
Mi ero imposto di non elogiare il solito Quentin, di metterlo da parte, di concentrare líattenzione su Rodriguez. Non ce lího fatta. Non ho saputo resistere. La scena da lui scritta e diretta nella quale Dwight (Clive Owen) scambia quattro chiacchiere col cadavere parlante di Jackie Boy (Benicio Del Toro), Ë pura poesia per gli occhi e le orecchie degli amanti del pulp, tra i quali mi annovero umilmente.

Come se nella miglior opera di Rodriguez questi volesse ricordare a tutti di essere ancora in gran forma, di avere appena 44 anni e di non aver la minima intenzione di abdicare al trono. Re Quentin!