giovedì 30 ottobre 2008

Recensione film: A corte do Norte




A corte do Norte racconta la storia di tre donne, in tre periodi storici diversi. Lo scorrimento delle vicende si ritrova, in un percorso circolare che termina ai giorni nostri, a inseguire la soluzione di un’enigma: la morte di Rosalina, donna vissuta a Madeira che aveva una impressionante somiglianza con la imperatrice Sissi, della cui dipartita non si è mai trovata prova concreta.
L’opera fa e disfa la trama troppe volte, i continui salti temporali e l’utilizzo di Ana Moreira, modesta interprete emergente portoghese, per dare il volto alle irrequiete protagoniste delle varie epoche creano una confusione che, stratificandosi col passare del tempo, distrae e quasi condanna lo spettatore ad una visione poco sensata.
Il lavoro di Botelho quindi non pone in primo piano la linearità e la coerenza della storia, si limita a costruire scene che si incastrano male tra loro, fornendo una complessità che una trama già contorta non meriterebbe. Tematiche come l’affermazione della donna, l’identità, il senso di appartenenza ad una famiglia sono reperibili, ma inefficaci e mal sviluppate. Emergono perché la costruzione di alcuni caratteri, attribuibile più al romanzo a cui si ispira che al lavoro di sceneggiatura di Botelho, è costruita verso una direzione ambigua ed enigmatica.
L’utilizzo del digitale in sostituzione della pellicola tra l’altro non aiuta, e allora A Corte do Norte soffre anche di un impatto visivo poco dinamico. La costruzione di ogni scena come fosse un’opera pittorica, significativo l’omaggio funzionale alla trama dedicato alla Giuditta ed Oloferne di Caravaggio, se da un lato inizialmente sorprende ed incanta, dall’altro annoia ben presto. D’altronde una serie di ottimi fotogrammi e di affascinanti screenshots privi di cinetica non produce quasi mai come risultato un film visivamente bello. E allora quello che potrebbe, e dovrebbe, essere il punto forza diventa un ulteriore passo falso.

Dal punto di vista contenutistico la cifra è relegabile al melodramma femminile d’epoca, in cui amori impossibili e attriti famigliari sono leit motiv a dir poco ripetitivi, e dove il confronto dei personaggi, che tra loro legano rapporti tipicizzati (le serve che s’innamorano dei padroni, le sorelle che provano amori platonici per i fratelli, ecc.), con la realtà sociale dell’epoca è affidata alle solite feste o rappresentazioni teatrali, più o meno eleganti e patinate a seconda degli episodi.
Un esperimento, quello del regista, poco riuscito. Forse il romanzo di Agustina Bessa Luis era poco traducibile in un cinema che potesse produrre un minimo di senso artistico, ed allora il risultato è un melodrammone appannato, sconclusionato che poco aggiunge in termini di qualità al materiale in concorso al Festival di Roma.
VOTO 51/100

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