venerdì 24 ottobre 2008

III Festival di Roma - Recensione di Un gioco da ragazze


È stato presentato al Festival di Roma, tra nasi storti e grasse risate (non cercate dagli sceneggiatori), Un gioco da ragazze, l’ultima pellicola generazionale che il Belpaese ci propone. Film accompagnato da mille polemiche scaturite dal bollino di V.M. 18 anni affrancato sul film di Matteo Rovere, un vero e proprio schiaffo in faccia per un progetto che cerca, e forse troverà dopo una piccola revisione di un paio di scene, la consacrazione nelle sale piene di ragazzine della fascia 13-18.
Il film attinge fortemente dal registro che aveva portato alla ribalta il mediocre Thirteen di Catherine Hardwicke: fotografare la vita di alcune ragazze, cresciute troppo presto, che tirano a campare tra un festino sex and drugs e situazioni familiari tutt’altro che serene, rendendole ancora più insopportabili delle parallele statunitensi a causa dell’agiatezza in cui immeritatamente sguazzano. Vite in cui “farsi una scopata” e “calarsi una bomba” sono le tappe di un percorso vuoto, superficiale, ripetitivo, ma essenziale per il riconoscimento all’interno della comunità sociale di riferimento, ossia la provincia benestante e ‘benpensante’. Il tutto e subito porta le protagoniste 17enni a trovarsi impantanate in crisi esistenziali ben più scabrose di quelle che l’età naturalmente suggerirebbe.
Il film di Matteo Rovere si presenta portando in dote un ridicolo elenco di tutti i clichè, snocciolati a raffica, e davvero non ne risparmia nessuno: il professore che cerca ed auspica un riscatto per la protagonista, che neanche lei va minimamente cercando, le ragazze che si comportano come le bullette di cui si sente nei TG commerciali, l’idolatrazione nauseante di dive pop quali Paris Hilton e Kate Moss, nemmeno nella scelta dei nomi un minimo di originalità, la solita stucchevole carrellata di droghe e di discoteche ‘tacchi e camicia’.
Se è vero che descrivere realtà superficiali e deprecabili sul grande schermo non vuol sempre dire esserlo a propria volta, ma spesso vuole essere una critica inconscia, in Un gioco da ragazze il tiro al bersaglio è sinceramente inevitabile. Quando s’intraprende un progetto lo si fa sempre in relazione ad un certo pubblico che si vuole andare ad interessare e verso il quale ci si rivolge, ma qui anche i moccio-mucciniani potrebbero, non per forza, sentirsi offesi da cotanta banalità ed inutile sottolineatura dello scabroso che infesta, a vedere questi film, le nuove generazioni . Un gioco da ragazze, insieme ad Albakiara, completa un viaggio cominciato con Tre metri sopra il cielo, attestandosi come punto più basso di un cammino iperbolico che è arrivato all’abbattimento di qualsiasi tabù o autolimitazione consapevole.
Provocazione o meno, la pellicola di Rovere, debole di una sceneggiatura grottesca, tocca nel finale il culmine di un disimpegno totale, non solo artistico, ma anche sociale ed etico.
Se ai tempi delle varie Bambi, Gin e Quattrociocche era una posizione supponente quella di chi si assurgeva a moralizzatore, questa volta il bisogno di un cambiamento e di un’inversione di tendenza è così forte da non sentire ragioni commerciali o generazionali che tengano.
Inutile sottolineare che la scelta di presentarlo al Festival di Roma ha qualcosa di inquietante ed oltremodo distorto nella sua macchinazione.
Restitueci la premiata Vaporidis-Capotondi! E ci siamo capiti…

VOTO 30/100
Tommaso Ranchino

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