lunedì 12 gennaio 2009

Recensione di Ti amerò sempre


Il romanziere francese Philippe Claudel, penna apprezzata soprattutto in patria, si cimenta per la prima volta dietro la macchina da presa e, per la verità, riesce finalmente a dare pieno sfogo ad una passione che coltiva dagli anni del liceo. Naturalmente scritto da lui, “Ti amerò per sempre” inquadra la propria attenzione sulla conformazione del rapporto tra due sorelle: Lèa, donna dall’incredibile fragilità che mal si concilia con la propria innata voglia di vivere, e Juliette, la maggiore, appena tornata in libertà dopo aver scontato 15 anni per l’omicidio del proprio figlio. L’incontro fra le due, allontanatesi dopo la condanna, e forse anche prima, riesumerà emozioni e percezioni, legate soprattutto al crimine di Juliette, che porgeranno momenti di instabile intensità, mai eccessivamente energica comunque, allo spettatore. L’amore, quello misterioso ed enigmatico fra sorelle, quello viscerale e in qualche caso anche distruttivo di una madre per il proprio figlio, sono, qui, gli elementi facili di una storia come tante. Storia che in ogni caso avrebbe potuto generare due ore di gran film, asciugando qui e lì, smontando le troppe barriere socio-culturali che “Ti amerò per sempre” propone, adoperando modelli di decodifica ben più scarni ma efficaci.
Gli spettatori invece si ritrovano sbatacchiati all’interno di un ambiente intellettualoide, con evidenti puzze varie sotto al naso, dove, tra figli vietnamiti adottati (l’adozione è un tema qui sviscerato con una superficialità pressoché sconcertante) e spossanti dibattiti pregni di citazioni autoreferenziali, l’antipatia già fenomenale dei francesi diventerà praticamente leggendaria, addirittura nel film un personaggio ammette di esser dovuto scappare da Parigi perché vi erano troppo parigini, e forse Nancy non è stata la scelta più oculata in quest’ottica.
Un contorno che, al contrario, meglio si sarebbe sposato con la struttura di un’opera narrativa. In poche parole un romanzo per lo schermo, le pagine si evolvono in fotogrammi, distorcendone la qualità prìncipe, dove i personaggi non possiedono alcun vantaggio rispetto ai ‘videolettori’, ed anche in questo Claudel palesa la propria spiccata sensibilità da autore di romanzi, scavandosi la propria fossa cinematografica. Tempistiche di un libro, perlopiù descritte aggrappandosi ai particolari, alle piccolezze, che ci portano immagini di un cinema lento e spoglio d’impeto patetico.
Complessivamente nulla qui è troppo male, pulite le interpretazioni, addirittura eccezionale Kristin Scott Thomas, che si porta a casa anche l’EFA come migliore attrice protagonista, una sceneggiatura senza particolari picchi o cadute, che oggi è già qualcosa, ma la totalità rimane comunque priva di un quid cinematografico che ce la possa rendere indelebile, o quantomeno lodabile. Tutto insieme non funziona.
Che non ci si potesse aspettare granché da un esordio lo si immaginava a priori, ma Claudel evidenzia anche una modesta padronanza del mezzo, esibendo una regia didascalica e piatta, che, di suo, non aggiunge nulla. Si vuole sobbarcare l’onere di scrivere un libro di celluloide, dimenticandosi della varietà dello strumento con cui si sta relazionando. Il cinema vive di innumerevoli aspetti che la composizione di uno scritto non prevedono. Claudel non se n’è accorto, o non è riuscito a seguire tutte le fasi (scrittura, prepoduzione, riprese, montaggio, postproduzione, rifinitura) come avrebbe dovuto. Tutto qui.
In sintesi un film senza sprint, senza un proprio stile ben definito, che s’inserisce con poco entusiasmo nel filone autoriale francese, in un marasma ormai davvero grigio, sbiadito, per riscattarsi esclusivamente in un finale che restituisce un minimo di senso filmico al lavoro.

VOTO 51/100
Tommaso Ranchino

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