giovedì 4 dicembre 2008

Recensione di Torno a vivere da solo


Giagià (Jerry Calà), dopo vent’anni di matrimonio, torna a vivere nel suo loft da scapolone impenitente nel centro di Milano. Equivoci, tradimenti, intrecci amorosi più o meno strampalati si alterneranno in un film che vuole, riuscendoci poco o niente per la verità, fotografare con disimpegno la situazione, modernistica più che moderna, della famiglia allargata, sia in senso numerico che in senso di genere o razza, manifestando nel finale un’affermazione goliardica dell’amore omo-transgender. La sostituzione di ‘Pace e bene’ in ‘Pacs e pene’ la dice lunga.


“Torno a vivere da solo” è il sequel, più ideale che reale, di uno dei film che ha reso Calà un protagonista della commedia all’italiana degli anni ‘80, “Vado a vivere da solo”. Nonostante questo punto di contatto la nuova creatura dell’istrione, che ormai 57enne torna in un ruolo principale, segna l’affermazione di un distacco da ciò che era stato, strizzando l’occhio a quel che sarà, o almeno questa è la speranza. Il gigioneggiare oltremodo manierato che lo ha reso celebre e vendibile nei suoi anni d’oro, quando girava 4 film l’anno, è riproposto in modo ragionatamente relativo attraverso la razionalizzazione iniziale, che poi diventerà un’eclissi totale in corso d’opera, dei suoi pezzi forti. Chi vedrà “Torno a vivere da solo” ritroverà nelle prime sequenze il Jerry che aveva riposto nella memoria, forse ancora più carico ed eccessivo, ma durante il disporsi della storia ad una rivisitazione nostalgica, spesso riprovevole e stucchevole in alcuni colleghi di Calà che lavorano a pieno ritmo ancora oggi, si sostituirà un flusso nuovo, quello di un interprete rinnovato, meno caratterista, ma con più corde a disposizione. Una scelta azzardata, forse.
Il prodotto che comunque viene liberato nel carnaio anticinefilo natalizio del 2008, uscirà in 200 copie il 5 dicembre, ha dalla sua un minor richiamo commerciale, senza dubbio, ma un’attenzione verso il cinema e verso la commedia lievemente maggiore e più rispettosa. Il cast, a tratti ridicolo, vedi un Don Johnson oltremodo fuor d’acqua, la Henger, la Ingerman, Max Parodi e qualche altro elemento minante rilasciato qui e lì, giova però anche di note liete, su tutti un ispirato Paolo Villaggio, trascinatore di un paio di monologhi strepitosi, un Enzo Iacchetti sorprendentemente morigerato nell’interpretare il migliore amico omosessuale che si innamora del protagonista, e poi delle vecchie glorie del teatro milanese quali Gisella Sofio e Piero Mazzarella.


L’influsso di qualche bravo attore si sente anche nella dinamicità della pellicola, i cinepanettoni più recenti hanno sempre sofferto la totale irrilevanza della storia, mortificata, con diabolica ripetitività, dalla vena caratterista dei comici che vi recitano, che qui invece non figurano. Dopo tanto tempo ci si ritroverà a seguire, senza trascendere per carità, la trama di una commedia non impegnata prodotta nel nostro Paese. Chiaro che qui non si aprirà un’era nuova, ma una ventata, anzi un alito, di una rivalutazione della risata facilona ricercata in un ritorno al passato è soffiato.
Chi si avvicina con supponenza ed esigenza si guardi bene, e giustamente, dalla visione della pellicola. Chi invece poco bada al mezzo cinema, all’espressione artistica e ai contenuti, ma che anzi non disdegna una capatina annuale da Boldi e De Sica, si goda questo film onesto e coerente con la propria natura, preferendolo ai già citati avversari, e non se ne pentirà.

VOTO 50/100
Tommaso Ranchino

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