lunedì 19 marzo 2007

Recensione: Down in the Valley, nelle valli dell'anima

Nella San Fernando Valley la storia di un cowboy e una diciassettenne. Due personaggi fuori dal tempo in cui vivono, dividono un amore improvviso, apparentemente eterno.
Lui (Edward Norton) è un uomo dai valori di un tempo. Ai giorni nostri è anacronistico, socialmente un disadattato, vagabondo, disoccupato sognatore. E intanto rimpiange i ranch dov’è cresciuto. Lei (Evan Rachel Wood) ragazza dal carattere forte, più matura di quello che la sua età può suggerire, lo seduce con la sua voglia di vivere e lo rende dipendente dal suo amore, nonostante il diniego dell’autoritario padre poliziotto (David Morse).
Questo il pretesto per raccontare la storia di una follia. La follia del cowboy. La città non lo accetta, è un trapianto rigettato. La solitudine ha trasformato Harlan in uno squilibrato. Non ha nessun legame con l’esterno all’infuori del rapporto con Toba e il fratellino di lei (Rory Culkin), un tredicenne più che mai invischiato in una crisi di identità adolescenziale.

Il suo mondo vive negli angoli oscuri della sua mente. Nessuno lo conosce a fondo. Oscilla tra il buono e il cattivo per tutta la durata del film, non ha etichette.
Vedendolo si possono riconoscere nel cowboy squilibrato tutte le sfaccettature del proprio carattere. Tutti abbiamo una zona d’ombra, una zona violenta, una zona infantile. C’è chi le tiene a bada, Harlan no. E’ schietto in ogni manifestazione della sua anima tormentata. Ci si affeziona al suo personaggio, anche se la sua morte sembra l’unica soluzione possibile.


La pellicola esula dallo stereotipo etico e morale della nostra società. I buoni e i cattivi non esistono. Esistono le persone, microcosmi complicati, retti da un equilibrio di facciata, marci dentro. A volte invece completamente squilibrati, ma così dannatamente vivi e puliti, come Harlan.
Il paragone con Taxi Driver è quasi automatico. Il taxi diventa un cavallo. La scena allo specchio non manca. Norton è un fenomeno, come lo era De Niro nel ’76. Certo David Jacobson non è Scorsese, e scommetto che non lo sarà mai. Però l’opera è intensa. Non esagera mai, resta godibile anche nelle scene più forti.
Il suo flop nelle sale potrebbe essere un buon segno.
Uno di quei film da vedere di notte, da soli. Un’esperienza che consiglio.

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