lunedì 26 ottobre 2009

Recensione: Tra le nuvole

Clooney incanta il Festival con un personaggio che gli si cuce addosso, e il film piace a tutti

Ancora a Roma, ancora una full immersion nel microcosmo di personaggi anticonvenzionali per un Jason Reitman che, se è vero che tre indizi fanno una prova, dopo "Thank you for smoking" e "Juno" dichiara sommessamente al mondo cinefilo di essere bravo. E lo è per molti motivi, tanto per cominciare perchè con lui gli attori danno sempre il meglio, Aron Eckhart prima, Jennifer Paige poi, ancora si cullano e raccolgono i frutti delle loro esperienze reitmaniane. Lo è perchè il suo registro agrodolce ingenera risate sempre più intelligenti, pennellando favolette nere mai ridondanti.

Oggi la sua preda è la crisi profonda delle aziende statunitensi, che, costrette a ridurre drasticamente il personale, devono affidarsi a tagliatori di teste professionisti. Gente senza scrupoli e senza fissa dimora, che divora chilometri per licenziare i poveri disgraziati. E nella squadra hollywoodiana degli attori di mezz'età nessuno meglio del ragazzaccio dagli occhi languidi George Clooney poteva imbarcarsi in un ruolo non scontato come questo. Ed allora il mostro di Reitman prende presto forma, un uomo fissato con le carte fedeltà delle compagnie aeree, del noleggio auto, delle grandi catene alberghiere (e qui il product placement si spreca), che vive la sua esistenza, vuota, tra licenziamenti lampo e convegni nei quale promuovere un filosofia di vita tutta sua e alquanto deprimente. Tutto questo tra sequenze che ammiccano risate mai scontate.

Reitman si conferma abile domatore di stranezze, il film scorre e diverte, merito da dividere con Clooney questo, a volte è addirittura irresistibile, con un occhio sempre attaccato all'attualità degli Stati Uniti, e ai vizi di una società che da qualche tempo, Obama a parte, sembra essere arrivata ad un punto di saturazione preoccupante.
E' forse qui il merito maggiore di "Up in the air", nel forsennato andirivieni e avvicendarsi delle città degli States, l'occhio del protagonista attraversa in lungo e in largo un Pese intero, e quello dell'autore, parallelamente, va a fondo di un impianto sociologico dal denominatore comune.

Il film non si esaurisce qui, i personaggi si ritrovano inconsapevoli passeggeri di un percorso che porterà (quasi tutti) ad una risoluzione, o perlomeno maturazione, che segnerà il continuo delle loro esistenze. E Ryan (Clooney) sarà il collante, il deus ex machina che avvierà ogni processo interno ai personaggi che lo affiancano, trovando quell'amara consapevolezza che chiude il sipario.
Tutto è veloce, i ritmi incalzano lo spettatore. Un film da vedere, un gioiellino per il Festival di Roma.

VOTO 76/100

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